Lettera a Eustochio prima parte

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Introduzione alle Lettere di san Gerolamo
Di Gerolamo, traduttore della Vulgata, tutti sanno. Basterebbe questa sola opera per giustificare la fama che lo accompagna da secoli nella chiesa cattolica. Ne abbiamo parlato per inciso più volte. Il testo latino di Gerolamo non è considerato ispirato alla stregua di quello ebraico e della versione dei Settanta. Di fatto, la Chiesa per quindici secoli ha fatto propria la Vulgata, in modo del tutto particolare, come sicuro riferimento per ogni controversia dottrinale,  come testo unico di lettura in tutte le comunità cattoliche,  segno di indiscussa unità per secoli intorno a Roma.  Gerolamo ha fatto ben più di una semplice traduzione. La Vulgata è il risultato di un lungo ed accurato lavoro di confronto critico fra le versioni disponibili a quei tempi. Profondo conoscitore delle lingue latina, greca, ebraica, Gerolamo si è largamente servito delle Esapla di Origene, nel tentativo di ricostruire il testo originale. Benchè  sia stato paladino  di una traduzione letterale, che nulla aggiunge e nulla toglie, gli studiosi rilevano che non sempre di fatto nella sua opera segue questo criterio. Difficile dire cosa ci abbia messo del suo. Chi ha la fortuna di masticare un po’ di latino non può non ammirare l’incredibile bellezza e ricchezza di significati che la Vulgata racchiude in sé.
Opera di un santo, certamente, e non di un semplice erudito. Un ritratto molto bello di Gerolamo è stato fatto da Benedetto XVI nel suo breve, ma significativo, profilo dei Padri della Chiesa. Si può trovare facilmente il tutto su internet in:   www. Annusfidei.va
Per quel che riguarda più propriamente il nostro lavoro abbiamo fatto una ricerca riguardo all’Epistolario, per trovare una traduzione antica non coperta da diritti d’autore. Per nostra fortuna e per grazia di Dio siamo venuti in possesso di una edizione del 1740, che porta il seguente titolo:

L’Epistole di Girolamo Sdrignese , scelte e divise in tre libri
per opera di Pietro Canisio teologo.
Tradotte dalla latina nella toscana favella da un sacerdote professore di teologia, e parroco nella diocesi di Nonantola.
In Venezia MDCCXL  presso Francesco Pitteri

La versione  trascritta di alcune lettere è stata  adattata alla lingua corrente dallo stesso Cristoforo. Abbiamo cercato di intervenire il meno possibile sulla  traduzione, che mantiene intatta la forma della lingua latina.
È con grande gioia e con non celato entusiasmo che vi offriamo un piccolo assaggio dell’Epistolario di questo grande padre della Chiesa, da noi amato e considerato come il più fedele difensore dell’ortodossia cattolica.
Alcune lettere saranno accompagnate da brevi e semplici annotazioni critiche di interesse spirituale, per meglio far comprendere lo spessore di una fede, che non vuole essere unica ed esclusiva, ma modello di ogni autentica sequela di Cristo.

Iniziamo la nostra pubblicazione con quella che è forse la lettera più bella di Gerolamo, da noi divisa in due parti, per ragioni di comodo, recante il titolo:

Alla Vergine Eustochia, epitaffio di Paola, sua madre
Parte prima

Se tutte le membra del mio corpo si cangiassero in lingue, e i nodi tutti delle ossa con umana voce parlassero, con tutto ciò non direi cosa alcuna degna delle virtù della santa e venerabile Paola. Ella nobile per discendenza, ma più nobile per santità; già potente  per le sue ricchezze, ma ora più  insigne per la povertà di Cristo; sangue dei Gracchi, discendente degli Scipioni, erede di Paolo, donde trae il nome, vero e legittimo sangue di Marzia Papiria, madre di Scipione l’Africano, preferì a Roma Betlemme, e cambiò i palazzi coperti d’oro in vile, malformato tugurio. Noi non proviamo dispiacere d’aver perduta una tal donna, ma ringraziamo Dio di averla avuta, anzi di averla. Perché ogni cosa vive per Dio, e qualunque cosa ritorna al Signore è annoverata nella famiglia. Sebbene, se noi rettamente vogliamo intendere , la perdita di quella è un abitare ch’ella fa nella casa del Cielo. Tutto quel tempo ch’è stata nel corpo sempre è andata come in esilio lontano dal Signore, e con voce lamentevole continuamente si doleva, dicendo: Ahimè, la mia peregrinazione si è prolungata. Io mi sono trattenuta con gli abitanti di Kedar, e l’anima mia è stata lungo tempo pellegrina. Né deve rendere meraviglia se si doleva di abitare fra le tenebre ( poiché così Kedar viene interpretato) essendo il mondo pieno di malizia. E quali sono le tenebre di quello , tale è il suo lume, risplendendo nelle tenebre la luce, non avendola le tenebre avvinta. Per la qual cosa spesse volte ripeteva quel detto: io sono forestiera e pellegrina , come tutti i miei antenati. Diceva altresì: desidero sciogliermi  da questo corpo, ed essere con Cristo. Ogni volta poi che ella era tormentata da qualche infermità del suo corpo ( in lei prodotta dalla sua incredibile astinenza e dai suoi continui digiuni ) aveva questo sentimento sulle labbra: Io sottometto il mio corpo e lo riduco in servitù, per timore che  predicando io agli altri , non sia ritrovata reproba. Parimenti diceva: è bene non bere vino, né mangiar carne. Soggiungeva ancora : Ho umiliato l’anima mia col digiuno, e nella mia infermità per tutto il mio letto mi sono rigirata, dicendo anche: Mi sono ritrovata in mezzo alle miserie , essendo da spine trafitta. E fra le punture dei suoi dolori , da lei con ammirevole  pazienza tollerati, come se appunto per sé vedesse aperti i cieli, così diceva: Chi mi darà ali a guisa di colomba, e volerò e riposerò? Io chiamo come testimone il buon Gesù, e i suoi santi, e l’angelo stesso assegnato per custode e compagno di tale ammirabile donna, che io non dico cosa alcuna per incontrare l’altrui favore, come usano gli adulatori. Ma tutto ciò che sto per dire lo dirò per rendere testimonianza al vero, essendo però assai meno dei meriti di quella, della quale parla tutto il mondo, che ammirano i sacerdoti, desiderano i cuori delle Vergini; la morte della quale piangono le folle dei monaci, e dei poveri. Vuoi tu o mio lettore, sapere le sue virtù? Ella lasciò tutti i suoi  poveri, di loro divenuta più povera. E non deve alcuno stupirsi che ella ciò praticasse coi prossimi, e colla famigliola nella quale quelli che erano ammessi dell’uno e dell’altro sesso, da schiavi e schiave,  aveva cambiati in fratelli e sorelle; avendo quella, dopo aver abbandonato la sua nobile stirpe, lasciata ricca di sola fede e grazia sua figlia Eustochia, vergine a Cristo consacrata, per consolazione della quale io scrivo questo libricino.  Cominciamo dunque il racconto in ordine. Altri scrittori si mettano pure a discorrere, da lontano, di questo argomento, e dalla tenera età di quella, e dagli stessi, per così dire fanciulleschi trastulli; mettano in campo sua madre Blesilla, e il padre Rogato, dei quali due, l’una è discesa dagli Scipioni, e dai Gracchi; l’altro, celebre quasi in tutte le parti della Grecia fino al dì presente, per ricchezze, e per nobiltà, si dice che trasse l’origine da quel famoso Agamennone, il quale con l’assedio di dieci anni distrusse Troia.
Io non loderò in lei cosa alcuna, se non quel ch’ è suo proprio, e deriva dal purissimo fonte della sua santa mente. Sebbene il nostro Signore e Salvatore, interrogato nel vangelo dagli apostoli che cosa darebbe egli loro per avere essi lasciato per il suo nome i propri beni, abbia risposto che nel secolo presente avrebbero ricevuto il cento per uno, e nell’altro la vita eterna - dal che si intende che non merita lode il possedere le ricchezze, ma lo sprezzarle per Cristo: non insuperbire negli onori ma, per la fede di Dio averli in poca stima - ciononostante il Signore concede al presente ciò ch’Egli ha promesso ai suoi servi e alle sue ancelle.  Quella che disprezzò la gloria di una sola città, è celebrata dall’universale sentimento di tutto il  mondo. Quella che abitando in Roma non era da nessuno conosciuta fuori di Roma, nascosta in Betlemme si rende ammirabile ai barbari paesi e a Roma stessa. Poiché qual è quella gente della quale non vengano persone ai luoghi santi? E chi nei luoghi santi ritrova cosa più degna di ammirazione tra gli uomini che Paola? Ella come gemma preziosissima tra molte gemme risplende. E in quel modo che lo splendore del sole copre e oscura le piccole fiammelle delle altre stelle, così quella gran donna con la sua umiltà ha superate le virtù e le potenze di tutti, ed è stata la minima fra tutte per divenire di tutte la più grande;  quanto più ella si abbassava, tanto più dal Cristo era innalzata. Cercava  di nascondersi, ma non le riusciva l’intento. Fuggendo la gloria meritava la gloria, la quale segue la virtù come l’ombra il corpo, e abbandonando coloro che la desiderano, va dietro a quei che la disprezzano. Ma che faccio io allontanandomi dall’ordine del mio racconto? Mentre sono occupato a riferire ciascuna cosa, non osservo i precetti del dire.
Quella dunque generata da un tal casato, fu congiunta in matrimonio con Tossozio, disceso dall’antichissimo sangue di Enea, e di Julo: ragion per cui anche  sua figlia, vergine di Cristo, Eustochia, si chiama Giulia; e lo stesso nome Giulio dal gran Julo proviene.

Io vado dicendo queste cose, non perché siano grandi per chi le possiede, ma perché riescono ammirabili in coloro che le disprezzano. Gli uomini del mondo guardano con stupore quelli che così ampiamente sono privilegiati. Io al  contrario lodo coloro che tali cose non curarono ; e tenendo poco conto di quelli che le hanno, se con disprezzo le posseggono, in maniera singolare da me sono celebrati. Essendo dunque nata la nostra Paola da tali antenati, è lodata per la fecondità e pudicizia, prima dal marito, poi dai famigliari, e dalla testimonianza di tutta la Città, avendo partoriti cinque figli:  Blesilla, per la morte della quale in Roma la consolai, Paolina che lasciò erede delle sue fondazioni e delle sue sostanze Pammacchio, uomo ammirevole, a cui per la morte di quella mandai un mio libricino, Eustochia, la quale ora nei luoghi santi è preziosa collana della verginità e della Chiesa, Rufina, la cui prematura morte  abbatté l’animo pietoso della madre: e infine Tossozio, dopo il quale cessò di partorire; affinché si intendesse che quella per lungo tempo  volle non dar opera all’uso del matrimonio, ma per soddisfare il desiderio del marito, che desiderava un figlio maschio, partorì figliuoli. Dopo la morte del marito, in tal modo lo pianse, ch’ella fu per morirne.  In tal modo si diede al servizio del Signore, che parve che ella avesse desiderato la sua morte. Perché dunque racconterò io che quasi tutte le ricchezze della sua illustre e nobile casa, una volta ricchissima, furono dispensate ai poveri? A che fine starò a parlare dell’animo suo, clementissimo verso tutti, e della bontà sua che raggiungeva le persone stesse da lei non mai vedute? Quale dei poveri, morendo, non fu avvolto negli abiti suoi? Quale di quelli che giacevano infermi, non fu sostentato dalle sue ricchezze?  Questa, con  somma attenzione in tutta la Città ricercandoli, stimava sentirne danno, se alcun debole, e affamato, era nutrito dal cibo di un altro.  Spogliava i figli, e sgridandola per questo i parenti, diceva che lasciava loro maggior eredità, cioè la misericordia di Cristo. Non potè però per lungo tempo sopportare le visite, e i ricevimenti in massa della sua stirpe nel mondo gloriosa, e della sua nobilissima famiglia. Si doleva dell’onore a lei fatto, e procurava di schivare e fuggire il sentirsi da altri lodare. Essendo poi andati a Roma, in esecuzione dei comandi dell’imperatore, i vescovi dell’Oriente e dell’Occidente, per certi dissensi delle loro chiese, ella qui vide gli ammirabili uomini e vescovi di Cristo, Paolino vescovo della città di Antiochia ed Epifanio di Salamina e di Cipro, ora chiamata Costanza. Di questi ebbe Epifanio ospite in casa sua, e Paolino, che in altra casa alloggiava, per la sua umanità lo tenne come uno della propria famiglia. Accesa dalle virtù di questi, andava sempre pensando di abbandonare la patria, nulla ricordandosi della casa, dei figliuoli, della famiglia, dei poderi, né tantomeno di alcuna altra cosa al mondo. Anzi, se dire si può, sola e senza compagnia ardentemente bramava di andare nell’eremo degli Antonio e dei Paolo.
Passato finalmente l’inverno e fattosi navigabile il mare, ritornando i vescovi alle loro chiese, essa pure con quelli navigò almeno coi voti e colle brame. Ma a che sto io dilungandomi col discorso? Ella s’incammina al porto, accompagnata dal fratello e dai parenti, dai congiunti e, quel ch’è più di questi, dai propri figlioli, desiderosi di vincere la clementissima loro madre con affetto di pietà. Intanto già si stendevano le vele, e a forza di remi si avanzava la nave in alto mare. Il piccolo Tossozio dal Lido alzava in atto supplichevole le mani: Rufina già da marito, benché tacendo, con le lacrime la scongiurava che volesse attendere le sue nozze. Ma quella alzava gli occhi asciutti al cielo, superando con l’amore di Dio l’amore che aveva per i suoi figlioli. Non conosceva di essere madre, per dimostrare che  era ancella di Cristo. Internamente si sentiva però tormentata, e come se le interiora le fossero strappate, combatteva contro il proprio dolore, resa in questo più ammirabile, perché vinceva un grande amore. Tra le mani dei nemici e la dura necessità della prigionia, nessuna cosa riesce più crudele  che il dividere i genitori dai figli. La sua grande fede sopportava una pena così grande contro le leggi della natura, anzi il suo giulivo spirito la desiderava. E disprezzando l’amore verso i figli , con l’amore maggiore verso Dio, nella sola Eustochia, compagna della sua liberazione e del suo viaggio, si riposava. La nave intanto solcava il mare e, volgendo lo sguardo al lido, tutti quanti  navigavano con lei; ella altrove teneva rivolti gli occhi, per non vedere quelli che senza tormento non poteva vedere. Confesso che nessuna donna ha giammai amato in tal modo i propri figli, ai quali ella prima di partire donò tutti i suoi beni, diseredandosi in terra , per ritrovare l’eredità in cielo.


Condotta all’isola di Ponza, già nobilitata dall’esilio di Flavia Domitilla, illustrissima donna, sotto l’impero di Domiziano, per la confessione della fede di Cristo, e qui scorgendo le cellette dove essa aveva tollerato il suo lungo martirio, avendo prese le ali della fede, desiderava vedere Gerusalemme e gli altri luoghi santi. Lenti le parevano i venti e pigra ogni velocità. Tra Scilla e Cariddi esponendosi al mare Adriatico, come attraverso uno stagno giunse a Metone. Qui ristorato il suo debole corpo con pane e sale, e adagiando le stanche membra sul lido, prese un breve riposo. Di qui passando per  Capo Maleo di sant’Angelo, e per Citera, e poi per le Cicladi, qua e là sparse in quel mare sempre agitato nei suoi flutti, a cagione delle isolette che in seno accoglie, dopo aver toccato Rodi e Licia giunse finalmente a Cipro. Ivi gettatasi ai piedi del santo e venerabile vescovo Epifanio, fu da lui per dieci giorni con sè ritenuta, non perché ella si ristorasse, com’egli credeva, ma per faticare in nome di Dio, come infatti avvenne. Perché visitando tutti i monasteri di quel paese lasciò per quanto poteva mezzi di sostentamento  ai religiosi, i quali per amore di quel santo uomo da tutte le parti del mondo colà si erano portati. Dopo, con breve navigazione, passò a Seleucia, e salì poi ad Antiochia , e qui, trattenuta per poco tempo dalla carità del santo confessore Paolino, sebbene donna così nobile, partì nel mezzo dell’inverno, riscaldata dall’ardore della fede, seduta sopra un asinello, essa che prima era portata a forza di braccia dagli eunuchi. Tralascio il racconto del suo viaggio per le zone della Siria e della Fenicia ( io non ho preso a descriverne l’itinerario ), nominerò solamente quei luoghi che sono nominati  nella Sacra Scrittura. Lasciatasi dunque la pia donna alle spalle Berito, colonia romana, e Sidone città antica nel lido di Sarepta, entrò nella piccola torre di Elia, in cui dopo aver adorato il Signore Salvatore, attraverso le sabbie di Tiro, dove Paolo si inginocchiò, arrivò alla città di Acco, oggi detta Tolemaide, e per la piana di Maghiddo, nella quale fu ucciso Giosia, entrò nella terra dei Filistei. Guardò con meraviglia le rovine di Dor, una volta città potentissima, e di ritorno vide la Torre di Stratone, chiamata Cesarea da  Erode re della Giudea, in onore di Cesare Augusto, nella quale ritrovò la casa del centurione Cornelio, diventata una chiesa di Cristo. Vide ancora la casa di Filippo, e le celle delle quattro vergini profetesse. Poi passò a vedere Antipatride, piccolo borgo semidistrutto, che Erode aveva così chiamato dal nome del padre. Ritrovò l’antica Lidda, ora chiamata Diospoli, famosa perché in essa risorse Dorcade, e fu risanato Enea. Non molto lontano da quella scoprì Arimatea piccolo borgo, patria di Giuseppe che seppellì il Signore, e ancora Nob, già città dei sacerdoti, ora sepolcro degli uccisi. Andò a Giaffa porto del fuggitivo Giona, donde ( per dire qualcosa delle favole dei poeti ) già si vide Andromeda legata alla rupe. Di là rimessasi in cammino toccò Nicopoli, che prima si chiamava Emmaus, in cui nello spezzare il pane il Signore fu conosciuto dai due discepoli. Fece della casa di Cleofe  una chiesa, a Dio consacrandola.
Partita di lì, andò all’una e all’altra Betoro, cioè all’inferiore e alla superiore, città costruite da Salomone, ma poi distrutte per varie vicende di guerra. Alla sua destra potè vedere Ajalon, e Gabaon, dove Giosuè figlio di Nun, combattendo contro cinque re, comandò al sole e alla luna, che arrestassero il loro corso, e condannò i Gabaoniti a portare acqua e legname per le frodi e le insidie dell’alleanza da loro stipulata. Si fermò essa per poco in Gabaon, fino dai fondamenti rovinata, rammentandosi il peccato della medesima, e della concubina tagliata a pezzi, e dei seicento uomini della tribù di Beniamino, salvati dalla morte a motivo dell’apostolo Paolo che da quella doveva nascere. A che fine però sto io qui trattenendomi? Avendo essa lasciato alla sua sinistra l’insigne sepolcro di Elena, la quale essendo regina degli Adiabetani, in occasione di grave carestia, aveva con grano soccorso quel popolo, entrò in Gerusalemme, città di tre nomi, cioè Jebus, Salem e Jerusalem. Questa poi fatta rinascere da Elio Adriano dalle sue ceneri e rovine, fu denominata Elia.  Il proconsole di Palestina spedì innanzi i suoi servitori a preparare il palazzo per una tal donna, la nobiltà della cui famiglia gli era molto ben nota: ma essa preferì un’umile cella, e con ardore ed affetto così grande andò alla visita di tutti quei luoghi, che se non avesse dovuto velocemente portarsi a vedere gli altri, non si sarebbe potuta rimuovere dai primi. Prostratasi poi davanti alla croce del Signore, come se pendente da quella lo rimirasse, lo adorava. Entrata nel santo sepolcro, affettuosamente baciava la pietra della risurrezione, che l’angelo rimosse dall’apertura della tomba e toccava con le labbra con viva fede il luogo stesso dov’era giaciuto il corpo del Signore, come un sitibondo gusta le acque desiderate. Quali lacrime poi, quali gemiti, quali segni di dolore quivi ella desse, ne è testimone tutta Gerusalemme, e lo stesso Signore da lei pregato. Quindi uscita salì sul monte Sion, che s’interpreta Rocca o Specula, cioè posto di osservazione. Questa città fu vinta già in battaglia da Davide, il quale la riedificò. A proposito della sua conquista così sta scritto: Guai a te o città di Ariel, cioè leone di Dio, a quei tempi fortissima, da Davide espugnata.
Della medesima, riedificata, così si legge:  i fondamenti di quella sono nei monti santi: ama il Signore le porte di Sion più di tutti le tende di Giacobbe. Non  quelle porte che ai tempi nostri vediamo ridotte in polvere e cenere, ma quelle contro le quali l'Inferno non ha alcuna forza, e per cui entra la moltitudine di coloro che credono in Cristo. Le fu  ancora fatta vedere la colonna, sostegno del portico della Chiesa, tinta del sangue del Signore, alla quale si dice  che egli fu legato e flagellato. Vide il luogo, dove lo Spirito Santo scese sopra le anime di centoventi fedeli, onde si adempisse la profezia di Gioele. Avendo poi distribuito ai poveri e ai suoi domestici quel poco di denaro che aveva, secondo la sua disponibilità, se ne andò a Betlemme. Alla destra  lungo la strada si fermò presso il sepolcro di Rachele,  dove la donna partorì Beniamino, non Benonì,  come  morendo lo chiamò la madre, cioè figlio del mio dolore, ma come il padre profetò in spirito, figlio della destra. Di là entrando in Betlemme, e giunta alla grotta dove nacque il Salvatore, dopo che vide il sacro rifugio della vergine, e la stalla, in cui il bue conobbe il suo possessore, e l'asino  la greppia del suo Signore; affinché si adempisse quel detto che nel medesimo profeta è scritto: beato è quello che semina sopra le acque, dove il bue e l'asino calpestano; udendola io, giurava che con gli occhi della fede vedeva il bambino avvolto nelle fasce,  il Signore piangente nella greppia, i magi suoi adoratori, la stella sopra risplendente, la vergine madre, l’ attento custode, i pastori venire nella notte per vedere il verbo che era stato fatto, e per scoprire fino da allora il principio del Vangelo di San Giovanni, cioè: in principio era il Verbo, e il Verbo è divenuto carne: vedeva pure i bambini uccisi, e per la ferocia di Erode, Giuseppe e Maria fuggire in Egitto, e mischiando con gioia le lacrime così diceva: Amen (Dio ti salvi )  Betlemme casa di pane, dove è nato quel pane che discese dal cielo: Amen (Dio ti salvi) Efrata paese felicissimo e fruttifero, la cui fertilità è Dio. Già Michea profetò di te: E tu Betlemme casa di Efrata non sei la minima fra le migliaia di Giuda? Da te uscirà quello che sarà principe in Israele; la sua origine  è dal principio, dai giorni dell'eternità, perciò li lascerai abbandonati fino al tempo della donna partoriente. Ed essa partorirà, e quelli dei tuoi fratelli che resteranno, torneranno ai figli di Israele”. Poichè in te è nato il principe, che prima di Lucifero fu generato, la cui nascita dal Padre eccede ogni età. E tanto tempo in te si mantenne la progenie di Davide, fino a che partorisse la vergine, e i resti del popolo che crede in Cristo si volgessero ai figli di Israele, e liberamente dicessero: bisognava che prima degli altri a voi si predicasse la parola di Dio; ma poiché l’ avete rifiutata, e avete giudicato di non esser degni della vita eterna, ecco che noi ce  ne andiamo a predicare ai Gentili.   Aveva detto Dio: “Non sono io venuto se non alle pecore perdute della casa di Israele”. In quel tempo si adempì quanto  di lui predisse Giacobbe, dicendo: “Non mancherà mai un principe della casa di Giuda, nè un  condottiero da lui uscito, fintanto che venga colui per il quale ciò  è stato riservato, ed egli stesso sarà l'attesa delle genti”. Ben a ragione giurava Davide, ben a ragione così faceva i suoi voti: “ Non entrerò più nell’interno della mia casa, non salirò più sul mio letto per riposare: non concederò più sonno ai miei occhi, e non concederò quiete alle mie palpebre, e riposo alle mie tempie fintanto che non avrò trovato un luogo per il Signore e una tenda per il  Dio di Giacobbe. E subito dichiarò cosa  egli desiderava, e con i suoi occhi di profeta vedeva che doveva venire quello che noi crediamo esser già venuto. Ecco abbiamo inteso che egli è in Efrata, lo abbiamo ritrovato nei campi boscosi. Certamente l’ espressione ebraica zoth, come sotto la vostra disciplina imparai, non significa Maria, madre stessa del Signore,  ma dello stesso ( Signore ). Onde con tutta confidenza così dice: noi entreremo nel suo tabernacolo, lo adoreremo nel luogo, in cui stettero i suoi piedi”. E io misera e peccatrice sono stimata degna di baciare la greppia, dove bambino vagì il Signore: di pregare in quella grotta, dove la Vergine partorì il Signore bambino. Questa sarà il mio riposo, perché essa è patria del Signore: qui abiterò, perché il Salvatore per sé l’ha eletta. Io ho preparato la lucerna al mio Cristo, per lui vivrà l'anima mia, e il mio seme a lui servirà”. Non molto lontano da quel luogo scese a vedere la torre di Ader, cioè del gregge, presso la quale Giacobbe pascolò i suoi greggi, e i pastori vegliando la notte, meritarono di udire: Gloria nei luoghi eccelsi a Dio e in terra pace agli uomini di buona volontà. E guardando quelli le pecore, ritrovarono l'agnello di Dio, con puro e immacolato vello, che nella aridità di tutta la terra fu riempito della rugiada celeste; il sangue del quale toglie i peccati del mondo, e  asperso sulle porte, ne cacciò lo sterminatore dell'Egitto. Di là subito con passo veloce cominciò a incamminarsi per quella strada che conduce a Gaza, cioè alla potenza e alle ricchezze di Dio, e tacendo con se stessa riandava a pensare come l'eunuco etiope, figura dei popoli pagani, cambiò la sua pelle, e insistentemente leggendo l'Antico Testamento, trovò la fonte del Vangelo. Quindi piegando a destra, avendo passato Betsur, giunse ad Escol, che vuol dire grappolo. Da questa località,  per fare sicura fede che quella terra era fertile e per prefigurare colui che dice: “Io solo ho calcato il torchio, e delle genti non è con me neanche un solo uomo”, gli esploratori  portarono il grappolo di meravigliosa grandezza. Dopo poco  spazio di tempo entrò nelle cellette di Sara, vi osservò la culla dove fu allevato Isacco, e i resti della quercia di Abramo ( sotto la quale vide il giorno in cui doveva venire Cristo, e ne gioì. Da qui poi movendosi, salì ad Ebron, che è Cariath-Arbe , cioè la città dei quattro uomini:  Abramo, Isacco,  Giacobbe, e il grande Adamo, il quale affermano gli Ebrei che qui sia stato sepolto, secondo quanto si riferisce nel libro di Giosuè figlio di Nave; sebbene molti pretendono che Caleb sia stato il quarto di cui, da un parte si vede la memoria. Dopo aver veduto queste cose, non volle andare a Cariath-Sepher, cioè borgo delle lettere, perché non curando essa la lettera che uccide, aveva ritrovato lo spirito vivificante. Anzi piuttosto restava ammirata nel vedere le acque superiori e inferiori che Gotoniel aveva formato, figlio di Jefone, per irrigare le regioni del sud, terra desertica di sua proprietà; convogliando quelle acque, irrigava gli aridi campi dell'Antico Testamento, per ritrovarne gli uomini nelle acque del battesimo la redenzione degli antichi peccati. Il giorno seguente, levatosi il sole, si fermò sulla cima di Cafar-Baruca, cioè del villaggio della benedizione, nel qual luogo Abramo aveva accompagnato il Signore. Di là senza curarsi del vasto deserto e della terra dove già furono Sodoma e Gomorra, Adama e Seboim , considerò le vigne del balsamo in Engaddi e in Segor, la vitella di tre anni, che prima si chiamava Bala , e in lingua sira fu chiamata Zoara, cioè piccola. Ella si ricordava della spelonca di Lot, e tutta piangente ammoniva le sue vergini compagne che era necessario guardarsi dal vino, in cui si trovano incentivi alla lussuria, opera del quale sono i Moabiti, e gli Ammoniti.
Lungo tempo io mi fermo sul meriggio , dove la sposa ritrovò giacente lo  sposo e Giuseppe si ubriacò con i suoi fratelli. Di là tornerò a Gerusalemme per Tecoa, patria di Amos e scorgerò i  luminosi splendori del monte Oliveto, donde salì al Padre il Salvatore, nel quale ogni anno si bruciava in olocausto al Signore una vacca di color rosso, la cui cenere purificava il popolo di Israele; nel quale luogo, secondo Ezechiele , i cherubini partendo dal tempio, fondarono la Chiesa del Signore.  Paola entrò nel sepolcro di Lazzaro, vide la casa di Maria e di Marta, e Betfage, il villaggio delle mascelle dei sacerdoti, e il luogo in cui lo sfrenato puledro del popolo Gentile, ricevette il morso del Signore, e bardato con le vesti degli apostoli, accomodò la schiena perché quello vi sedesse. Quindi  viaggiando  dritto si portò a Gerico, pensando a quel ferito, di cui si parla nel Vangelo e ai sacerdoti e ai leviti, i quali con cuore duro passarono , senza porgere al sofferente alcun ristoro. Rifletté poi alla misericordia del buon samaritano,  (cioè custode ), che, posto il povero ferito mezzo morto sul suo giumento, lo portò alla stalla della Chiesa. Considerò   pure il luogo detto Adomim, che vuol dire luogo di sangue; perché in quello per le frequenti scorrerie dei ladroni si spargeva molto sangue. Pensò anche all'albero di sicomoro di Zaccheo, cioè alle buone opere della penitenza, con le quali calpestava i misfatti commessi nello spargimento di sangue umano altrui, di gran danno per le rapine e dal sommo delle virtù rimirava l’eccelso Signore. Da qui lungo il ciglio della strada  considerò i luoghi dei ciechi, i quali ricuperata la vista prefiguravano i misteri dell'uno e dell'altro popolo che crede nel Signore. Essendo entrata in Gerico, vide la città fondata da Ahiel con l'assistenza del suo primogenito Abiram, le porte della quale furono collocate da Segub, l’ultimo dei suoi figli. Guardò l’accampamento di Galgala e il mucchio dei prepuzi e il mistero della seconda circoncisione, e le dodici pietre, che, là trasportate dal fondo del Giordano, avevano figurato le fondamenta dei dodici apostoli. Agli occhi suoi si offrì pure la fontana della Legge già amarissima e sterile, condita dalla sapienza del vero Eliseo e da lui cambiata in dolce e copiosa sorgente di acque.
Passata appena la notte andò al Giordano, accesa di grande fervore. Si arrestò in riva al fiume e levatosi il sole si ricordò del sole di giustizia. . Si ricordò come in mezzo al letto del fiume stettero i sacerdoti a piedi asciutti e ai cenni di Elia e Eliseo, rese immobili dall'una e dall'altra parte le acque, si poté passare sopra le onde. Pensò anche che il Signore, quivi facendosi battezzare purificò le acque diventate immonde per il diluvio universale e infettate dai cadaveri di tutto il genere umano. Troppo mi dilungherei se qui volessi parlare della valle di Achor, cioè del tumulto delle turbe di Israele, in cui fu condannato il furto e l'avarizia e se volessi dire qualcosa di Betel, casa di Dio, dove, sopra la nuda terra, nudo e povero dormì Giacobbe e postasi sotto il capo la pietra che in Zaccaria è descritta con sette occhi e in Isaia è chiamata pietra angolare, vide la scala che giungeva fino al cielo, sulla cui cima si appoggiava il Signore, porgendo la mano a quelli che salivano e dalla sommità precipitando al basso i negligenti.  La devota donna venerò sul monte Efraim  il sepolcro di Giosuè figlio di Nun, e in faccia a quello l'altro di Eleazaro, figlio del sacerdote Aronne, l'uno dei quali fu sepolto in Tamnatsare dalla parte settentrionale del monte Gaas, l'altro in Gabaat,  posseduta da suo figlio Finees, e restò meravigliata come colui che fu il distributore dei possessi avesse preso per sé i luoghi montuosi ed aspri. Che dirò io di Silo, dove anche ai tempi nostri si mostra l'altare in rovina e dove la tribù di Beniamino prevenne il ratto delle sabine fatto da Romolo? Passò a Sichem, non Sicar come molti leggono sbagliando, la quale oggi si chiama  Neapolis ed entrò nella Chiesa qui costruita da una parte del monte Garizim presso il pozzo di Giacobbe. Sopra il quale seduto, il Signore, assetato ed affamato, fu saziato dalla fede della samaritana. Questa,  abbandonati i cinque uomini dei libri mosaici ed  il sesto, cioè l'errore di Dositeo che ella si vantava di avere, trovò il vero Messia e il vero Salvatore. Quindi partendo vide i sepolcri dei dodici patriarchi e Sebaste, cioè Samaria, la quale in onore di Augusto, da Erode in lingua greca fu chiamata Augusta. In quel luogo sono sepolti i profeti Eliseo e Abdia e San Giovanni Battista, di cui tra figli di donne non vi fu il maggior; dove restò sorpresa dallo spavento nel vedere molti miracoli; poiché ella vide ruggire i demoni in vari modi tormentati, e davanti ai sepolcri di quei santi udì ululare gli uomini come lupi, latrare al modo dei cani, ruggire come leoni, sibilare quali serpenti, muggire a modo di tori. Altri ne vide girato il capo e con esso, piegate le spalle, toccavano la terra e delle donne appese per i piedi, cadevano loro le vesti sul volto. Provò ella compassione per tutti e per tutti  con abbondanti lacrime supplicava la pietà di Cristo. Così debole poi come si trovava, salì a piedi sul monte, in cui vi sono le due spelonche, dentro le quali nel tempo della persecuzione e della fame il profeta Abdia con pane e acqua nutrì cento profeti.
Quindi sollecitamente camminando, giunse a Nazaret dove fu allevato il Signore, poi si portò a Canaan e a Cafarnao dove quello fece molti miracoli: passò al lago di Tiberiade, santificato dalla navigazione del Signore e si portò nella solitudine, dove molte migliaia di persone furono saziate con pochi pani, e con gli avanzi di quelli che mangiarono se ne riempirono i dodici confini delle tribù di Israele. Salì anche sul monte Tabor in cui si trasfigurò il Signore. Mirò da lontano i monti Hermon e Hermoniim, e le vastissime campagne della Galilea, nelle quali Sisara, superato da Barach, fu vinto con tutto il suo esercito. Le fu mostrato ancora il torrente Cison, che divide a metà quella pianura vasta e il castello presso Naim, in cui fu risuscitato il figlio della vedova. Se io volessi ad uno ad uno riferire quei luoghi che dalla venerabile Paola furono visitati con incredibile fede, prima mi mancherebbe la luce del giorno che le parole. Passerò all'Egitto e mi fermerò alquanto fra Soccot e quella fonte che Sansone fece scaturire dal dente della mascella della fiera da lui uccisa e mi bagnerò la bocca asciutta, affinché ristorato io veda Morafthim, già sepolcro del profeta Michea, ora chiesa. Da una parte lascerò gli Orrei, e i Getei, Maresa, l’ Idumea e Lachis e, per le instabili sabbie, nelle quali non si vedono impresse orme di viandanti, e per la vasta pianura del deserto andrò al fiume Sior che vuol dire torbido, e passerò le cinque città dello stesso Egitto che parlano in lingua cananea e la terra di Gesse e i campi di Tanis, dove Dio operò prodigi. Passerò ancora la città detta No, la quale poi è stata cambiata in Alessandria, e Nitria, cittadella del Signore, in cui col nitro purissimo delle virtù si lavano anche oggi le sordidezze di molti. Dopo aver veduto questa, facendosi a lei incontro il santo e venerabile vescovo Isidoro, confessore di Cristo, e  innumerevoli turbe di monaci, tra i quali vi erano molti sollevati al grado di sacerdote e di levita, godeva bensì della gloria del Signore ma si confessava indegna di un onore così grande. A che parlerò io dei vari Macario, Arsete e Serapione e delle altre colonne del fede cristiana? Quale fu la cella di quegli anacoreti in cui ella non entrò? Quale fu di essi ai cui piedi ella non si buttasse? In ciascuno di quei santi le sembrava di vedere Cristo e tutto il bene che essa faceva loro lo stimava, giubilandone, da sé fatto al Signore. Ardore di fede veramente ammirabile e fortezza d'animo appena credibile in una donna! Dimenticatasi del sesso e della debolezza del proprio corpo, desiderava abitare insieme con le sue donzelle fra tante migliaia di monaci e forse avrebbe conseguito quanto bramava essendo tutti pronti a riceverla, se accesa  da maggior brama di vedere gli altri santi luoghi non ne fosse stata rimossa. Passando poi per nave da Pelusio a Maiuma , a causa degli intensissimi caldi, tornò con velocità così grande che avresti pensato che essa fosse un uccello. Poco dopo, volendo la pia donna fermarsi per sempre in Betlemme, là arrivata, per il tempo di tre anni, dimorò in un povero e piccolo albergo, fintanto che da lei fossero fatte fabbricare cellette e monasteri e stanze per diversi pellegrini lungo la strada, dove già Maria e Giuseppe non trovarono albergo. Basti fin qui la descrizione del suo viaggio da lei terminato in compagnia di molte vergini e della figlia.
Breve commento di Cristoforo
L’intento di Gerolamo non è semplicemente quello di lasciarci un ritratto veritiero di Paola, quanto di delineare attraverso di lei il modello di ogni autentica santità. Non l’eccezione dunque, ma la norma della fede, quale deve essere vissuta da chiunque vuol dirsi cristiano. L’intento apologetico è trasceso da un altro ancora più grande . Qual è il senso vero della nostra vita, quale lo scopo ultimo cui dobbiamo tendere, quale la grandezza e la nobiltà che noi tutto dobbiamo desiderare e cercare? Possiamo cominciare con il rispondere ad una domanda molto semplice che è d’obbligo in una realtà di Chiesa che vuol trovare una propria definizione in rapporto al Signore. Chi è il cristiano? È cristiano colui che non vive più per se stesso, ma per Cristo Salvatore. E non c’è iniziale distinzione che tenga: la vocazione è unica per tutti. Poveri o ricchi, giovani o vecchi, sani o malati, intelligenti o dementi, nobili o plebei: tutti dobbiamo mettere tutto nelle mani di Cristo e considerare ciò che abbiamo e siamo una spazzatura in confronto alla sublime grandezza del dono che ci viene dalla fede in Gesù, Salvatore nostro.
Paola, fu nobile, ricca e potente per famiglia, ma ogni bene terreno considerò una perdita in confronto alla conoscenza del Cristo. Non c’è legame al Satana dato dalla ricchezza di questo mondo che non possa essere spezzato da una sincera e decisa volontà di andare incontro all’eterno sposo dell’anima nostra. Ma bisogna entrare in un cammino di conversione, non semplicemente a parole, ma a fatti, spogliandosi di tutto ciò che impedisce un abbraccio pieno e indissolubile con il nostro Signore.
“Ella nobile per discendenza, ma più nobile per santità; già potente  per le sue ricchezze, ma ora più  insigne per la povertà di Cristo; sangue dei Gracchi, discendente degli Scipioni, erede di Paolo, donde trae il nome, vero e legittimo sangue di Marzia Papiria, madre di Scipione l’Africano, preferì a Roma Betlemme, e cambiò i palazzi coperti d’oro in vile, malformato tugurio.”
In poche parole Gerolamo definisce i tratti di una santità che capovolge l’ordine dei valori umani, per mettere al primo posto le beatitudini di Cristo.
Non si è santi per eredità umana, ma per libera elezione del nostro cuore, non di questa o quella cosa, ma dell’amore di Gesù. Non si è potenti per le ricchezze terrene, ma per una povertà affidata al Cristo che cerca unicamente la protezione della sua destra contro gli attacchi del Maligno. Non i palazzi grandi e dorati costruiti da mani d’uomo ci salvano dall’opera devastatrice del Maligno, ma la Chiesa di Cristo, unica abitazione bella e gradita ai suoi occhi anche se a noi può sembrare vile e malformato tugurio.
Vivere per Cristo significa innanzitutto vivere per le cose del cielo, in uno spirito di continua preghiera e di perseverante attesa del nostro incontro con lo sposo celeste. Una fede che non sia attesa della morte, anticipazione col desiderio del passaggio ad un’altra vita in cui Cristo è tutto in tutti, è falsa ed ingannevole. Chi è in cammino verso la vita eterna non può non sentirsi come pellegrino e viandante su questa terra. Il suo pensiero è altrove, perché “là dov’è il tuo tesoro ci sarà pure il tuo cuore”.

“Tutto quel tempo ch’è stata nel corpo sempre è andata come in esilio lontano dal Signore, e con voce lamentevole continuamente si doleva, dicendo: Ahimè, la mia peregrinazione si è prolungata. Io mi sono trattenuta con gli abitanti di Kedar, e l’anima mia è stata lungo tempo pellegrina… Per la qual cosa spesse volte ripeteva quel detto: io sono forestiera e pellegrina , come tutti i miei antenati. Diceva altresì: desidero sciogliermi  da questo corpo, ed essere con Cristo. Ogni volta poi che ella era tormentata da qualche infermità del suo corpo ( in lei prodotta dalla sua incredibile astinenza e dai suoi continui digiuni ) aveva questo sentimento sulle labbra: Io sottometto il mio corpo e lo riduco in servitù, per timore che  predicando io agli altri , non sia ritrovata reproba. Parimenti diceva: è bene non bere vino, né mangiar carne. Soggiungeva ancora : Ho umiliato l’anima mia col digiuno, e nella mia infermità per tutto il mio letto mi sono rigirata, dicendo anche: Mi sono ritrovata in mezzo alle miserie , essendo da spine trafitta. E fra le punture dei suoi dolori , da lei con ammirevole  pazienza tollerati, come se appunto per sé vedesse aperti i cieli, così diceva: Chi mi darà ali a guisa di colomba, e volerò e riposerò?”
Una vita da pellegrini su questa terra, accettazione della  croce come  strumento di purificazione del cuore ed assimilazione alla vita del Cristo, sono le prerogative della vera fede. A queste un’altra si deve aggiungere: un cuore umile e contrito che non cerca il primo posto fra gli uomini, ma l’ultimo, per essere unicamente gradito al Signore.
“Ella come gemma preziosissima tra molte gemme risplende. E in quel modo che lo splendore del sole copre e oscura le piccole fiammelle delle altre stelle, così quella gran donna con la sua umiltà ha superate le virtù e le potenze di tutti, ed è stata la minima fra tutte per divenire di tutte la più grande;  quanto più ella si abbassava, tanto più dal Cristo era innalzata”.
In Paola l’amore per il Signore fa tutt’uno con l’amore per il prossimo conforme alla risposta di Gesù: Amerai il Signore Dio tuo… ed amerai il prossimo…
Gerolamo ne fa un ritratto molto forte e ben delineato.
“Dopo la morte del marito, in tal modo lo pianse, ch’ella fu per morirne.  In tal modo si diede al servizio del Signore, che parve che ella avesse desiderato la sua morte. Perché dunque racconterò io che quasi tutte le ricchezze della sua illustre e nobile casa, una volta ricchissima, furono dispensate ai poveri? A che fine starò a parlare dell’animo suo, clementissimo verso tutti, e della bontà sua che raggiungeva le persone stesse da lei non mai vedute? Quale dei poveri, morendo, non fu avvolto negli abiti suoi? Quale di quelli che giacevano infermi, non fu sostentato dalle sue ricchezze?  Questa, con  somma attenzione in tutta la Città ricercandoli, stimava sentirne danno, se alcun debole, e affamato, era nutrito dal cibo di un altro.  Spogliava i figli, e sgridandola per questo i parenti, diceva che lasciava loro maggior eredità, cioè la misericordia di Cristo… “
Quale poteva essere il coronamento di una simile esistenza se non la ricerca di una vita dedita completamente alla preghiera e alla meditazione della Parola di Dio?
Già si erano diffuse nella Chiesa le comunità monastiche: Paola ne comprese l’importanza e il valore. Rimasta vedova il desiderio di siffatta vita si insinuò nel suo cuore come un fuoco divorante ogni altro pensiero.
“Non potè però per lungo tempo sopportare le visite, e i ricevimenti in massa della sua stirpe nel mondo gloriosa, e della sua nobilissima famiglia. Si doleva dell’onore a lei fatto, e procurava di schivare e fuggire il sentirsi da altri lodare. Essendo poi andati a Roma, in esecuzione dei comandi dell’imperatore, i vescovi dell’Oriente e dell’Occidente, per certi dissensi delle loro chiese, ella qui vide gli ammirabili uomini e vescovi di Cristo, Paolino vescovo della città di Antiochia ed Epifanio di Salamina e di Cipro, ora chiamata Costanza. Di questi ebbe Epifanio ospite in casa sua, e Paolino, che in altra casa alloggiava, per la sua umanità lo tenne come uno della propria famiglia. Accesa dalle virtù di questi, andava sempre pensando di abbandonare la patria, nulla ricordandosi della casa, dei figliuoli, della famiglia, dei poderi, né tantomeno di alcuna altra cosa al mondo. Anzi, se dire si può, sola e senza compagnia ardentemente bramava di andare nell’eremo degli Antonio e dei Paolo.”
Ed eccola già pronta per il lungo viaggio che la porterà in Palestina, nella terra che vide il Salvatore. Qui la presenza del Cristo era avvertita in modo del tutto particolare: come vicinanza non solo spirituale, ma anche fisica. Già a quei tempi la Palestina era visitata da numerosi cristiani e ivi si insediavano comunità monastiche in prevalenza maschili.
Importante fu il contributo dato da Paola per il rafforzamento ed il consolidamento di tali comunità, lontane dal mondo, ma note a tutto il mondo .
“Passato finalmente l’inverno e fattosi navigabile il mare, ritornando i vescovi alle loro chiese, essa pure con quelli navigò almeno coi voti e colle brame. Ma a che sto io dilungandomi col discorso? Ella s’incammina al porto, accompagnata dal fratello e dai parenti, dai congiunti e, quel ch’è più di questi, dai propri figlioli, desiderosi di vincere la clementissima loro madre con affetto di pietà. Intanto già si stendevano le vele, e a forza di remi si avanzava la nave in alto mare. Il piccolo Tossozio dal Lido alzava in atto supplichevole le mani: Rufina già da marito, benché tacendo, con le lacrime la scongiurava che volesse attendere le sue nozze. Ma quella alzava gli occhi asciutti al cielo, superando con l’amore di Dio l’amore che aveva per i suoi figlioli. Non conosceva di essere madre, per dimostrare che  era ancella di Cristo. Internamente si sentiva però tormentata, e come se le interiora le fossero strappate, combatteva contro il proprio dolore, resa in questo più ammirabile, perché vinceva un grande amore. Tra le mani dei nemici e la dura necessità della prigionia, nessuna cosa riesce più crudele  che il dividere i genitori dai figli. La sua grande fede sopportava una pena così grande contro le leggi della natura, anzi il suo giulivo spirito la desiderava. E disprezzando l’amore verso i figli , con l’amore maggiore verso Dio, nella sola Eustochia, compagna della sua liberazione e del suo viaggio, si riposava. La nave intanto solcava il mare e, volgendo lo sguardo al lido, tutti quanti  navigavano con lei; ella altrove teneva rivolti gli occhi, per non vedere quelli che senza tormento non poteva vedere. Confesso che nessuna donna ha giammai amato in tal modo i propri figli, ai quali ella prima di partire donò tutti i suoi beni, diseredandosi in terra , per ritrovare l’eredità in cielo.”
Inizia a questo punto la descrizione del viaggio che terminerà con l’arrivo a Betlemme, dove Paola porrà la sua dimore vicino alla grotta dove nacque il Salvatore.
Il viaggio di Paola offre a Girolamo il pretesto per un breve excursus nelle Sacre Scritture. In Palestina ogni luogo riporta alla mente la Parola di Dio. Potremmo definire la Terra santa La Bibbia illustrata. Ha inizio una delle parti più lunghe della lettera. Un cuore ed una mente lontani dalla Parola di Dio possono trovare il discorso alquanto pesante e noioso. Nomi e citazioni della Scrittura si susseguono in un flusso serrato e continuo che sembra non aver mai fine. E non si può dire che tutto questo non sia avvertito dallo stesso Gerolamo; ma lo scopo è ben preciso ed un insegnamento ci è dato. Nessun approdo felice ci può essere ad uno spirito di preghiera perenne se non si percorre prima, con la lettura, la meditazione, il richiamo alla mente, tutto il percorso tracciato dalla Parola di Dio. La fede viene dall’ascolto e l’ascolto dalla Parola di Dio. Gerolamo non vuole semplicemente darci un assaggio delle sua conoscenza delle Sacre Scritture, per fare sfoggio di sovrabbondante e sfacciata cultura biblica. Vuole innanzitutto premettere ad un discorso l’importanza di un approccio serio e profondo con la Parola Rivelata, come condizione sine qua non per una fede  fondata  ed approvata da Dio.
Ognuno può ben misurare in queste pagine di Gerolamo la propria ignoranza delle Sacre Scritture, non per approdare ad uno scoraggiamento che è abbandono della sequela, ma per trovare lo stimolo per una maggiore e migliore conoscenza. La lettura della Bibbia non si riduce mai ad un puro interesse letterario. Per qualsivoglia ragione ci si accosti alla Parola di Dio, una lettura costante ed approfondita attua uno scavo nel  cuore in cui a poco a poco si insinua in maniera crescente la presenza viva del Cristo. Lo spessore della nostra fede trova un primo indicatore di misura proprio nell’amore che noi portiamo alla Parola rivelata, al tempo che dedichiamo alla sua lettura, alla fatica con cui cerchiamo di comprendere, all’intensità della preghiera con cui chiediamo luce dal Signore.
Non poteva esserci  esaltazione della vita di Paola, se non preceduta dall’esaltazione di quella Parola per la quale ed in virtù della quale ci è donata la fede in Cristo Salvatore.
Riflettano coloro che non amano spendere il loro tempo per una lettura più vera e più profonda della parola.
La nostra fede si accresce con la  conoscenza della Parola. Vi è nella parola di Dio una potenza di resurrezione a vita nuova che ci induce a considerare la Sacra scrittura, come un sacramento, il primo, grande sacramento donato al popolo di Dio. E come possiamo pensare di giungere all’ultimo dei sacramenti, alla Sacra Eucarestia, che tutti gli altri porta con sé, escludendo e saltando quella Parola  che è all’origine di ogni autentica conversione? Dopo aver misurato la nostra ignoranza riguardo la Scrittura, dopo la promessa di un maggiore impegno per il futuro in una continua ed incessante ruminatio della Parola, l’ultima parte della Lettera ci sembrerà ancora più bella e luminosa.
Vedi seconda parte della Lettera