La vita di Gerolamo scritta da fra Placido dei Cinozzi

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Vita di Gerolamo Savonarola



di fra Placido dei Cinozzi



( Estratto di una lettera
di fra Placido dei Cinozzi, dell’ordine dei Predicatori di Firenze, “Sulla vita
e i costumi del reverendo padre frate Gerolamo Savonarola da Ferrara” a frate
Giacomo Siculo, vicario generale dello stesso ordine, dopo la morte del
sopraddetto profeta )



Adattamento alla lingua
corrente di Cristoforo



La vita del padre fra
Girolamo, fin dalla fanciullezza, fu sempre pura ed immune da colpa; e
soprattutto fu obbedientissimo sia ai genitori sia a tutti i superiori, ai pari
e agli inferiori; e visse al secolo senza alcun motivo di rimprovero, secondo
quanto i suoi familiari e molti altri mi hanno riferito. Fattosi poi religioso,
all’età di anni ventuno, come proprio lui mi disse in riferimento ai tre voti
essenziali e principali, non ho mai udito né visto alcuna cosa anche minima,
per la quale qualcuno si sia dovuto turbare o scandalizzare. E  quanto al voto della povertà, riguardo al suo
nutrimento, fu molto sobrio e semplice; riguardo al vestire sempre si rallegrò
di portare panni grossolani e semplici: e così avrebbe desiderato vedere gli
altri religiosi. E questi erano i suoi discorsi quando conversava con gli
altri, benché poco parlasse prima di venire fra noi in Toscana, dicendo sempre:
“Noi ci siamo allontanati dallo stile di vita dei nostri antichi padri”. E
parlandomi un giorno degli abusi del nostro tempo, e di quello a cui era
ridotta la religione, mi disse, come andando un giorno a caso per un convento,
non so se a Modena o a Piacenza, aprendo un uscio,  vide una tavola piena di conversi; e fra le
altre cose che egli vide, avevano a mensa molte torte di marzapane. Fu preso da
tanto zelo per onore di Dio che non poté trattenersi dal dire: “Ah, ah, poltroni,
un giorno la pagherete!”. Quanto alla castità, non soltanto non ho trovato uomo
che ne abbia sospettato, ma neppure qualcuno nella cui mente  sia mai venuto simile pensiero. Mi disse un
padre degno di stima: “Io l’ho confessato in Lombardia più di cento volte e
ogni volta dubitavo se egli avesse mai commesso un peccato veniale”; e lodava
molto la sua vita. Quanto all’ obbedienza, alla quale ha sempre tenuto più che
a tutte le altre virtù, perché si pone contro la superbia e, se qualche volta
la si può simulare, certamente è impossibile che in un tempo così lungo in
qualche modo non si fosse scoperta, sebbene egli abbia avuto familiarità sia
con i migliori ingegni dell’età nostra sia con i migliori uomini che si possono
trovare; aggiunto anche  come molti con grande
sagacia abbiano investigato su questo, e tuttavia in questo uomo si trova tutto
il contrario, cioè che fu obbedientissimo più di quanto un altro sia mai stato,
e non soltanto verso i suoi superiori, ma anche verso i più piccoli. E molti
altri lombardi mi hanno detto queste esplicite parole: “Benché egli conversasse
poco, tuttavia in tale frangente era tanto affabile e umile che ogni minimo frate
lo avrebbe fatto andare e stare a suo comando”. Sembra cosa impossibile che, se
in quell’uomo vi fosse stata falsità,  abbia
generato tanta gioia e una letizia così grande in tutti quelli che gli
parlavano e un desiderio altrettanto grande di star con lui: poiché  sia stato pure un uomo tribolato quanto si
voglia e anche indurito nel male, appena parlava, subito si scioglieva tutto il
cuore; e di tal cosa ci sono molte testimonianze. Da questa vita e da questo
insegnamento ne è seguito tra gli altri frutti questo in particolare:  essendo nella città di Firenze una grande
moltitudine di uomini e donne di diversi stati e condizioni, cioè nobili,
mercanti e altri artigiani e plebei, i quali erano così mal messi riguardo alla
fede e alle cose di Dio, come pubblicamente loro hanno detto e anche la loro
vita disonesta lo manifestava, che deridevano tutti gli altri. E, poiché era
ciascuno a modo suo molto sagace e astuto, pervertivano quasi il resto della
città; e in questo stato si trovava la maggior parte della città, quando questo
servo di Dio cominciò a predicare. E benché vi fosse una categoria di uomini
che frequentavano alcune belle e oneste cerimonie ed erano considerati gli
uomini migliori di Firenze,  benché
abbondassero di cerimonie esteriori, erano tuttavia vuoti di ogni carità e
amore di Dio e del prossimo, le cui pratiche quasi tutte si riducevano a se
stesse. E perché questa predicazione ha messo allo scoperto molte loro magagne
che prima non si conoscevano, si sono ingegnati con ogni loro forza di mettere
in ridicolo, non dico le cose future che lui preannunciava, ma anche la
dottrina, e sono arrivati a tanto, insieme con religiosi e altri sacerdoti di
Italia, che, per coprire i loro difetti, si sono molto scoperti, e per coprire
le loro nudità sono rimasti più nudi. Ma torniamo alla prima generazione,
chiamandola dei pubblicani e delle meretrici. Costoro venendo a bere alle acque
di questa predicazione, credendo fare di essa come avevano fatto   delle altre del passato, sono rimasti
inebriati in tal modo che non soltanto hanno abbandonato i loro cattivi costumi
e le disonestà, vivendo castamente e santamente, e restituendo il maltolto, ma
anche la roba, la reputazione e la propria vita. E per non fare un solo peccato
e non soltanto per non peccare, quanto hanno esposto la propria vita più e più
volte, allorché hanno creduto che fosse per l’onore di Dio! E tutto quell’ingegno
che avevano e adoperavano per il male lo hanno convertito in onore di Dio, nel
restituire il mal tolto, che ne è risultato un gran numero di denari ( come
disse una volta il padre fra Gerolamo, predicando, erano stati più di 100.000
ducati); ma anche hanno prestato gratuitamente al Comune e hanno fatto molte
elemosine; e poi ultimamente con la morte del padre, sono stati condannati a
pagare parecchie migliaia di fiorini e tuttavia in tutto sono stati pazientissimi.
Quanto alla fama, vero è che ci fu un tempo in cui chi credeva era tenuto in
palma di mano, ma dopo che fu percosso il padre, e che non fu più conveniente metter
da parte il proprio onore e  patire per
Cristo, subito i vapori caddero a
terra, le stelle si fermarono nel firmamento; e così con grande derisione e
soprattutto i più nobili erano sbeffeggiati; si sputava loro in faccia da gente
da poco. Presi, tormentati con diverse torture, qualcuno anche fu messo a
morte, come Francesco Valori, uomo molto retto e buono; e tutte queste cose
sopportavano con grande gioia. Ma più tormento avevano, senza paragoni, quelli
che facevano torturare anche se non avevano essi torturato di persona, perché
trovandoli innocentissimi in ogni cosa, temevano che, uscendo eletti dagli
stessi dei magistrati, un giorno questi non si vendicassero contro di loro. E
per essere  al riparo da ciò li
ammonirono che essi non potessero avere incarichi chi per due e chi per tre
anni. Per la qual cosa, conosciuta da tutti o dalla maggior parte la loro
innocenza e pazienza, furono restituiti al primitivo stato e assunti fra i primi
magistrati della città. Nè per questo mai alcuno si vendicò delle ingiurie
subite, ma amministrò a tutti la giustizia in modo uguale. Ma cosa dirò io
della morte di qualcuno, non dico della pazienza nel morire, ma della grande
gioia che sovrabbondava in loro nella oscura notte della loro cattura in San
Marco? Un giovane fra gli altri, di sangue nobile, che da lupo era diventato
agnello, da Lucifero, cioè superbissimo, mansuetissimo e umile (veramente ne
avevo piena conoscenza per aver avuto con lui molta familiarità ) che prima che
fosse  nominato teneva  l’arma in mano, bestemmiatore e tutto pieno
di vizi, poi ripieno di ogni virtù. Costui mi cadde quasi ai piedi ferito a
morte, con volto tutto allegro e gioioso mi chiese la Santa comunione, dicendo:
“Padre, non sono mai stato così contento; il Signore mi ha fatto una grazia
troppo grande”. E avendo la crocetta rossa in mano, baciandola e dicendo: “ Ecco
quanto è buono”, era tanta la gioia che si vedeva nel volto, che quelli che
erano presenti desideravano grandemente una simile morte. E così fattolo
comunicare da Fra Domenico da Pescia, confortando i circostanti e baciando
detta croce e dicendo “ecce quam bonum” spirò. Questo padre condusse alla vera
semplicità di Gesù Cristo un’altra generazione di uomini, cioè teologi,
filosofi, canonici e legali. E questi tali furono i più eccellenti che si
trovassero nella nostra città; fra i quali vi fu il conte Giovanni della Mirandola,
di ingegno grandissimo, il quale più volte lo sentii equiparare dal padre fra
Girolamo all’ingegno di S. Agostino e di San Tommaso. Questi dapprima era
contrario a tale opera, poi diventò favorevole e fautore di essa . Poi maestro
Domenico Benivieni, uomo assai singolare di vita e dottrina e unico nella
nostra città. Di poi, essendo a Prato in San Domenico, convocò un giorno a se
tutto il ginnasio pisano e fece una predica lunga tre ore. Erano presenti quasi
tutti e soprattutto i principali lettori dello studio; in questo discorso
dimostrò l’eccellenza della fede. E fu questo sermone di tale efficacia e di
tale forza, che quasi tutti ne furono presi, e soprattutto i suoi avversari, di
modo che messer Ulivieri, canonico fiorentino, considerato primo filosofo
d’Italia, disse queste precise parole, pubblicamente dopo che fu finita la
predica: “Scolari miei e tutti voi altri, andiamo e portiamo i libri dietro a
quest’uomo, perché appena ne siamo degni”. E tutti gli altri nemici diventarono
amici e frequentavano quanto era possibile le sue predicazioni, e pubblicamente
confessavano il loro errore e difendevano la verità. Detto messer Ulivieri una
invernata intera venne a udire fra Gerolamo in san Marco, e stava sino a due
ore di notte, non senza suo gran disagio perché era pure avanti in età e
corpulento. E ancor di più sentii allora che egli richiese al padre che lo
vestisse: infatti morì . Da ultimo mi rimane da raccontarti il frutto che ha
fatto questa dottrina nei fanciulli e nelle fanciulle della città; ma prima riguardo
alle fanciulle, che ,come sai, sembra che naturalmente non abbiano altro desiderio
se non di adornarsi e  di rincorrere cose
grandemente lascive e vane e, in questo, spendere quasi tutto il loro tempo. La
qual cosa per le predicazioni del padre lasciarono del tutto. Non parlo semplicemente
della dignità del loro stato e di ogni decoro che si richiede a simile stato,
ma di ogni cosa superflua e portamento disonesto, dicendo alla madre e
soprattutto le nobili: “Madre nostra, quello che avresti speso in nostro ornamento
datelo ai poveri di Gesù Cristo”. E così datesi tutte al Signore vivevano in
una grandissima carità. Ma potrò io mai con umana lingua narrarti il
cambiamento e la mirabile conversione, stupenda e quasi impossibile di
parecchie migliaia di fanciulli di ogni condizione? Questi, quali fossero prima
e quanto immersi in ogni vizio, lo sanno tutti gli uomini di questa città,
quanto superbi nel vestire e quanto sfacciati negli altri ornamenti, in modo
che da come portavano i capelli sembravano non solo fanciulle, ma addirittura
pubbliche meretrici; disonesti nel parlare e nelle opere, soprattutto in quanto
al vizio della sodomia poiché  era simile
Firenze ad un’altra Sodoma, cosa certamente orribile; erano anche giocatori,
bestemmiatori e molto aperti a ogni tipo di vizi; questi, alle prediche del
detto padre, mirabilmente cambiarono, anzi deposero ogni vanità nel vestire,
nella capigliatura, nella borsa e in tutto il resto. Si emendarono dai vizi
sopraddetti e diventarono ferventi a tal punto che erano di esempio a tutta
Firenze. Si vedeva di certo rifulgere, in quei volti uno splendore di grazia
divina, in modo che in virtù di loro si facevano cose grandissime. E
soprattutto si adoperavano per estirpare i giochi della città e del contado;
dividendosi in molti gruppi, venticinque o trenta, andavano a vedere se si
giocava; e dove trovavano giocatori, prima che iniziassero, o con buone parole
o con minacce, e qualche volta con forza toglievano loro le carte, i dadi e i
loro strumenti; in maniera  che avevano
creato tal terrore di loro fuori e dentro che rare volte i giocatori li
aspettavano, perché sapevano che non c’era alcun rimedio. E, quando da soli non
avessero potuto, avevano il favore degli Otto e dei Signori, i quali li favorivano
assai; per questo mai si trovò che facessero scandalo alcuno per un tempo così
lungo. Così si ridusse la città in quel tempo in un vivere buono e santo: e invece
di fare a sassate, vizio assai dannoso, che per molte centinaia di anni
signorie e altri magistrati e centinaia di predicatori non avevano mai potuto
rimuovere, usando tutte le loro forze, il padre frate Gerolamo con una semplice
parola tolse ogni cosa. E questi fanciulli, i primi della città, invece di
raccogliere sassi andavano a raccogliere per i poveri e per il Monte della Pietà,
e in un tempo maggiore e in  un maggior numero
di pubbliche  donazioni , questi
fanciulli raccolsero molte centinaia e centinaia di ducati, pur essendo loro
più volte rimproverati ,e venendo loro rivolte parole disoneste e loro in  tutto pazientissimi. E, fra le altre, una
volta mi trovai che uno di età di anni cinquanta o circa, nobile  di sangue, ma non quanto alle virtù, chiamando
alcuni di questi fanciulli e fortemente turbato disse: “Voi siete figli di
uomini dabbene e non ne portate il ritratto. Lasciate stare queste cose,
pensate al piacere, e a fare a sassi come eravate soliti”. Alle quali parole
uno di loro rispose con grande benevolenza, dicendo: “O padre nostro, noi
credevamo che voi ci lodaste di questa cosa, e che fortemente voi ci riprendeste
quando facessimo a sassi o ad altre cose disoneste, e voi fate tutto il
contrario”. Alla quale risposta adirato disse: “Voi siete molto tristi”, e
passò via con molta furia. E simili cose spesso capitavano loro; poiché quelli
che dovevano essere loro di esempio erano 
di impedimento, a parole e a fatti. Ma che dirò io della grande
obbedienza che essi portavano al padre e alla madre? Sapete quanto è difficile
allevare i figli in Firenze. Erano diventati non soltanto obbedientissimi ai
loro genitori, ma mostravano una grande mansuetudine e rispetto verso tutti
quelli con i quali dialogavano, e non parlavano d’altro se non di Gesù Cristo,
senza alcuna ipocrisia, ma con grande sincerità in ogni loro azione.



Riguardo all’ascoltare le
prediche del padre frate Gerolamo e la Parola di Dio, erano molto solleciti e,
soprattutto, così desiderosi che ogni mattina erano i primi a prender posto,
contro ogni inclinazione infantile; e qui stavano, spesso  due o tre ore prima, in gran silenzio,
dicevano le loro preghiere o cantavano litanie o versetti a ciò preparati o
altre lodi, sino a quando il padre saliva sul pulpito; e tutto facevano seduti
su certi gradini a loro riservati. Credo che il numero registrato  fosse ogni mattina più di duemila, benché
negli ultimi tempi fossero molti di più; al punto che padre frate Gerolamo
ordinò che fossero divisi secondo i quattro quartieri di Firenze e si
nominassero loro custodi e guide, e assegnò loro fra Domenico da Pescia perché
li istruisse in tali cose, e perché stessero occupati in maniera buona e
lodevole. Stabilirono dunque questi fanciulli che si purificasse tutta la città
da molte vanità e superfluità, come erano carte, tavole da gioco, dadi, pitture
sconce, veliere, rilievi disonesti, scacchiere, arpe, liuti, chitarre, capelli
finti, tavole, tele di pitture preziose ma lascive, specchi, pettini, profumi,
ampolle e simili cose. Andavano dunque questi giovanetti dabbene per le case
dei cittadini con grande umiltà e chiedevano simili cose. Erano molti quelli che,
volentieri per amor di Dio, le davano e questi ricevevano la benedizione da
loro. Trovavano qualche volta degli scellerati che li offendevano e anche lì
percuotevano e loro sopportavano pazientemente. E tal cosa durò molti mesi,
così che  si radunarono  molte cose e quasi da non contare, le quali
furono valutate più migliaia di ducati. A queste cose, in presenza di tutto il
popolo sulla piazza dei Signori, fatta prima una costruzione bellissima di
legno, dove furono elegantemente sistemate tutte le  sopraddette con mirabile distinzione, alla
presenza di questi giovanetti e chi con trombe pifferi e campane, si diede fuoco
con grandissimo giubilo. Il giorno in cui si fece questo fuoco, che fu il
giorno di carnevale, si comunicarono in S. Marco, fra uomini, donne e fanciulli,
in molte migliaia, con canti e inni che sembrava che gli angeli fossero venuti
a giubilare con gli uomini. Queste opere si facevano in Firenze al tempo del
padre Fra Gerolamo. Guarda che frutti mirabili erano questi! Oh che gloriosa
città era quella! Mi ricordo che fece fare il padre fra Gerolamo una
processione di fanciulli la domenica dell’Ulivo, tutti vestiti di bianco; il
numero di questi salì a più di cinquemila, e furono contati di proposito,
perché questo fatto fu giudicato cosa mirabile e stupenda; poiché andavano con
tanta umiltà e compostezza e ordine che facevano stupire ognuno. Ciascun
quartiere aveva il suo simbolo, sotto il quale andavano tutti con una croce
rossa e con l’ulivo in mano: sul capo ognuno portava una ghirlanda. Dietro a tutti
seguiva una innumerevole moltitudine di uomini e donne. Terminata la
processione si radunarono sulla piazza di S. Marco  con i loro tabernacoli e le insegne, e tutti i
frati di San Marco uscirono fuori e
fecero un ballo intorno alla piazza, in albis, e cantarono e saltarono a
imitazione di Davide intorno all’arca. E veramente questo fu un giorno
meraviglioso e stupendo, nel quale certamente impazzì per gioia e contentezza
tutto quel popolo. Di seguito cominciarono questi giovanetti a riandare per la città
un’altra volta per purificarla; e ricevettero di simile cose lascive in numero
maggiore e ancor più belle. Ma quello che era stato ordinato non si poté
mandare ad effetto per la malignità di molti, perché in quel tempo fu preso e
ucciso il detto padre frate Gerolamo. Queste cose lascive si arsero poi
nell’orto di San Marco. Chi volesse comprendere meglio e di più il frutto
meraviglioso di questi fanciulli e l’ordine di tutto legga Gerolamo Benivieni
nel suo grande volume, nelle canzoni e nei sonetti che lui fa di amori celesti,
in un commento sopra certe canzoni da lui composte a proposito di queste
processioni e feste. Nell’anno del Signore 1481, essendo detto padre frate
Gerolamo, dell’ordine dei predicatori dell’osservanza,  studente in santa Maria degli angeli in
Ferrara, e ,a causa della guerra che avevano mosso i veneziani al duca di
Ferrara, essendo entrato in questa città ogni accorgimento  riguardo al tutto e ad ogni cosa in
particolare, fu egli assegnato dai suoi superiori in San Marco. Ma essendo
priore maestro Vincenzo Bandella, conosciuta la sua dottrina e bontà, lo fece
lettore in S. Marco; e, secondo quanto mi riferì un certo frate timorato e suo
discepolo,  fra Gerolamo per
l’insegnamento e per l’esempio era da tutti tenuto in gran venerazione, e tutti
esortava molto a studiare la Scrittura: riferendomi questo tale che il più
delle volte che lui veniva a leggere lo aveva osservato che aveva gli occhi
bagnati di lacrime, poiché  aveva
piuttosto meditato qualcosa che studiato la lezione. Ma, poiché la possedeva
molto bene, convinceva ottimamente. In seguito, la Quaresima dopo, fu scelto a
predicare in San Lorenzo; e, poiché né in gesti né in pronuncia soddisfece
quasi a nessuno, al punto che mi ricordo, avendolo udito tutta la quaresima,
alla fine rimanemmo fra uomini e donne e fanciulli meno di venticinque. Per
questa ragione, vedendo questo, e anche essendogli detto da altri, come li udii
dire poi più volte, deliberò di lasciar stare del tutto il predicare e di
continuare la lettura; e tornò in Lombardia. Poi nell’anno 1489, avendo questi
frati di San Marco fatta una pressante richiesta di riaverlo, lo ottennero per
il capitolo e fu lui assegnato per lettore. E così cominciando a leggere la Parola,
piacque a tutti quei padri che in chiesa, il giorno delle feste dopo vespro, si
leggesse qualcosa delle Scritture. E così per obbedienza la prima domenica di
agosto 1489, cioè il primo di questo mese cominciò a esporre l’Apocalisse, e
sopra questo testo propose quattro cose principali: la prima, la verità della
fede di Gesù Cristo, la seconda, la verità del vivere bene cristiano; la terza,
il rinnovamento della Chiesa, la quarta la conversione degli infedeli. L’anno
seguente, cioè nel 1490, fu eletto priore di San Marco. E poiché molti, anzi
tutti, avendo mostrato la sua dottrina e bontà e la dolce conversazione che era
pieno di spirito Santo, ammaestrandoli sempre e confortandoli dolcemente che
essi si impegnassero per avere qualche profitto nella vita spirituale e che si
prendessero cura dei cattivi costumi del tempo presente; per questo più e più
volte lo esortarono perché si trovasse un modo per poter giungere a questa
perfezione. E poiché sembrava impossibile, stando tutti insieme, conseguire ciò,
pensarono che sarebbe stata  cosa buona staccarsi
dalla Lombardia, dicendo che questo non era una novità, ma che anticamente la
Toscana era separata dalla Lombardia . In breve tempo  sottoscrissero ciò, attraverso un notaio, più
di cento frati. Lui dunque, visto questo, mise mano all’impresa, e così ottenne
il risultato sperato, contro l’opinione e il potere di molti principi d’Italia
e di altri grandi prelati. Nel tempo in cui si mandava in esecuzione tale cosa
lui faceva fare ogni giorno quattro volte preghiere comuni per questa cosa in
particolare. E per i grandi contrasti e per le impugnazioni cui andava incontro
tale cosa, molti di quelli che si erano sottoscritti, anzi la maggior parte,
cominciarono fortemente a temere, pensando di essere tutti dispersi poi da
questi frati lombardi. E lui più volte pubblicamente disse loro che non
avessero alcun timore, perché si sarebbe ottenuto in ogni modo, poiché questa
era la volontà di Dio: e questo sentii dire da più persone che più volte lo
avevano udito da lui: anche se lo sentii dire dal padre frate Girolamo,
dicendolo in loro presenza: “Io vi dissi già che questa cosa è da Dio, e in
ogni modo la otterremo”; e loro acconsentivano che era vero. Dubitarono poi i
frati che, benché questo si ottenesse, morto lui non sarebbe durato. Rispose a
questo che sarebbe durato in ogni caso.



L’ultimo giorno in cui si
ottenne il breve di questa separazione, la santità del nostro signore
Alessandro VI, avendo convocato tutti i cardinali al concistoro necessario per
più cose, disse loro che, per quel giorno, non voleva assegnare alcun breve:
che avessero pazienza, che doveva spedire cose importanti. Poi, al termine del
giorno, licenziò i cardinali circa alle ore 23:30 e il cardinale di Napoli,
nostro protettore, rimase con lui e togliendosi di dosso il breve, disse: “Beatissimo
padre, prego la santità vostra di voler segnare questo breve”; e rifiutando lui
il tutto, il cardinale, facendo pressione su di lui con una dolce parola, gli
tolse l’anello dal dito e lo segnò lui stesso; e presa  licenza dal pontefice, lo dette a frate Domenico
da Pescia, che era lì fuori che lo aspettava col compagno. E così, avuto questo
breve, discendendo le scale del palazzo, i frati lombardi le salivano con
lettere di principi al pontefice (credo che fra gli altri vi fosse il duca di
Milano) e altri prelati, le quali lettere contenevano che non si facesse tale
separazione. Quando giunsero su, presentate che le ebbero, il Papa rispose: “Se
fossero arrivate prima, pochi minuti fa, sarebbero state esaudite”. Otto giorni
prima che si ottenesse il detto breve, il vicario generale di Lombardia mandò
una prescrizione al padre fra Gerolamo, sotto pena di scomunica, che, vista la
presente, senza alcuna scusa andasse a trovarlo. E questa prescrizione la
indirizzò al priore di Fiesole, facendo anche a lui una prescrizione che,
immediatamente, vista la lettera acclusa, la porgesse nella mano stessa del
padre fra Gerolamo: e perché arrivasse in modo più sicuro, mandò appositamente
uno. Ma senti quello che accadde. Il detto priore, il giorno in cui costui
venne con queste lettere era venuto a Firenze per faccende del convento. Il
portatore le diede in mano al vicario del convento, dicendogli l’importanza di
tale lettera, e se ne venne a Firenze. Il detto vicario prese la lettera, e per
non dimenticarsene la mise nella stanza del priore, sulla tavola da pranzo,
dicendo: “E’ impossibile che appena torni non la veda”. Alla sera torna il
priore ; il vicario non si ricorda della lettera e il priore non la vede; e
così andò per otto o nove giorni. Poi, quando piacque a Dio, il priore,
guardando sulla tavola, vide questa lettera e apertala, subito, preso il
compagno, va a Firenze per fare quanto in quella è scritto. E, datala in mano
al padre fra Gerolamo, questi alquanto sorridendo gli rispose: “O padre priore,
se voi me l’aveste portata ieri avrei fatto quanto in essa contenuto. Ma ieri
sera noi abbiamo avuto un breve da Roma, che siamo separati dalla
Lombardia”.  Pensa lo stato d’animo del
priore, considerando che a causa sua e del suo vicario del convento era
accaduto tale guaio! E questo mi disse più volte frate Silvestro in pubblico e
in privato. Leggendo dunque il padre fra Gerolamo nell’anno sopraddetto l’Apocalisse,
e riprendendo aspramente i vizi, e dimostrando attraverso le Scritture che era
necessario il rinnovamento della Chiesa per gli infiniti peccati del clero,
egli così diceva spesso: “Io sarò come una grandine, perché spezzerò il capo a
quelli che non staranno al coperto”. In modo che molti cittadini, suo amici, preoccupati
per le difficoltà interne, perché temevano di dispiacere al popolo e a Lorenzo
dei Medici, e a lui non osavano dirlo per la gran stima che gli portavano,
molte volte lo invitarono a lasciar stare questo modo di predicare e a seguire
l’antico; e lui a tutti rispondeva che quello era il vero modo di predicare, e
che in qualsiasi modo quella dottrina che lui predicava si doveva allargare e
fare gran frutto. E ancor più disse che alcuni famosi predicatori avrebbero
perso la loro fama, e che sarebbe rimasta in piedi solo questa dottrina, benché
dovesse subire molti contrasti e tribolazioni. Vedendo dunque Lorenzo dei Medici
che la fama di questo padre cresceva e che non aveva alcun riguardo nel suo
predicare, poiché metteva troppo allo scoperto la sua nascosta tirannide, usò
più artifici e modi per renderselo benevolo come era solito fare con molti
altri, secondo quanto mi disse il padre frate Gerolamo; ma non giovandogli
alcuna cosa, mandò cinque degli uomini più importanti della città i quali sono:
messer Domenico Bonsi, messer Guido Antonio Vespucci, Francesco Valori, Paolo
Antonio Soderini, Pier Filippo Pandolfini ovvero Bernardo Rucellai. Questi con
gran reputazione erano stati ambasciatori al Papa e al re di Napoli, dai Veneziani
e a Milano, ed erano uomini molto onorati e considerati, molto avveduti in
quello che facevano. E disse loro che fingessero di andare di propria volontà
per il bene pubblico della città e che lo esortassero a predicare come tutti
gli altri; e che non si impicciasse riguardo alle cose future o ad altre in
particolare. Questi, giunti in San Marco,  fecero la loro proposta che lasciasse da parte
simili argomenti; ma come intesi allora, temettero assai nel parlare, a tal
punto che sembrava che le lingue si appiccicassero loro al palato. Alla quale
proposta il padre fra Gerolamo rispose in tal modo: “Voi dite che venite a me spontaneamente
per amore del bene pubblico e della vostra città, ma non è così. Lorenzo dei Medici,
è lui che vi manda. Ma ditegli da parte mia che lui è qui cittadino di Firenze
e il primo, e io sono straniero: che lui deve partire e presto e che faccia
penitenza poiché Dio  vuol castigare lui
e tutti i suoi; e che io devo rimanere. Lui deve andare e io devo stare” .
Cosicché tutti i cinque non seppero rispondere cosa alcuna, e presa licenza, se
ne andarono. E benché io lo venissi a sapere lo stesso giorno  , udii poi che  replicò la cosa sul pulpito, e vi erano
presenti due dei predetti cittadini, i quali fecero cenno ai circostanti che
era tutto vero. Vedendo dunque Lorenzo che questa cosa non aveva avuto l’effetto desiderato, anzi il
contrario, perché si cominciò a diffondere per la città come questi uomini
erano rimasti confusi, tirò in ballo le cose spirituali, cioè di toglierli la
fama grazie agli uomini spirituali. E così fu. Vi era in quel  tempo maestro Mariano della Barba, frate
osservante eremitano, il quale aveva predicato in Firenze più quaresime e in
san Gallo più tempo nei giorni di festa e aveva avuto sempre un ammirevole
ascolto, più di ogni predicatore che fosse stato a Firenze trent’anni prima o
più; al quale detto Lorenzo aveva fatto costruire il convento di San Gallo e
aveva fatto molti altri benefici, così che  l’aveva messo in grande stima presso tutti gli
uomini dabbene; e lui più volte con qualche parola lo esaltava dai pulpiti,
benché in modo accorto, perché era astuto. Il padre frate Gerolamo, invece, predicava
riprendendo i vizi e soprattutto toccava tutti i tasti e non aveva alcun
riguardo. Ordinò Lorenzo al detto fra Mariano che facesse una predica nella
quale si dicesse che predire cose future non era che mettere sedizione nei
popoli. La qual cosa Lorenzo ottenne da lui con poca fatica , sia per i grandi
benefici fattigli sia anche perché lui vedeva venir meno a poco a poco il
grande consenso intorno a lui e soprattutto quello degli uomini dabbene ed
intelligenti. Fece una predica il giorno dell’ascensione credo nell’anno 1491
in San Gallo, dopo vespro, e propose questo tema: “Non sta a voi conoscere i
tempi o i momenti…”; E nel suo procedere mostrò tanto accanimento che anche
quelli che erano suoi amici e suoi difensori si accorsero che procedeva tutto
da una grande passione. E io mi ricordo, essendo presente a questa predica, poiché
ero uno di quelli che piuttosto stavano dalla sua parte che da quella di padre
Fra Gerolamo; e quella fu un motivo per  abbandonare le sue prediche insieme con molti
altri. Vi fu a questa predica Lorenzo e il conte Giovanni della Mirandola, che
anche lui allora era contro fra Gerolamo, messer Angelo da Montepulciano e
quasi tutto il fiore degli uomini dabbene; in modo che all’uscire dalla predica
vi fu  fra tutti una divisione. Ma certo
quella fu una buona ragione  per fargli
perdere la reputazione che aveva acquistato in parecchi anni; e credo anche che
fosse l’inizio in cui il conte della Mirandola si ritirò da lui insieme con
molti altri. E soprattutto per il fatto che vi si aggiunse questo:  essendo riferito al padre frate Gerolamo e
predicando in seguito la domenica successiva a quella dello spirito Santo,
riprese il medesimo tema cioè: “Non sta a voi conoscere i tempi…”, E spiegò
come si deve intendere, dando piena soddisfazione a quelli che ascoltavano e
poi con fare molto mansueto disse alla fine della predica: “Fratello mio avrei
caro che tu fossi presente, spero tuttavia che ti sarà riferito: non sei tu che,
non  molti giorni fa,  venisti qui da me in San Marco e con tanta
umiltà e mansuetudine mi mostrasti che questo nostro predicare ti piaceva molto
e che stava per far molto frutto offrendoti tu a me, in tutte le cose che tu
potessi fare, di essere sempre prontissimo, con molte altre simili parole? Chi
t’ha dunque messo in testa tali cose? Per quale ragione ti sei così presto
rivoltato?”. In questo modo fu chiaro a tutti che aveva fatto tale cosa per
compiacere ad altri e anche per vedersi diminuire ogni giorno sempre di più gli
ascoltatori. E così penso che questa fosse la ragione per cui, vedendosi in
qualche modo svergognato, partì e andò a Roma e qui si sforzò di sconfiggerlo
per più anni e in pubblico e in privato e non soltanto lui quanto tutto l’ordine
di San Domenico. In questo tempo gli venne una grave infermità che quasi tutto
si scoraggiò e fu consigliato dai medici che andasse ai bagni di Pozzuoli, al
di là di Napoli, dove visse con gran pompa e grandi apparati, in modo che
meravigliò molti che erano a questi bagni. Finalmente nel ritornare a Roma ebbe
notizia come quattro dei suoi frati erano annegati con le loro cose; e fu tanta
la sofferenza che patì che uscì di sé, e così lungo la via morì senza altri
sacramenti. E benché lo tenessero nascosto più giorni tuttavia in quel
farneticare diceva sempre: “Presto, a Roma, a Roma io sono cardinale; il Papa
manda a dire attraverso di me” e simili parole. Questa fu la su fine. Avendo
detto Lorenzo provato in tutti i modi propri e con molti di altri e nessuno
giovandogli, stava così prendendo tempo: perché essendo già nella stima del
popolo e di molti uomini dabbene, non vi vedeva tornare ad onore suo  fare cosa alcuna con asprezza. Come piacque a
Dio, si ammalò detto Lorenzo e aggravandosi, in poco tempo venendo a morte,
mandò un messo al detto padre frate Gerolamo, dicendo queste precise parole. ”Andate
dal padre frate Gerolamo perché io non ho mai trovato uno che sia vero frate se
non lui”. E così andando a Careggi, poiché qui si trovava, e venendo da lui, dopo
alquante parole disse che si voleva confessare. E il padre frate Gerolamo disse
di essere contento, ma che prima della confessione gli voleva dire tre cose; se
lui le faceva non doveva dubitare in alcun modo della sua salvezza. Lui rispose
di essere contento e che voleva farle. Il padre disse: “Lorenzo, dovete avere
una grande fede”. Al quale rispose: “Padre, questa c’è”. Allora fra Gerolamo
soggiunse la seconda: “Bisogna che restituiate il mal tolto”; e lui stando
alquanto sopra di sé disse: “Padre, in ogni modo io lo voglio fare o lo farò
fare ai miei eredi, non potendo io”. Il padre gli disse la terza: “Bisogna che
voi restituiate la libertà della città alla Repubblica, e facciate in modo che
rimanga nel suo primo stato”. Alle quali parole non dette mai alcuna risposta .
E così andandosene detto padre, senza altra confessione, non molto tempo dopo
morì. E queste parole le udii da frate Silvestro che morì con padre frate
Gerolamo, così che credo a ragione che l’abbia saputo e  sentito dire dal padre fra Gerolamo. A molti
suoi amici, come dice anche maestro Domenico Benivieni,  e Alessandro Acciaiuoli il quale fu presente
nella sagrestia di S. Marco, predisse questa morte di Lorenzo dei Medici e di
papa Innocenzo VIII, di re Alfonso, figlio del re Fernando, la venuta in Italia
del re di Francia, la perdita dello stato del duca di Milano. Rivelò il segreto
del suo cuore a più persone e tra gli altri, come dice maestro Domenico
Benivieni di esserne a conoscenza, specialmente a frate Francesco Chieri,
procuratore dell’ordine dei predicatori. Il quale, non comportandosi  rettamente 
né secondo verità, ma falsamente e nascostamente, in cuore suo era
contrario al padre frate Gerolamo. Della qual cosa rimproverandolo il padre, lui
negava e piangeva dicendo: “Io non sarò mai contrario né a voi né alle opere
vostre”. Il padre frate Gerolamo da ultimo gli disse simili parole: “Tu  fai finta di credermi e non mi credi, sarai
mio avversario; ma alla fine Dio ti scoprirà”. Costui fu quello che  con Alessandro VI, per sua improba
giustificazione, si tolse di dosso alcune lettere che avevano scritto vari
frati di San Marco come accusa nei confronti di padre frate Gerolamo, e le mostrò
al pontefice, e disse: “Vedete, santissimo padre, queste sono lettere dei frati
di San Marco”. Ne venne come conseguenza che il pontefice per assolvere se
stesso disse poi al maestro dell’ordine: “I tuoi frati ti hanno consegnato a
me”. Se poi fu scoperto, lo giudichino coloro che l’hanno dovuto approvare. Ma
la morte alla fine conferma ogni cosa: poiché morì credendo di non dover mai
morire e senza i sacramenti della Chiesa, con molti comportamenti da
femminucce, dicendo: “Come è possibile che io debba morire?” E molte altre cose
simili…



Nel 1494, predicando in San
Lorenzo disse  queste parole (essendo in
pace tutto il mondo, alla fine era deriso dalla maggior parte ): “Credete a
quello che vi dico, verrà presto uno di là dai monti a modo di Ciro, al quale
Dio sarà sua guida e comandante e nessuno potrà resistergli, e prenderà le
città e le fortezze con le ricchezze e tutti gli animi si turberanno”. Predisse
ai fiorentini nelle medesime prediche: “Quando verrà questo come Ciro, allora,
Firenze, tu sarai come ubriaca, dubitando assai con chi tu debba fare alleanza
e poi, dopo molte consulte, la prenderai a rovescio cioè con quello che ebbe a
perdere. E così fu: poiché, quando si seppe con certezza come questo re di
Francia assolutamente voleva passare, sera e mattina si tenevano consigli,  e per la diversità di opinioni se ne usciva
senza alcuna conclusione…



Disse che questa doveva
essere la prima delle tribolazioni d’Italia e che Roma doveva essere
completamente sottomessa in questi tempi. Disse anche in pubblico e in privato:
“Questa luce che io predico deve patire grandissime tribolazioni e contrasti,
maggiori di quella dei martiri, perché dobbiamo combattere contro una doppia
potenza, doppia sapienza e doppia malizia; tuttavia non sarà mai calpestata:
anche da questo deve nascere tutto il rinnovamento della Chiesa”…  Disse, essendo il re di Francia venuto a
Pisa, che i fiorentini dovevano soffrire molte tribolazioni, ma non la
distruzione del loro stato. Essendosi ribellata Pisa, per la venuta del Re ,
disse che sarebbe tornata del tutto sotto il dominio dei fiorentini, non con la
forza, ma piuttosto miracolosamente…



Venendo poi il re di
Francia in Firenze, e essendovi rimasto otto giorni con molto timore di tutto
il popolo, che in quel tempo si sollevò  tutto in armi… frate Gerolamo, essendo a
mensa, costretto credo dalla Signoria, disse a tutti i suoi frati che dopo la
messa se ne andassero a pregare e qui in coro stessero tutti inginocchiati per
terra finché lui tornasse; poiché dubitava che quel giorno si facesse un gran
massacro nella città e che voleva andare di persona sino alla maestà del Re: e
prese come suo compagno fra Tommaso Bulini e andò a trovare detto Re che era
alloggiato in casa di Piero dei Medici; e giunti alla porta gli si fa incontro
la guardia del Re, dicendo: “Dove andate voi? Tornate indietro, che la maestà
del Re e i suoi baroni non vogliono che entri alcun uomo e soprattutto voi,
perché non siate di impedimento, poiché vogliono mettere a sacco tutta la città”.
E stando così il padre frate Gerolamo un po’ in pensiero, questa guardia si
girò per un po’ dall’altra parte e, come mi riferì frate Tommaso Brusi  (mi disse proprio queste parole): “Noi passammo
la seconda e terza guardia e ci trovammo nella stanza dove era il re, senza che
ci fosse detta alcuna parola, e giunti dove lui era già tutto armato, il padre
frate Gerolamo cominciò a parlargli vivamente, dicendogli in conclusione che
era volontà di Dio che egli se ne andasse e che non facesse nulla alla città e
in caso contrario sarebbe capitato male. Fu tanto il terrore che gli entrò
addosso che, partito il padre frate Gerolamo e firmati i capitoli come piacque
al padre, senza alcun cittadino di Firenze, non passò molto che, sapendolo
pochissimi dei suoi, montò a cavallo e uscì fuori della città non senza grande
meraviglia di tutti”… Predisse, avendo già soggiogato il regno di Napoli, che
doveva egli tornare indietro, perché tutti erano dell’opinione che egli andasse
alla conquista di Costantinopoli e già tutte quelle parti della Grecia per la
sua fama sino ad Adrianopoli erano state abbandonate, e i turchi avevano forte
timore..



Predisse tornando da Napoli
detto re, essendo a Siena e come pubblicamente si diceva, che il Re voleva fare
al ritorno quello che non aveva fatto all’andata, cioè mettere a fuoco e fiamma
tutta la città; predisse, dico che avrebbe mandato queste nuvole e tempesta a
piovere altrove; e così fu che piovvero con un gran danno degli italiani.



Predisse anche che, se egli
non avesse reso Pisa ai fiorentini e non li avesse trattati bene,  gli sarebbe morto il figlio e ancor più Dio
gli avrebbe tolto la vita, e così fu. Come adempimento venne la notizia della
sua morte la mattina della notte in cui era stato presso il padre fra Gerolamo.



Predisse ai fiorentini che
il nuovo Stato che avevano creato dopo la cacciata di Piero dei Medici non
sarebbe durato, perché non era secondo la volontà di Dio; e come dovevano
crearne un altro, poiché quello doveva rimanere: la qual cosa a tutti sembrava
impossibile sia per essere cosa nuova sia anche perché quelli che reggevano in
quel tempo erano quasi tutti contrari a questo.



Predisse anche
pubblicamente che questo nuovo stato se per malignità di qualcuno fosse andato per
terra, nel giro di poco tempo si sarebbe ricostruito e allora avrebbe avuto la
sua perfezione…