Lettera ad Eustochio seconda parte

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Cap. 2

Passiamo ora a descrivere più diffusamente la sua virtù propria, nel parlare della quale - e Dio mi è giudice e testimone - professo che nulla vi aggiungo e non amplifico affatto a modo dei lodatori; anzi, affinché non si creda che io dica più del dovuto, protesto che passo sotto silenzio molte cose. E questo lo faccio soprattutto perché i miei detrattori, i quali con dente canino sempre mi rodono, non si persuadano che io finga e adorni con i colori di altri la cornacchia di Esopo. Essa dunque abbassò se stessa con umiltà così profonda, virtù che è la prima dei cristiani, che chi non l'avesse veduta e per la fama del suo nome avesse desiderato di vederla, non avrebbe stimato che fosse essa ma piuttosto l'ultima delle sue ancelle. Ed essendo circondata da numerosi cori di vergini, per la maniera di vestire, alla voce, all'abito, e al portamento era la minima di tutte.  Dopo la  morte del marito, fino al giorno della sua morte non mangiò mai con alcuno uomo, sebbene sapesse che quello era santo e costituito nell'alto grado di vescovo. Non usò i bagni se non costretta da qualche infermità. Quantunque gravemente oppressa da febbre, non si coricò su molli materassi, ma distesi sul suolo alcuni suoi piccoli cilici qui prendeva riposo, se pure  può chiamarsi riposo quello in cui la pia donna, quasi in continue preghiere, passava i giorni e le notti, adempiendo ciò che si legge nel salterio, cioè: “Io lavavo ogni notte il mio letto, con le mie lacrime bagnerò il mio giaciglio”. Avresti pensato che in lei  fosse la fonte delle lacrime. Con pianto così copioso  ella lavava le colpe leggere che l'avresti giudicata rea di grandissimi misfatti. Ed essendo da me spesse volte ammonita che avesse riguardo ai propri occhi e li conservasse per leggere il Vangelo, mi diceva: “Deve sporcarsi questa mia faccia, perché spesso da me contro il divino precetto è stata dipinta con rossetto, biacca e antimonio. Voglio affliggere questo corpo che si è dato a tanti piaceri. Conviene che un lungo riso da perpetuo pianto venga compensato. I molli lini e i drappi preziosissimi devono cambiarsi in aspri cilici.
Io che piacqui qui già al marito e al mondo ora desidero di piacere a Cristo.
Se fra tali e così grandi virtù vorrò celebrare la sua castità, sembrerà cosa superflua. Perché anche a Roma, essendo una secolare, fu essa esempio a tutte le matrone. Si comportò in tal modo che le stesse lingue dei maledici neppure osarono fingere cosa alcuna di pregiudizio al suo decoro. Non si vide mai animo più clemente del suo, nessuno più cortese verso gli inferiori. Non desiderava la conversazione dei potenti. Eppure, nonostante ciò, non disprezzava con fastidio i superbi e quelli che aspiravano a un po' di gloria. Se ai suoi sguardi si presentava un povero lo sostentava, se un ricco lo esortava alle buone opere. La  virtù della liberalità era in lei senza limiti, al punto che non lasciava di soccorrere chi ne aveva bisogno e a lei chiedeva denaro. Non di rado prendeva denari in prestito per restituire gli altri pur presi in prestito. Conviene che io qui confessi il mio errore. Essendo essa troppo liberale nel donare, io osavo riprenderla, ricordandole quel detto dell'Apostolo: donate sì, ma in modo che voi non dobbiate patire per questo, nel soccorrere gli altri. E i doni siano a misura delle vostre forze in questo tempo e secondo uguaglianza. Affinché le vostre ricchezze siano di soccorso alla povertà altrui e le ricchezze altrui soccorrano alle vostre indigenze. Ancora le ricordavo questa esortazione del Salvatore nel Vangelo: “Chi ha due vesti ne dia una a chi non ne ha”. E le dicevo che essa doveva procurare di poter sempre fare ciò che volentieri faceva, aggiungendo altre cose simili, le quali da lei con ammirevole verecondia e con modestissimo discorso erano sciolte, chiamando Dio a testimone che tutto faceva per il suo nome e che ardentemente desiderava di morire mendicando, di non lasciar un solo spicciolo alla figlia e di essere avvolta nel suo funerale in qualche lino dato da altri per carità.
Alla fine così concludeva: “Se io chiederò l’ elemosina, troverò molti che me ne  daranno, ma questo mendicante, se non ne riceverà da me, che posso dargli anche di quello avuto in prestito da altri, e  morirà, a chi sarà chiesto conto della sua anima?”, Io desideravo che essa fosse più cauta negli affari di famiglia, ma essa, sempre più accesa di fede, con tutto lo spirito si univa al Salvatore. E povera di spirito seguiva il povero Signore, rendendogli quanto da lui aveva ricevuto, diventata povera per lui. Ottenne finalmente quello  che desiderava e lasciò la figlia molto gravata dai debiti, i quali avendo ancora, essa confida di poter soddisfare non già nelle proprie forze, ma nella misericordia di Cristo.
È solita la maggior parte delle matrone fare regali a certuni perché facciano pubbliche lodi e, usando con pochi molta liberalità, niente danno agli altri. Di questo vizio era del tutto priva, poiché divideva i suoi denari a ciascuno come ciascuno ne aveva bisogno, non potendo alcuno con quelli darsi al lusso, ma solamente soccorrere alle sue necessità. Nessun povero partì mai da lei senza avere ottenuto qualche elemosina. La qual cosa da lei si otteneva non con la grandezza delle ricchezze, ma con la prudenza nel dispensarle, sempre ripetendo quel detto: beati sono i misericordiosi perché essi otterranno misericordia. E l'altro: “Come l’ acqua spegne il fuoco così l’ elemosina spegne il peccato”. Ripeteva pure l'altro detto evangelico: “Fatevi degli amici con le ricchezze ingiustamente acquistate, i quali vi ricevano nei tabernacoli eterni”. Aggiungeva ancora: “Fate elemosina ed ecco ogni cosa per voi è pura”. Riportava infine le parole di Daniele, ammonitore del re Nabucodonosor, esortandolo a redimere con le elemosine i suoi peccati. Non voleva la pia matrona gettare il suo denaro in quelle pietre che devono passare con la terra e con il mondo, ma lo spendeva in pietre vive che si muovono sopra la terra, con le quali nell’Apocalisse di San Giovanni è fabbricata la città del grande re e che, riferisce la Scrittura, si devono cambiare in zaffiro, in smeraldo, in diaspro e in altre gemme. Nondimeno queste qualità possono essere comuni a molti; e sa molto bene il diavolo che non giungono al grado perfetto delle virtù. Perciò dopo che ebbe fatto perdere a Giobbe le proprie sostanze, dopo avergli rovinata la casa, dopo avergli uccisi i figli, così parla al Signore: “Pelle per pelle e l'uomo darà tutto ciò che avrà a difesa della propria vita. Ma stendi un poco, o Signore, la tua mano e tocca le sue ossa e le sue carni e vedrai che sorta di benedizione  egli ti darà. Noi sappiamo che molti hanno fatto elemosine, ma non hanno dato cosa alcuna del proprio corpo: che hanno steso la mano in soccorso dei bisognosi, ma sono stati vinti dai piaceri del senso: che hanno imbiancato ciò che si vedeva fuori, ma dentro erano pieni di ossa di morti. Tale non fu Paola, essendo essa stata di così grande continenza che quasi passava il giusto e diventava debole di corpo per i digiuni eccessivi e per la fatica. Essa non prendeva olio, tranne i giorni di festa e soltanto nei cibi, per cui da questo si può comprendere quale stima facesse del vino, dei liquori, dei pesci, del latte, del miele, delle uova e delle altre cose che sono soavi al gusto. Di queste cose cibandosi alcuni stimano di osservare una rigorosa astinenza e se di quelle non si riempiono il ventre si persuadono di avere assicurata la continenza. È tuttavia noto che l'invidia sempre perseguita le virtù e i monti più eccelsi sono anche i più esposti ai fulmini. Né faccia meraviglia se io dico questo degli uomini, dal momento che anche lo stesso nostro Signore per l'invidia dei farisei fu crocifisso e tutti i santi hanno sempre avuto degli emuli contro, anzi anche nel paradiso si ritrovò il serpente, per la cui invidia entrò la morte nel mondo. Intanto il Signore aveva fatto levar contro di lei un novello Adad Idumeo che la tribolasse affinché non si insuperbisse . Questi dunque, quasi come un certo stimolo della carne, spesso la ammoniva che la grandezza delle sue virtù non la sollevasse troppo in alto e guardando il folle errare delle altre donne non si lusingasse di essere giunta al sommo della perfezione. Io poi le andavo dicendo che conveniva cedere alla invidia e lasciare spazio al furore, come aveva fatto Giacobbe con il suo fratello Esaù e David con Saul, il più ostinato di tutti i nemici, il primo dei quali fuggì in Mesopotamia, il secondo si mise nelle mani degli stranieri, volendo piuttosto essere soggetto ai nemici che agli invidiosi. Ma  essa mi rispondeva: con ragione direste queste cose o Girolamo se il diavolo in tutti i luoghi non si desse a combattere contro i servi e le serve del Signore e non avanzasse dovunque si vuole fuggire da questi luoghi, se io non fossi trattenuta  dall’amore dei santi luoghi e potessi trovar la mia Betlemme in qualche altra parte del mondo. Perché per quale ragione non devo io superare l'invidia con la pazienza? Perché non devo vincere la superbia con la umiltà, a chi mi percuote una guancia offrirgli l'altra, dicendo l'Apostolo: vincete il male con il bene? Non è vero che gli apostoli si gloriavano quando per il loro Signore sopportavano qualche ingiuria? Lo stesso Salvatore non umiliò se stesso prendendo forma di servo e obbedendo al Padre fino alla morte e alla morte di croce, per salvarci con la sua passione? Se Giobbe non avesse combattuto e vinto nella battaglia, non avrebbe ricevuto la corona della giustizia né avrebbe inteso dire dal Signore: “Pensi tu o Giobbe che io per altra ragione ti abbia parlato che per questa, affinché tu apparissi giusto?”. Sono chiamati beati nel Vangelo quelli che sostengono persecuzioni per la giustizia. Basta che in coscienza sappiamo che le pene da noi sostenute non sono per i nostri peccati e che  le afflizioni del secolo presente sono materia di premi. Se talora il nemico le riusciva troppo importuno e osava arditamente di dirle villania, cantava quel detto del salmo: “Essendosi posto il nemico per contraddirmi io ammutolii e tacqui, quantunque giustamente potessi difendermi”. Recitava anche l'altro versetto: “Ma io come un sordo non udivo e me ne stavo come uno che nulla ode, la  lingua del quale non si scioglie ai rimproveri”. Quando poi era assalita dalle tentazioni ripeteva le parole del Deuteronomio: “ Il Signore Dio vostro vi tenta per sapere se amate il Signore Dio vostro con tutto il vostro cuore e con tutta  l'anima vostra. Nelle sue tribolazioni e angustie replicava le parole di Isaia: “Voi che siete stati allontanati dalla poppa e tolti dal succhiare il latte, attendetevi anche tribolazioni su tribolazioni, speranza su speranza, ancora per molto, per la malizia delle labbra e a motivo della lingua maligna. Spiegava anche questa testimonianza della Scrittura a propria consolazione così: che era proprio degli svezzati, cioè di quelli che erano giunti all'età virile, il sostenere tribolazione sopra tribolazioni per meritare di ottenere speranza sopra speranza, sapendo che la tribolazione opera la pazienza, la pazienza la prova, la prova la speranza, la quale non confonde. Diceva ancora: “Se l'uomo esteriore si corrompe, si rinnova l'uomo interiore”, soggiungendo che “nel secolo presente la tribolazione leggera e momentanea opera in noi un gloria che sarà eterna, non considerando noi le cose che si vedono ma quelle che non si vedono, poiché quelle che si vedono sono temporali e quelle che non si vedono eterne”. Si udiva anche dire che non doveva passare molto tempo, sebbene alla umana impazienza sembra che tardi a venire, in cui prontamente non si dovesse vedere il divino aiuto, perché dice  Dio: “Io ti ho esaudito nel tempo opportuno e nel giorno della salvezza ti ho aiutato”. E replicava che non si devono temere le labbra ingannatrici e le lingue dei malvagi, godendo noi di avere in aiuto il Signore, il quale dobbiamo ascoltare quando per bocca del profeta ci ammonisce in tal modo. “Non vogliate temere gli obbrobri degli uomini né abbiate paura delle loro bestemmie, perché come il verme rode la veste così essi  sono mangiati e come la tignola distrugge la lana, così essa li divora. E si udiva dire: “Con la vostra pazienza possederete le vostre anime e ancora: “Non sono degne le sofferenze del tempo presente di essere paragonate alla gloria futura che in noi si rivelerà. E altrove: “Conviene sostenere tribolazione sopra tribolazione e comportarci con pazienza in ogni cosa che ci accade. Poiché l'uomo paziente è molto prudente, ma chi è pusillanime è molto sciocco”. Negli suoi languori e nelle sue frequenti malattie diceva: “Quando mi trovo inferma allora io sono più forte, aggiungendo: “Noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra, fino a tanto che questo corpo mortale si vesta di immortalità e la nostra corruttibile materia divenga  incorruttibile”. E di nuovo ripeteva: “Come in noi abbondano le sofferenze di Cristo, così anche per mezzo di Cristo abbonda la nostra consolazione. Poi aggiungeva: “Come siete compagni delle sofferenze così sarete anche delle consolazione”. Nelle sue afflizioni di spirito così cantava: “Per qual ragione sei tu triste o anima mia, e perché mi turbi? Spera in Dio, perché  a lui renderò grazie, essendo egli salvezza del mio volto e Dio mio”. Nei pericoli così diceva: “Chi vuole venire dietro di me rinneghi  la propria volontà e prenda la sua croce e mi segua”. Aggiungeva ancora: “Chi vuol salvare l'anima sua la perderà”. Ed anche: “Chi a causa di me perderà l'anima sua la salverà”. Quando le veniva portata notizia dei danni alle sue sostanze e intendeva la rovina di tutto il suo patrimonio, così parlava: “Che giova all'uomo guadagnare tutto il mondo se porta danno all'anima sua? O quale cambio darà l'uomo per l'anima sua?”. Diceva ancora: “Nuda sono uscita dal ventre di mia madre e nuda ritornerò”. Come è piaciuto al Signore così è accaduto. Sia benedetto il nome del Signore”. Aveva parimenti in bocca quel detto: “Non amate il mondo né le cose che sono nel mondo, poiché tutto ciò che è nel mondo è desiderio della carne e concupiscenza degli occhi e superbia di questa vita che non proviene dal Padre ma dal mondo”. Più ancora diceva: “Passa il mondo e il suo desiderio”. Io so che per lettera le fu recata notizia di gravissime infermità sostenute dai suoi figli e specialmente dal suo Tossozio, da lei grandemente amato. E avendo essa con la propria virtù adempiuto quel detto: “Io mi sono turbata e non ho parlato”, proruppe in queste parole: “Chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me”. E pregando il Signore diceva: “Possedete o Signore i figli dei mortificati, i quali per voi ogni giorno mortificano i loro corpi”. Io conosco un certo mormoratore, la quale sorta di uomini è dannosissima, che, mosso da affettata carità, le fece intendere che essa, per l'eccessivo ardore delle virtù, ad alcuni sembrava pazza e che era necessario farle qualche cura al cervello. Al quale essa rispose: “Noi siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini aggiungendo: “Noi siamo pazzi per Cristo ma il pazzo di Dio è il più saggio degli uomini”. Per questo anche il Salvatore così parla all'eterno suo Padre: “Tu conosci la mia stoltezza. E parimenti: “Io sono diventato come prodigio a molti e tu sei quel forte che mi porge aiuto. Presso di te io sono come un giumento e sempre sono con te”. Portava pure l'esempio di quello che gli stessi congiunti desideravano legare come mentecatto e gli avversari infamavano dicendo: “Ha il demonio ed è samaritano”. E  ancora: “Egli scaccia i demoni con l'autorità di Beelzebub principe dei demoni”. Ma noi ascoltiamo un po' l'Apostolo che in tal modo ci conforta: “Questa è la nostra gloria, la testimonianza della nostra coscienza, perché ci siamo comportati nel mondo in santità, in sincerità e in grazia di Dio”. Porgiamo anche le orecchie al Signore il quale così parla agli apostoli: “La ragione per cui il mondo vi odia è perché voi non siete del mondo, poiché se foste del mondo certamente il mondo amerebbe ciò che è suo”. Rivolgeva poi la devota matrona il discorso al Signore così dicendo: “Tu conosci o Signore i segreti del cuore e vedi  queste cose che sono venute sopra di noi. Non  ci siamo dimenticati di te, non abbiamo operato ingiustamente contro la tua Legge né il nostro cuore si è attaccato al male. Diceva parimenti: “Per amore tuo tutto il giorno siamo messi a morte e siamo stimati come pecore da macello”. Ma… “Il Signore è quello che mi aiuta. Non temerò qualunque cosa mi faccia l'uomo”. Mentre ho letto: “Figlio onora il Signore e riceverai conforto e all'infuori del Signore non temere alcuna persona”. Con questo e simili testimonianze della Scrittura come con armatura divina essa si muniva contro tutti i vizi, ma specialmente contro l'odio che infieriva contro lei e, tollerando gli affronti, mitigava il furore di chi contro lei era follemente arrabbiato. Infine, sino al giorno della sua morte si fece conoscere a tutti sia la pazienza della donna sia l'altrui sciocca invidia: vizio che consuma lo stesso invidioso, poiché, mentre s'adopera di offendere il suo emulo, col proprio furore infuria contro se medesimo. Parlerò ancora dell'ordine del suo monastero e come volse in proprio vantaggio la continenza dei santi. Seminava cose carnali per cogliere le spirituali, dava le terrene per ottenere le celesti, concedeva agli altri quelle che presto passano per far cambio con le eterne. Dopo aver costruito un monastero per gli uomini, da lei pure posto sotto il governo degli uomini, divise in tre schiere e in tre monasteri un grande numero di vergini, che essa da diverse province aveva qui radunate, parte delle quali erano di nobile famiglia, altre di modesta condizione, altre di basso rango sociale. Così però che solamente nell'operare e nel cibarsi stessero separate, ma nel salmeggiare e nel pregare dovessero stare unite.
Terminato il canto dell’ alleluia, col quale segno erano quelle chiamate perché venissero alla così detta colletta, a nessuna era permesso di rimanere da sola. Ma venendo essa la prima o tra le prime, stava ad aspettare che giungessero le altre, provocandole alla fatica con la vergogna e con l'esempio, non già col terrore. La mattina a terza, a sesta, a nona, a vespro e a mezzanotte, seguendo l’ ordine  dei salmi, cantavano il salterio. Voleva che ciascuna delle sorelle imparasse i salmi e diceva che conveniva imparare ogni giorno qualche cosa della divina Scrittura.
Solamente nei giorni di domenica andavano alla chiesa a fianco della quale avevano la loro abitazione. E ogni schiera di quelle seguiva la propria madre e di là insieme ritornando  attendevano a fare ciò che era loro assegnato. E  facevano abiti o per se stesse o per le altre. Se tra esse ve ne era alcuna  nobile, non le era concesso di avere  una compagna della propria casa, affinché, ricordandosi le antiche consuetudini, non riandasse agli errori della sua passata molle fanciullezza e col discorrer insieme a lei non li facesse tornare nella mente. Andavano tutte vestite nella stessa maniera: usavano panno di lino solamente per asciugarsi le mani. Le teneva così strettamente separate dagli uomini che ne escludeva anche gli eunuchi, per non dare occasione alcuna alle lingue dei maldicenti di parlarne male, giacché essi sono soliti parlare male dei santi anche per rallegrarsi del proprio peccato. Se alcuna tra quelle veniva un po' tardi a salmeggiare o  era alquanto pigra nell'operare, in vario modo trattava con lei. Se essa era iraconda, adoperava le lusinghe; se paziente, la correzione, imitando quel sentimento dell'Apostolo: “Che cosa volete che io faccia? Devo io venire a voi con la verga in mano oppure con lo spirito di dolcezza e di mansuetudine?” All'infuori del cibo e del vestito non permetteva che alcuna avesse  altra cosa, dicendo San Paolo: “Quando abbiamo noi il  vitto e il vestito di questi accontentiamoci”. E ciò  essa faceva affinché  la consuetudine di aver qualcosa di più, non desse luogo all'avarizia, la quale per qualunque abbondanza di ricchezze mai si sazia e, quanto più ha, più desidera e non diminuisce né per l’indigenza né per l'abbondanza. Quelle che tra loro avevano qualche discordia, le riconciliava con il suo piacevolissimo parlare. Con frequenti e replicati digiuni abbatteva gli assalti del senso nelle giovinette, volendo che facesse loro male lo stomaco piuttosto che la mente. Se ne vedeva alcuna più ornata del solito, con fronte sdegnosa e con volto severo, riprendeva in quella un tale errore dicendo che la mondezza del corpo e degli abiti è immondezza dell'anima e che mai dalla bocca di una vergine deve uscire alcuna parola oscena e lasciva, poiché con questi segni si manifesta l'animo libidinoso e per mezzo dell'uomo esteriore si scoprono i vizi dell'uomo interiore. Quando ne trovava alcuna linguacciuta, ciarliera, sfacciata e amante delle contese, se più volte da lei ammonita non voleva cambiare costume, la faceva stare in preghiera tra le ultime, e fuori dell'adunanza delle sorelle, presso la porta del refettorio, e la faceva mangiare da sola, affinché la vergogna correggesse quella che per i richiami non si era corretta. Detestava la pia donna il furto come sacrilegio e ciò che fra le persone del secolo si stima o cosa leggera o da niente diceva che nei monasteri  era peccato gravissimo. Che bisogno c'è che io menzioni la pietà e l'attenzione che essa nutriva per le inferme, da lei con meravigliose opere e servizi assistite? E acconsentendo che alle altre ammalate con abbondanza  fosse somministrata ogni cosa e anche il cibarsi delle carni, se talvolta era essa presa da infermità non voleva ciò permettere a se medesima, e in questo sembrava in se stessa disuguale, poiché con le altre usava la clemenza e con se stessa il rigore. Nessuna di quelle fanciulle, nella loro età giovanile di corpo sano e robusto, si diede a osservare continenza così grande quanto essa, di corpo estenuato dalle fatiche, vecchio e debole. Io devo qui confessare la verità in questo: essa fu troppo pertinace in modo che non ebbe affatto riguardo a se stessa e non volle cedere ai richiami di alcuno. Intanto racconterò quello che di lei ho conosciuto di persona.
Nel mese di luglio, per gli ardenti caldi della stagione, fu presa dalla febbre al punto che già si disperava per la sua salvezza: ma per la misericordia di Dio, essendosi liberata dal male, i medici vollero convincerla che era necessario che prendesse un poco di vino leggero per ristorare il corpo, perché bevendo essa acqua non divenisse idropica. Io, senza che quella ne sapesse cosa alcuna, pregai il santo vescovo Epifanio che volesse riprenderla, anzi le imponesse di bere vino. Quella però, essendo di pronto e accorto ingegno, subito si avvide dell'inganno e sorridendo disse che era per mia invenzione quanto egli diceva. Cosa di più? Finalmente dopo varie esortazioni, essendo uscito fuori il santo vescovo, richiedendogli io che cosa avesse fatto, mi rispose: “Io ho fatto un profitto così grande che essa ha quasi persuaso me, benché vecchio, a non bere vino”. Io riferisco queste cose, non perché approvi che si debbano prendere senza la dovuta considerazione pesi che superano le proprie forze, ammonendoci la Scrittura: “Non levare peso che superi le tue forze” ; ma perché desidero far conoscere da questa perseveranza anche l'ardore della sua mente e il desiderio dell'anima sua fedele, così cantando quella: “L’anima mia o Signore e la mia carne in quanti modi ha avuto sete di te!”. È difficile cosa osservare in ogni occasione la retta regola e con ragione, secondo la sentenza dei filosofi: “Nella giusta misura consiste la virtù e ogni eccesso è giudicato vizio”. Questo sentimento noi possiamo esprimerlo con una sola e breve sentenza, cioè:  “Nessuna cosa sia in eccesso”. Essa però che nel disprezzo dei cibi era così pertinace si lasciava vincere dal dolore e nella morte dei suoi restava abbattuta e soprattutto in quella dei figli. Poiché nella morte del marito e delle figlie sempre andò a pericolo della salute. Anzi facendosi il segno della croce sopra la bocca e sopra lo stomaco e sforzandosi di mitigare il dolore di madre con questo sacro segno, restava vinta dall'affetto e le viscere di madre abbattevano la sua  mente di credente e vincendo con lo spirito era vinta dalla debolezza del proprio  corpo. Se essa talvolta restava presa da infermità, per lungo tempo faceva forza a se medesima e con coraggio più che virile la teneva sottomessa, al punto che a me recava inquietudine e a se stessa era di pericolo. Nel quale stato godeva e continuamente ripeteva: “O donna infelice che io sono, chi mi libererà dal corpo di questa morte?”. Dirà il prudente lettore che io invece di scrivere le lodi di questa matrona scrivo ciò che può recarle biasimo. Chiamo perciò come testimone il mio Gesù, a cui essa ha servito e io desidero servire, che non fingo ad arbitrio cosa alcuna né per l'una né per l'altra parte. Ma come cristiano espongo le cose che sono vere di una donna cristiana, scrivo cioè la storia, non compongo il panegirico di quella e ardisco dire che i vizi suoi negli altri sono virtù. Li chiamo vizi secondo il mio pensiero e il desiderio di tutte le sorelle e i fratelli, perché l'amiamo e, assente, con grande ansietà la cerchiamo. Del resto essa ha compiuto la sua corsa e ha mantenuto la fede e ora gode la corona della giustizia e segue l'agnello in qualunque luogo egli si porta. È saziata perché è stata famelica e piena di giubilo canta: “Come udimmo così dunque abbiamo visto nella città del Signore delle virtù, nella città del nostro Dio”. O felice cambiamento di cose! Essa pianse per ridere sempre. Non curò i laghi rovinati per trovare la vera fonte che è il Signore. Vestì di cilicio per usare ora candide vesti e per dire: “Hai stracciato il mio sacco e mi hai vestita di allegrezza”. Mangiava anche la cenere come  pane e mescolava con le lacrime la sua bevanda, dicendo: “Le mie lacrime mi hanno servito di pane giorno e notte”; per cibarsi in eterno del pane degli angeli e per cantare: “Gustate e vedete come il Signore è soave” e: “Il mio cuore mi ha dettato un buon sentimento, e io consacro le mie opere al Re” : per vedere adempiersi in esso le parole di Isaia, anzi del Signore che così parlò per bocca di Isaia: “Ecco, coloro che mi servono si ciberanno, ma voi avrete fame. Ecco  quelli che mi servono berranno, ma voi avrete sete. Ecco  quelli che mi servono saranno lieti, ma voi sarete confusi. Ecco  quelli che mi servono godranno, ma voi griderete per il dolore del cuore e urlerete per lo strazio dello spirito. Io, di sopra, ho detto che quella aborrì sempre di accostarsi ai laghi rovinati, per trovare la vera fonte, cioè il Signore e per potere lieta cantar: “Come brama il cervo di giungere alla fonte di acque, così brama l'anima mia di giungere a te, mio Dio. L'anima mia ha provato una sete ben grande di Dio, viva fonte. Quando mai andrò e comparirò davanti alla faccia di Dio?”.
Racconterò dunque con brevità come essa si tenne lontana dai fangosi laghi degli eretici e li giudicò quali pagani. Un certo, furbo e esperto nell'ingannare gli altri, dotto e saputello come esso si stimava non sapendone cosa alcuna, cominciò a proporre a lei alcune questioni e a dirle: “In che cosa ha peccato un bambino per cui debba essere preso dal demonio? In quale età dobbiamo noi risorgere? Se in quella in cui moriamo, dunque dopo la risurrezione vi sarà bisogno di balie. Se in età diversa questa sarà non risurrezione dei morti ma cambiamento in altre persone”. Poi aggiungeva: “Vi sarà diversità di sesso cioè di maschio e di femmina o no? Se ciò avverrà ne seguiranno anche le nozze, la copula coniugale e la generazione. Se non vi sarà tale diversità, toltane via questa, non risorgeranno i medesimi corpi, perché il nostro abitare qui in terra ne aggrava il senso applicato al pensiero di molte cose. Ma i corpi risorti saranno sottili e spiritualizzati, come dice l’Apostolo: ”Si semina il corpo animale, risusciterà il corpo spirituale”.
Con tutti questi discorsi cercava di provare che le creature razionali venivano ad unirsi ai corpi per certi vizi e antichi peccati e , secondo la diversità dei meriti e dei peccati, erano generate con questa o quella condizione ,in modo che o godevano esse la sanità dei corpi e le ricchezze e la nobiltà dei genitori, ovvero unendosi a carni infette e collocate in casa di poveri, pagavano le pene degli antichi delitti ed erano rinchiuse in questo mondo e nei corpi come in una prigione.
Ciò avendo inteso la pia donna e avendolo a me raccontato mi disse anche chi era colui che così parlava.  Perciò mi presi il necessario impegno di oppormi a codesta perfida vipera, ad una tale mortifera bestia,  di cui fa menzione il salmista quando dice: “Non dare, o Signore, alle bestie l’anima che confessa il tuo nome e altrove: “Sgrida, o Signore, le bestie che adoperano penna, le quali scrivendo iniquamente, parlano il falso contro il Signore e pongono la loro bocca contro il cielo”. Me ne andai pertanto a ritrovare quest'uomo e per le preghiere di quella che lui cercava di ingannare lo convinsi con questa breve domanda, chiedendogli se credeva o no che dovesse esserci la risurrezione dei morti. Mi rispose di crederlo. Soggiunsi: “Risorgeranno i corpi medesimi oppure  altri?”. Avendomi esso risposto, i medesimi, gli domandai: “Avverrà ciò nel medesimo sesso o nell'altro? Tacendo quello a questa mia domanda, girando qua  e là il capo a guisa di serpente, per non essere ferito gli dissi: “Giacché voi tacete io stesso risponderò a me per voi e ne dedurrò la conseguenza. Se la femmina non risorgerà come femmina né il maschio come maschio non ci sarà la risurrezione dei morti: perché il sesso ha le sue membra e le membra costituiscono il corpo. Se poi non vi saranno sesso e membra dove sarà la risurrezione dei corpi, i quali non possono realmente darsi senza sesso e membra? Che se non succederà la risurrezione dei corpi, nemmeno vi sarà la risurrezione dei morti. L'altra difficoltà poi che voi  proponente sopra le nozze, cioè se le membra saranno le medesime da ciò si deduce che ci saranno le nozze, l'altra difficoltà dissi è sciolta dal Salvatore allorché dice:” Voi errate non conoscendo le Scritture né la potenza di Dio, poiché nella risurrezione dei morti non si mariteranno né saranno maritate, ma saranno simili agli angeli. Da queste parole - non si mariteranno né saranno maritate - si dimostra la diversità dei sessi, cosa che nessuno dice della pietra e del legno (non si mariteranno né saranno maritate), perché  questi esseri non hanno la natura onde maritarsi. Si può dire di quelli  che possono maritarsi e per grazia e virtù di Cristo non si maritano.
Che se voi mi farete questa obiezione: come dunque saremo simili agli angeli, non essendovi tra gli angeli maschio e femmina? Attendete e brevemente rispondo. il Signore ci promette non la sostanza, ma la conversazione e la beatitudine degli angeli, in quel modo appunto che Giovanni Battista prima che fosse decapitato fu chiamato angelo e tutti i santi e le vergini di Dio, anche nel secolo presente, in se stesse rappresentano la vita degli angeli. Allorché si dice: “Voi sarete simili agli angeli”, si promette la somiglianza, non si cambia la natura. Ma rispondetemi un poco come intendete voi il toccare che fece Tommaso le mani del risorto Signore e vide il costato di quello dalla lancia trafitto. E Pietro vide il Signore che se ne stava sul lido e si cibava di una porzione di pesce arrostito e di un favo di miele. Colui che stava ritto certamente aveva piedi. Se Gesù scoprì il costato ferito, aveva senza dubbio il ventre e il petto, senza dei quali i fianchi non si uniscono al ventre e al petto. Se egli parlò, usò la lingua, il palato e i denti. Poiché come il plettro ferisce le corde, così la lingua batte nei denti e ne manda fuori il suono della voce.
Quello di cui furono toccate le mani ebbe per conseguenza anche le braccia. Dicendosi dunque che egli ebbe tutte le membra, è necessario che avesse tutto il corpo, che è composto di membra e certamente non di femmina ma di maschio, cioè del sesso medesimo nel quale morì. Che se pure facendo opposizione si dicesse: dunque noi anche dopo la risurrezione mangeremo? E come a porte chiuse entrò il Signor contro la natura dei corpi pingui e sodi? Ascoltate quello che sto per dirvi: non vogliate di grazia a cagione del cibo porre in controversia e in dubbio la fede nella risurrezione. Pensa anche che il Signore comandò che si porgesse cibo alla figlia del capo della sinagoga e si legge nella divina Scrittura che Lazzaro, il quale era morto quattro giorni prima, si sedette al convito con lui affinché la risurrezione di quello non fosse giudicata come un fantasma.
E se lo stesso Signore entrò a porte chiuse, e per questo vi adoperate di provare che egli fosse un corpo spirituale e aereo, dunque tale era ancora prima di patire, perché contro la natura dei corpi pesanti camminò sul mare. E l'apostolo San Pietro, il quale camminò con un piede sospeso sopra le acque, si deve credere che avesse il corpo suo spirituale. Quando peraltro sappiamo che allora appunto sempre più si mostra la potenza e virtù di Dio, quando egli fa qualche cosa contro la natura. Affinché però sappiate che nella grandezza dei miracoli si fa conoscere non la mutazione della natura ma l'onnipotenza di Dio, quello che camminava sulle acque per virtù della fede cominciava per la sua infedeltà ad essere sommerso, se dalla mano del Signore non fosse stato sostenuto allorché gli disse: “O uomo di poca fede, perché hai dubitato?” Io resto ben meravigliato che non vi vergognate nell'udire il Signore che dice all'incredulo Tommaso: “Poni qua dentro il tuo dito e tocca le mie mani e i miei piedi che sono io”. “Palpate un poco e comprendete che lo spirito non ha carne né ossa come vedete che io ho. E avendo detto ciò, mostrò loro le mani e i piedi. Voi che sentite nominare qui ossa, carni, piedi e mani stimate secondo il vostro capriccio che queste siano vane invenzioni e vaneggiamenti degli stoici, fondati sull'aria. Se poi mi chiedete per qual ragione il bambino incapace di peccare sia oppresso dal diavolo, ovvero in quale età dobbiamo noi risuscitare morendo in età diversa uno dall'altro, la risposta  riuscirà poco gradita ed è questa: “I giudizi di Dio sono un grande abisso e ancora: o profondità delle ricchezze della sapienza e della scienza di Dio, quanto sono imperscrutabili i giudizi di quello e incomprensibili le sue vie! Poiché chi mai ha compreso la mente del Signore ovvero chi è stato suo consigliere? Circa poi la diversità delle età dico che questa non cambia la verità dei corpi, poiché essendo di continuo i nostri corpi in moto o per crescere o per diminuire ne verrebbe per conseguenza che dovremmo essere tanti uomini in quanti ogni giorno ci mutiamo.
Ovvero fui io forse una persona all’età di dieci anni e un’ altra quando ne avevo trenta, un’ altra quando ne avevo cinquanta, un’ altra ora che sono tutto canuto? Si deve dunque rispondere, come è tradizione delle chiese e come insegna l'apostolo Paolo che noi dobbiamo risuscitare come uomini perfetti e nella misura della pienezza dell'età di Cristo, nella quale i Giudei pretendono che fosse creato Adamo e noi leggiamo che risorse il Signore. Queste e molte altre cose io dissi prese dall'uno e dall'altro Testamento per confondere quell'eretico. Da quel giorno in poi cominciò Paola a biasimare quell'uomo e tutti gli altri che  seguivano la medesima dottrina, in modo che pubblicamente li chiamava nemici del Signore. Io ho detto queste cose non per confutare brevemente l'eresia a cui si deve rispondere con molti volumi, ma per far conoscere la fede di così grande donna, la quale volle essere piuttosto perpetuamente nemica di questi uomini piuttosto che con cattive amicizie provocare offesa a Dio.
Dirò dunque come io avevo cominciato.
Non vi fu mai niente più docile del suo ingegno. A parlare era tarda, veloce ad udire, memore di quel precetto della Scrittura: “Ascolta Israele e taci”.
Conoscendo essa a memoria le divine Scritture, sebbene amasse la storia, che da lei era chiamata fondamento della verità, pure assai più seguiva il senso spirituale e con questo tetto copriva l'edificio dell'anima.
Finalmente, attendendo essa insieme con la figlia alla lettura dell’Antico e del Nuovo Testamento mi costrinse a farne loro esposizione. Il che io per modestia ricusando di fare, nondimeno  per le sue continue richieste, presi ad insegnare loro ciò che io avevo imparato, non da me stesso , cioè dalla presunzione, pessimo maestro, ma dagli uomini  illustri della Chiesa. Se in qualche passo io restavo sospeso e sinceramente confessavo di non comprenderlo, non voleva a nessun costo concedermi tale affermazione, ma con le continue domande mi sforzava a dire quale tra i molti e vari sensi mi sembrasse il più probabile. Racconterò ancora un'altra cosa che forse agli emuli miei sembrerà incredibile. Essa volle imparare la lingua ebraica, la quale io da giovinetto in parte appresi con molta fatica e con gran sudore, e con  infaticabile esercizio non l'abbandono per non essere da lei abbandonato. E in tal modo la imparò che cantava salmi in ebraico e parlava in questa lingua con tanta proprietà di pronuncia senza la minima inflessione  latina. La qual cosa sino al giorno d'oggi si vede nella santa sua figlia Eustochia, la quale sempre visse accanto alla madre e fu così obbediente ai comandi di quella che senza lei non prese mai riposo, non uscì mai in pubblico, non prese mai cibo e non ebbe mai un solo spicciolo in suo potere. Ma godeva che le poche sostanze che vi erano dei suoi genitori fossero distribuite dalla madre ai poveri, saggiamente credendo che fosse per lei una ben grande eredità e una non ordinaria ricchezza il filiale rispetto verso la madre. Non devo passare sotto silenzio con quanto piacere  essa intese che Paola, sua nipote, figlia di Leta e di Tossozio concepita col voto e con la promessa della futura verginità, ancora nella culla e tra giochi puerili con lingua balbettante cantava: alleluia. E con parole dimezzate esprimeva i nomi della nonna e della zia. In questa unica cosa si  scoprì in lei il desiderio della patria, quando desiderò accertarsi che il figlio, la nuora, la nipote rinunciassero al secolo e servissero a Cristo. La qual cosa in parte ottenne, poiché la nipote  è già destinata a vestire il sacro velo di Cristo; la nuora, datasi a castità perpetua, con le opere, con la fede e con le elemosine segue i degni esempi della suocera e si adopera di fare in Roma ciò che quella ha già fatto in Gerusalemme. Che cosa intanto facciamo o anima mia? Perché temi tu di giungere alla morte della pia donna? È ormai gran tempo che il presente libro va troppo per le lunghe, mentre io temo il dover descrivere la sua fine, quasi che col mio tacere e col darmi a lodarla possa differirne la morte. Se in acqua con venti favorevoli si è navigato e con felice corso la mia debole nave ha solcato il mare tranquillo, ora il discorso va a  sbattere negli scogli e, gonfiandosi onde agitate, imminente viene minacciato il naufragio, a tal punto che sono costretto a dire: “Maestro salvaci, perché periamo”, aggiungendo anche l'altro testo: “Sorgi o Signore e perché dormi?”. Poiché chi potrebbe ad occhi asciutti riferire la morte di Paola? Essa dunque cadde in una gravissima malattia, anzi trovò ciò che desiderava, cioè il modo per abbandonare noi e unirsi più perfettamente al Signore. In questo malore l'affetto filiale, sempre lodevole di Eustochia verso l'amata madre, sempre più fu da tutti lodato. Mentre essa a lato del letto le sedeva, teneva il ventaglio, le sosteneva il capo, le poneva sotto il guanciale, le stropicciava i piedi, le riscaldava con la mano lo stomaco, le rifaceva il letto, le preparava acqua calda, le poneva davanti il tovagliolo, faceva i servizi di tutte le ministre prima di loro e se per sorte alcuna di esse faceva qualche cosa, pensava che a lei fosse tolto l'eseguire ciò che per obbligo le si doveva. Con quali preghiere, con  quali lamenti e gemiti andava avanti e indietro dal letto della madre alla grotta del Signore, per non essere privata di così cara compagnia, per non restare in vita senza di lei, per esserne portata nel medesimo feretro. E se la fede di Cristo non ci sollevasse al cielo e ne venisse promessa la immortalità dell'anima, che sarebbe di noi? La nostra condizione, per ciò che riguarda il corpo, non è affatto diversa da quella delle bestie e dei giumenti. Muore il giusto non meno che lo scellerato. Muore il buono e il cattivo, il mondo e l’immondo, chi offre a Dio sacrifici e chi rifiuta di riconoscerlo con quelli universale padrone e signore, muore l'uomo dabbene e il peccatore, chi giura e chi teme di giurare. Allo stesso modo gli uomini e i giumenti si riducono in cenere e in polvere. A che fine però io mi trattengo in queste riflessioni e col dilungare il discorso rendo più lungo il mio dolore? Si accorgeva molto bene la buona donna, la più saggia di tutte le altre, che per lei la morte era vicina, e diventata ormai fredda ogni altra parte del corpo e delle sue membra sentiva che nel sacro suo petto soltanto palpitava un  po' di calore dell'anima. Nondimeno come se dovesse recarsi a ritrovare i suoi congiunti e abbandonasse gli stranieri a bassa voce ripeteva quei versetti, cioè: “Io ho amato o Signore la bellezza della tua casa e il luogo dell'abitazione della tua gloria”. Aggiungeva: “Quanto sono amabili le tue tende o Signore delle virtù! L'anima mia si consuma per l’accesa brama della corte sovrana del Signore. Parimenti essa diceva: “Ho scelto di essere abbietta nella casa del mio Dio piuttosto che abitare nelle tende dei peccatori”. Essendo poi da me interrogata riguardo al motivo del suo silenzio, perché non voleva dire se provava dolore in qualche parte del corpo, in lingua greca mi rispose che essa non provava alcun affanno, ma che vedeva ogni cosa quieta e tranquilla. Dopo aver detto ciò tacque e con occhi chiusi, come se già con disprezzo guardasse le cose mortali, fino a quando spirò l'anima ripeteva i medesimi versetti, con voce così bassa che anche con le orecchie ben attente appena potevamo udire ciò che essa diceva. E tenendosi il dito alla bocca si faceva sulle labbra il segno della croce. Ormai le mancava lo spirito, ed essendo vicina alla morte ansimava e l'anima sua, desiderando ardentemente di uscire dal corpo, convertiva in lode del Signore il rantolo con il quale suole terminare la vita umana. Assistevano alla felice morte della pia matrona i vescovi di Gerusalemme e delle vicine città, ed era pure qui presente una moltitudine innumerevole di sacerdoti di minor grado e di diaconi. Tutto il monastero era pieno di un gran numero di vergini e di monaci. Paola, intanto, appena intese la voce del divino suo sposo che la invitava a se con queste parole: “Sorgi, viene mia cara, mia bella, mia colomba, poiché  ecco già è passato l'inverno ed è partito, si è dileguata la pioggia”, lieta a se medesima rispose: “Si sono veduti sulla terra i fiori è giunto il tempo del potare”. Disse anche: “Credo che vedrò i beni del Signore nella terra dei viventi”. Allora non si intesero in quel luogo urla, non pianti, come suole avvenire tra le persone del secolo, ma in diverse lingue si cantavano innumerevoli salmi. Essendo poi di là trasportata dalle mani stesse di alcuni vescovi che non ricusarono di sottoporre le spalle al feretro, mentre altri tenevano nelle mani lumi e ceri, altri regolavano i cori dei cantori, fu collocata in mezzo alla chiesa della grotta del Salvatore. Concorse al funerale della santa donna tutta la gente della città della Palestina. Quale fu dei monaci, sebbene ritirato nell'eremo, che uscito dalla sua cella qua non venisse? Quale tra le vergini non lasciò il suo solitario soggiorno? Era giudicato da tutti sacrilego chi a una così grande donna non avesse reso l’ultimo omaggio. Le vedove, i poveri, ad esempio di Dorcade mostravano agli altri le vesti da quella ricevute. Tutti insieme i poveri gridavano ad alta voce di aver perso la loro madre e benefattrice. Quello poi che a ognuno fece meraviglia fu che la faccia non era affatto cambiata per il pallore, ma spirava dal suo volto una certa maestà e gravità che sembrava che essa dormisse, non che fosse morta. Si cantarono per ordine i salmi nelle lingue ebraica, greca, latina e siriaca, non solamente lo spazio di tre giorni fino a che fu sepolta sotto la chiesa, vicino alla grotta del Salvatore, ma per tutta la settimana, facendolo d’istinto quanti ne venivano al funerale, e  sopra lei spargendo le proprie lacrime.
La venerabile vergine Eustochia sua figlia, come una  bambina divezzata sopra la madre, non poteva da lei levarsi. Le baciava gli occhi, si accostava alle sue guance, abbracciava tutto il corpo e diceva di voler essere sepolta con la madre. Gesù è testimone che essa non lasciò neppure un soldo alla figlia, ma come già ho accennato la lasciò gravata da molti debiti e ciò che a questa è riuscito più gravoso è l'aver affidato alla sua cura una innumerevole moltitudine di fratelli e sorelle in Cristo, nutrire i quali è cosa molto difficile e  abbandonarli è una empietà. Quale virtù pertanto più ammirabile in lei di questa? Una donna di nobilissima famiglia, una volta ricchissima, aveva con fede così grande donato ad altri tutto il suo che quasi agli estremi della necessità si ridusse. Vantino pure gli altri di aver dispensato le loro ricchezze ai poveri, di aver offerto alla Chiesa, ad onore di Dio, i propri denari e di averle portato insieme coi candelabri d'oro preziosi doni da quelli pendenti. Nessuno mai ha dato di più ai poveri di colei che nulla ha riservato per sé. E essa perciò ora gode quelle ricchezze e quei beni che mai  occhio ha veduto né orecchio udito né in umano pensiero sono mai venuti. Noi al contrario ci dogliamo della nostra sorte e se per più lungo tempo vorremo versar lacrime per lei che in cielo regna, sembrerà che le invidiamo il possesso della sua gloria.
Tu intanto o Eustochia vivi con certezza, poiché ti sei arricchita di una grande eredità. La parte che ti è toccata è il Signore e affinché tu sempre più sia nella gioia ti dico che tua madre ha ricevuto la corona di un lungo martirio. Poiché non solamente è giudicato martirio nella confessione della fede lo spargimento del sangue, ma è un martirio continuo anche la immacolata servitù di una mente devota. Quella corona si compone di rose e viole, questa di gigli. Per la qual cosa nel cantico dei cantici sta scritto: “ Colui che amo è candido e rubicondo e in pace e in guerra dispensa gli stessi premi ai vincitori.” E io ti dico che tua madre sentì dirsi come Abramo: “Esci dalla tua terra, dal tuo parentado e va nella terra che io ti mostrerò”. Udì altresì il Signore che per bocca di Geremia così comandava: “Fuggite di mezzo a Babilonia e salvate le vostre anime. Questa dunque uscì dalla sua terra e fino al giorno della sua morte non tornò in Caldea né desiderò mai le carni Egitto, ma accompagnata dai cori delle vergini divenne cittadina del Salvatore e dalla piccola Betlemme salendo al regno dei cieli dice alla vera Noemi: “Il tuo popolo è il mio popolo e il tuo Dio è il mio Dio”.
Questo piccolo libro, o Eustochia, da me per te è stato dettato in due brevi veglie, essendo io ancora preso da quel medesimo dolore che tu sostieni. Poiché tutte le volte che ho voluto prendere la penna per scrivere e fare ciò che ti avevo promesso, altrettante volte ho trovato le dita paralizzate, la mano caduta e i sensi illanguiditi.
Della verità di ciò che dico fanno aperta fede lo stile incolto, senza alcun ornamento e leggiadria di parole.
Addio, Paola! Con efficaci preghiere porta aiuto a me, giunto agli ultimi anni della mia vita, che sempre ho venerato e venero le tue virtù. La tua fede e le tue opere  ti uniscono a Cristo. A lui presente, più facilmente otterrai quanto  chiedi. Io intanto ho compiuto un'opera in tua memoria  assai più durevole del bronzo, la quale per qualunque scorrere di secoli non sarà mai distrutta.
Sul tuo sepolcro ho anche fatto incidere l'epitaffio, affinché dovunque sarà inteso il mio parlare, sappia il lettore che da me sei stata celebrata e che in Betlemme sei stata sepolta.

Iscrizione sul sepolcro
Discendente da Scipione e  nello stesso tempo dai Paoli e dai Gracchi, famosa eccelsa progenie di Agamennone, Paola qui giace.
Madre di  Eustochia,  prima fra il  senato romano, seguì la povertà del Redentore e si rifugiò nella grotta di Betlemme.

Davanti alla grotta
Vedi tu, lettore, l’umile sepolcro scavato in questa grotta? E’ la dimora di Paola che ora vive nel cielo e regna.
Lasciò il fratello,  i congiunti, Roma, la patria, le ricchezze e i figli per vivere nella grotta di Betlemme.
Qui sta la tua mangiatoia o Cristo, e i magi devoti, qui, mistici doni offrirono a te, che sei insieme uomo e Dio.
Riposò nel Signore la santa beata Paola il giorno ventiseiesimo di gennaio, cioè il martedì, dopo il tramonto del sole.
Fu sepolta nel giorno ventinovesimo dello stesso mese, essendo consoli in Roma Onorio Augusto - per la sesta volta - e Aristenato. Visse nel suo santo proposito, nella predetta città, cinque anni, e in Betlemme venti. Il corso intero della sua vita fu di cinquantasei anni, otto mesi e ventun giorni.

Alcune nostre brevi considerazioni.
Abbiamo visto nella prima parte della lettera che Gerolamo delinea in maniera chiara e precisa quali sono le condizioni sine qua non per un’autentica sequela di Cristo. Allorchè ci siamo spogliati della vita vecchia, in virtù della fede,  comincia per ogni redento un cammino di santificazione guidato ed alimentato dalla grazia di Dio. Se non c’è sequela senza fede, non c’è fede senza opere di virtù.
Non virtù qualsiasi che possono interessare anche l’uomo che non crede, ma in special modo tutte quelle virtù che ci fanno simili a Cristo e che il mondo non tiene in alcuna considerazione. Al primo posto sta l’umiltà nel senso più lato e più pieno: non solo l’interiore consapevolezza della propria nullità, ma anche il farsi piccoli agli occhi del mondo in tutti i comportamenti,  le consuetudini, in uno stile di vita che ci fa apparire alla stregua degli ultimi, quando non ancora più ultimi degli ultimi.
“Essa dunque abbassò se stessa con umiltà così profonda, virtù che è la prima dei cristiani, che chi non l'avesse veduta e per la fama del suo nome avesse desiderato di vederla, non avrebbe stimato che fosse essa ma piuttosto l'ultima delle sue ancelle. Ed essendo circondata da numerosi cori di vergini, per la maniera di vestire, alla voce, all'abito, e al portamento era la minima di tutte.” 
Dopo l’umiltà va sottolineata la fedeltà al proprio stato di persona consacrata. È riprovevole  una eccessiva libertà nei rapporti con l’altro sesso, se pur si tratta di santi. Né si deve giustificare una assidua frequenza. Meglio rimanere con i fratelli e le sorelle dello stesso sesso; eccezione fatta per la santa messa e la liturgia comunitaria.
“Dopo la  morte del marito, fino al giorno della sua morte non mangiò mai con alcuno uomo, sebbene sapesse che quello era santo e costituito nell'alto grado di vescovo. “
Non si deve cercare una cura smodata del corpo, allo scopo di apparire e di attirare l’attenzione. Non c’è persona al mondo per quanto brutta che non cerchi in qualche modo di farsi gradevole e piacevole alla vista altrui. È il modo migliore per introdurre distrazione, tentazione, confronto non voluto dal Signore nel seno della stessa comunità di fede.
“Non usò i bagni se non costretta da qualche infermità. Quantunque gravemente oppressa da febbre, non si coricò su molli materassi, ma distesi sul suolo alcuni suoi piccoli cilici qui prendeva riposo, se pure  può chiamarsi riposo quello in cui la pia donna, quasi in continue preghiere, passava i giorni e le notti, adempiendo ciò che si legge nel salterio, cioè: “Io lavavo ogni notte il mio letto, con le mie lacrime bagnerò il mio giaciglio”.
Un aspetto dimesso e trascurato deve fare tutt’uno con una vita di penitenza, di sobrietà , di preghiera incessante e continua, che sgorga da un cuore contrito per le proprie colpe, lontano dagli occhi delle creature, in una solitudine che  vuole stare soltanto con il Signore e cerca unicamente ciò che è a Lui gradito.
“Avresti pensato che in lei  fosse la fonte delle lacrime. Con pianto così copioso  ella lavava le colpe leggere che l'avresti giudicata rea di grandissimi misfatti. Ed essendo da me spesse volte ammonita che avesse riguardo ai propri occhi e li conservasse per leggere il Vangelo, mi diceva: “Deve sporcarsi questa mia faccia, perché spesso da me contro il divino precetto è stata dipinta con rossetto, biacca e antimonio. Voglio affliggere questo corpo che si è dato a tanti piaceri. Conviene che un lungo riso da perpetuo pianto venga compensato. I molli lini e i drappi preziosissimi devono cambiarsi in aspri cilici. Io che piacqui qui già al marito e al mondo ora desidero di piacere a Cristo.”
Dopo la umiltà va elogiata la castità
“Se fra tali e così grandi virtù vorrò celebrare la sua castità, sembrerà cosa superflua. Perché anche a Roma, essendo una secolare, fu essa esempio a tutte le matrone. Si comportò in tal modo che le stesse lingue dei maledici neppure osarono fingere cosa alcuna di pregiudizio al suo decoro.”
Supremo coronamento di tutto, manifestazione visibile di un amore di per sé invisibile, è la carità: non l’amore indifferenziato, eccentrico, moto inconsapevole del cuore, ma l’amore donato e fondato in noi da Dio, che innanzitutto cerca e vuole i fratelli di fede più vicini e da questi allarga il proprio cerchio fino ad abbracciare tutti gli uomini: con particolare predilezione per gli ultimi, ma senza disprezzo e senza ignorare quelli che sono ricchi agli occhi del mondo.
“Non si vide mai animo più clemente del suo, nessuno più cortese verso gli inferiori. Non desiderava la conversazione dei potenti. Eppure, nonostante ciò, non disprezzava con fastidio i superbi e quelli che aspiravano a un po' di gloria. Se ai suoi sguardi si presentava un povero lo sostentava, se un ricco lo esortava alle buone opere. La  virtù della liberalità era in lei senza limiti, al punto che non lasciava di soccorrere chi ne aveva bisogno e a lei chiedeva denaro. Non di rado prendeva denari in prestito per restituire gli altri pur presi in prestito.”
L’amore che viene da Dio non semplicemente viene in soccorso al povero con i propri beni, ma ancor prima ed ancora più  vuol condividere ogni povertà a imitazione del Cristo. Non giova aiutare i poveri se questo non fa noi stessi poveri. Siamo ben al di là della semplice elemosina: un simile amore non si può associare a quello dei vari filantropi che lottano per una più equa distribuzione delle ricchezze. Vogliono il riscatto dei poveri: in quanto a loro ben si guardano dal condividerne la miseria: è questa un male a cui bisogna ribellarsi. Nessuna benedizione divina vedono nel misero e nell’afflitto.
“… chiamava Dio a testimone che tutto faceva per il suo nome e che ardentemente desiderava di morire mendicando, di non lasciar un solo spicciolo alla figlia e di essere avvolta nel suo funerale in qualche lino dato da altri per carità.”
L’amore a Dio e al prossimo fu in Paola senza misura. Come non risparmiò i propri beni materiali così diede fondo ad ogni sua energia fisica e spirituale, con digiuni, astinenze, veglie continue.
“Noi sappiamo che molti hanno fatto elemosine, ma non hanno dato cosa alcuna del proprio corpo: che hanno steso la mano in soccorso dei bisognosi, ma sono stati vinti dai piaceri del senso: che hanno imbiancato ciò che si vedeva fuori, ma dentro erano pieni di ossa di morti. Tale non fu Paola, essendo essa stata di così grande continenza che quasi passava il giusto e diventava debole di corpo per i digiuni eccessivi e per la fatica. Essa non prendeva olio, tranne i giorni di festa e soltanto nei cibi, per cui da questo si può comprendere quale stima facesse del vino, dei liquori, dei pesci, del latte, del miele, delle uova e delle altre cose che sono soavi al gusto.”
L’esaltazione della santità di Paola è fatta da Gerolamo nei termini e nei modi della Sacra Scrittura. E questo per farci comprendere quale importanza si deve dare alla Parola di Dio, che non solo è guida e luce in un cammino, ma ne è anche verifica e conferma.
Altro non diremo delle virtù di Paola: il testo di Gerolamo è di per sé fin troppo chiaro e bello: ogni aggiunta e spiegazione può sminuirne l’importanza ed il valore.
Essendo noi debitori di molto a san Gerolamo per quel che riguarda l’intelligenza delle Sacre Scritture, una sola conclusione è per noi d’obbligo. Se Gerolamo vive nel nostro cuore come  un padre, un posto particolare è riservato anche a Paola, sorella maggiore. Maestro l’uno, discepola eletta l’altra, non di una sapienza falsa e vuota ma di quella che innanzitutto si alimenta della Parola di Dio, in una continua ed incessante ruminatio, che vuol portare alla luce i tesori nascosti che il Signore ha riservato per il popolo suo.

“Dirò dunque come io avevo cominciato.
Non vi fu mai niente più docile del suo ingegno. A parlare era tarda, veloce ad udire, memore di quel precetto della Scrittura: “Ascolta Israele e taci”.
Conoscendo essa a memoria le divine Scritture, sebbene amasse la storia, che da lei era chiamata fondamento della verità, pure assai più seguiva il senso spirituale e con questo tetto copriva l'edificio dell'anima.
Finalmente, attendendo essa insieme con la figlia alla lettura dell’Antico e del Nuovo Testamento mi costrinse a farne loro esposizione. Il che io per modestia ricusando di fare, nondimeno  per le sue continue richieste, presi ad insegnare loro ciò che io avevo imparato, non da me stesso , cioè dalla presunzione, pessimo maestro, ma dagli uomini  illustri della Chiesa. Se in qualche passo io restavo sospeso e sinceramente confessavo di non comprenderlo, non voleva a nessun costo concedermi tale affermazione, ma con le continue domande mi sforzava a dire quale tra i molti e vari sensi mi sembrasse il più probabile. Racconterò ancora un'altra cosa che forse agli emuli miei sembrerà incredibile. Essa volle imparare la lingua ebraica, la quale io da giovinetto in parte appresi con molta fatica e con gran sudore, e con  infaticabile esercizio non l'abbandono per non essere da lei abbandonato. E in tal modo la imparò che cantava salmi in ebraico e parlava in questa lingua con tanta proprietà di pronuncia senza la minima inflessione  latina.”