9 VITTORE, AFRA,AGATA, AGNESE, ANASTASIA VERGINE, CECILIA, VALERIANO, CRESPINA, FEBBRONIA

San vittore e compagni
Nella città di Marsiglia, al tempo dell’imperatore Massimiano si era molto diffusa la religione cristiana. Per questo essendo qui giunto questo gran nemico dei cristiani ne fece una grande strage. Tra i martiri vi fu san Vittore, il quale era ufficiale militare ma era anche buon cristiano e molto zelante nella fede, in modo che non perdeva occasione per animare i fedeli a morire per Gesù Cristo. A tale scopo, di notte, si recava in casa dei cristiani per esortarli a soffrire ogni pena piuttosto che rinnegare Gesù Cristo. Questo suo zelo non poteva star molto tempo occulto. Presto fu arrestato e condotto davanti ai prefetti della città, Asterio e Eutichio. I prefetti,  quando fu loro presentato Vittore, gli dissero che essi gli avrebbero ottenuto il perdono se avesse sacrificato agli dei. Pertanto l’esortarono a non perdere il frutto dei suoi servizi per andare dietro ad un uomo morto qual era Gesù Cristo. Rispose Vittore che gli dei  pagani non erano che demoni, i quali non meritavano che di essere disprezzati. Soggiunse che egli si vantava di seguire Gesù Cristo, quell’uomo morto, il quale, essendo figlio di Dio, si era fatto uomo per la salvezza degli uomini, ma non aveva perciò smesso di essere Dio. Nel terzo giorno dopo la sua morte per virtù propria era risorto e salito in cielo, ove regnava insieme con il Padre. I pagani, udendo queste cose, che sembravano loro favole, si misero ad ingiuriarlo. Poiché San vittore era nobile i prefetti rimisero la sua causa al giudizio dell’imperatore. L’imperatore quando lo ebbe davanti cercò di spaventarlo con le minacce. Vedendo che Vittore non ne faceva conto comandò che egli fosse trascinato per tutta la città con le mani e con i piedi legati. Ricondotto che fu poi il santo tutto lacero e coperto di sangue dinanzi ai prefetti, quelli, vedendolo avvilito dalla pena sofferta, cercarono in tutti i modi di indurlo a rinnegare Gesù Cristo, mettendogli davanti i beni che poteva godere in questo mondo se ubbidiva all’imperatore ed i tormenti che avrebbe sofferto se avesse disubbidito. Vittore più coraggioso di prima rispose: “Io non ho commesso alcun delitto contro l’imperatore né ho smesso di servirlo quando si doveva. Ancor più ho reso ogni giorno grazie a Dio per la sua salvezza. Ma come mai potrò essere condannato se preferisco i beni eterni ai temporali? Non sarei pazzo se volessi tenere più conto di questi beni vili che presto finiscono di quelli che sono immensamente più grandi e non finiscono mai? E non sarà cosa giusta che io preferisca alla grazia dell’imperatore la grazia di quel dio che mi ha creato e mi promette una felicità eterna? I tormenti poi, che voi mi minacciate, io li stimo piuttosto benefici che tormenti. Questi mi libereranno dai tormenti eterni e la morte che mi preparate sarà per me un passaggio ad una vita eterna. Non avrei perso il cervello se volessi preferire i vostri dei, i quali non sono che demoni, al mio Dio vivo e vero?”. Proseguiva intanto Vittore ad esaltare la religione cristiana e le glorie di Gesù Cristo, narrando gli innumerevoli miracoli da lui fatti quando viveva su questa terra. I prefetti, non potendolo più soffrire, gli dissero: “Orsù, Vittore, non più parole. Scegli o di placare i nostri dei o di finire la vita con una morte infelice”. E Vittore rispose: “Poiché questa è la vostra decisione fate ciò che volete. Preparate i supplizi, io disprezzo i vostri dei e adoro il mio Cristo”. Quindi i prefetti litigarono fra di loro circa il modo di tormentarlo. Finalmente per ordine di Asterio fu posto il santo in una lunga e dolorosa tortura, durante la quale gli apparve Gesù Cristo che gli disse: “Animo, Vittore, io sono con te nel combattimento per aiutarti e sarò tuo remuneratore in cielo dopo che avrai vinto”. Il santo, confortato da tali parole, con un volto sereno lodava Dio. Al contrario i carnefici, stanchi di tormentarlo, lo chiusero in un carcere più oscuro, ma colà vennero gli angeli a consolarlo. Vittore si pose con essi a cantare le divine lodi. I custodi, vedendo la luce che splendeva in quel luogo, si gettarono ai piedi del santo e gli chiesero il battesimo. Questi custodi si chiamavano Alessandro, Longino e Feliciano. Il santo li istruì come meglio potè e nella stessa notte li fece battezzare da un sacerdote che mandò a chiamare. Il giorno seguente divulgatasi la conversione dei tre custodi, l’imperatore ordinò che Vittore fosse di nuovo posto ai tormenti e che i custodi se ricusavano di lasciare la fede abbracciata fossero decapitati, come avvenne. Vittore, dopo essere stato messo di nuovo ai tormenti, fu portato a sacrificare davanti ad un altare di Giove. Egli lo buttò a terra con un calcio e l’imperatore subito gli fece tagliare il piede e poi lo fece porre sotto una macina di mulino, la quale, benché tutto pesto e affranto,  prima di togliergli la vita si disfece. Al santo, parimenti come gli altri, fu troncata la testa e nell’atto che egli spirò si intesero queste parole come venute dal cielo: Hai vinto, Vittore, hai vinto”. Il tiranno ordinò che i corpi dei martiri fossero buttati in mare, ma Dio dispose che i medesimi fossero condotti alla parte opposta al porto, donde poi i cristiani li presero e li deposero in una grotta ove il Signore volle poi onorarli con molti miracoli.
Santa Afra
La storia di Santa Afra viene riferita dai migliori autori.. Santa Afra fu della città di Augusta nella Rezia. Prima  essa fu pagana e così dissoluta che aveva fatto diventare la sua casa un vero bordello, mentre da tre serve che teneva si faceva aiutare a corrompere i giovani di quella città. Ma in ciò più risplende la grazia divina, nel trarre da un lezzo così grande di sozzure questa meretrice e renderla una martire molto gloriosa. Si crede che Afra fosse stata convertita dal santo vescovo Narciso, insieme con sua madre e tutta la sua famiglia. Dagli atti del suo martirio risulta che essa aveva sempre davanti agli occhi la bruttura dei suoi peccati e ne provava una gran pena. Per questo poi, abbracciata che ebbe la fede, procurò subito di dispensare quell’infame guadagno acquistato a favore dei poveri. E poiché alcuni cristiani, benché poveri, rifiutavano di accettare quello che era il prezzo di offese fatte a Dio, essa con lacrime li pregava di accettarlo e di raccomandarla a Dio perché le perdonasse le sue colpe. Ecco come ben si dispose questa santa penitente a ricevere da Dio la palma gloriosa, che poi conseguì sacrificandogli la sua vita nel fuoco. Allora imperversava la persecuzione di Diocleziano; per cui la santa presa e presentata al giudice, chiamato Gaio, quegli avendola davanti le disse: “Suvvia sacrifica ai nostri dei, perché sarà meglio per te vivere che morire fra i tormenti”. Rispose la santa: “Mi bastano i peccati da me commessi nel tempo in cui non conoscevo il vero Dio. Per questo al presente non posso fare quello che mi comandi e non lo farò mai. Non voglio aggiungere quest’altra ingiuria al mio Signore. Il giudice le ordinò che venisse al Campidoglio. Essa rispose con gran coraggio: “Il mio Campidoglio è Gesù Cristo che ho sempre a me presente ed a cui confesso ogni giorno le mie colpe. Io sono indegna di offrirgli altri sacrifici. Per questo desidero sacrificare me stessa, affinché questo corpo con cui l’ ho offeso sia purificato dai tormenti che a questo scopo sopporterò volentieri”. Riprese a dire Gaio: “Dunque, giacché vista la tua mala vita non la puoi sperare dal Dio dei cristiani, sacrifica ai nostri dei”. La santa rispose: “Il mio Signore Gesù Cristo ha detto di essere disceso dal cielo per salvare i peccatori. E si legge nel Vangelo che una donna peccatrice, avendogli lavati i piedi con le sue lacrime, ne ottenne il perdono di tutte le sue colpe. Si legge qui ancora che egli non rigettò mai da sé né le meretrici né i pubblicani; anzi si degnò di conversare ed anche di mangiare con loro”. Il giudice iniquo non si vergognò di consigliarle di riprendere l’antico infame mestiere, per ricuperare la grazia dei suoi amanti e fare acquisto di ricchezze, giacché si trovava ancora in condizione di poterle acquistare. Disse la santa penitente: “Rinunzio a tutti questi guadagni e li ho in orrore. Quelli che ho fatto per il passato li ho ributtati da me e li ho dati ai poveri, pregandoli di accettarli. Ma come dunque ora potrei procurarli di nuovo?”. Gaio le disse: “Il tuo Cristo ti stima indegna di sé, perciò invano lo chiami tuo Dio, mentre egli non ti riconosce per sua: una meretrice non può essere chiamata cristiana”. Così è, rispose Afra, io  sono indegna di questo nome; ma il mio Dio, che non elegge le persone secondo i loro meriti, ma secondo la sua bontà, si è degnato di accogliermi e di farmi partecipe di tal nome. E donde sai, domandò il giudice, che egli ci ha fatto questa grazia? Rispose la santa: “Io conosco che Dio non mi ha rigettata, giacché mi dà forza di confessare il suo santo nome e mi dà speranza di ottenere con ciò il perdono di tutti i miei peccati”. Replicò il giudice: “Queste, che tu mi dici, sono favole; sacrifica ai nostri dei perché essi ti daranno la salvezza”. La mia salvezza, disse la Santa, dipende unicamente da Gesù Cristo, che mentre stava in croce promise il paradiso ad un ladro che confessò i suoi peccati. Gaio replicò: “Se tu non sacrifichi, io ti farò spogliare e battere alla presenza di tutti con tuo rossore”. Rispose Afra: “Io non mi vergogno che dei miei peccati”. Or via, disse Gaio, io mi vergogno di perdere il tempo a contendere con te: sacrifica o ti condanno a morte. Questo è quel che desidero, rispose Afra, e così spero di ritrovare l’eterno riposo. Ripeté Gaio di nuovo: “Se non sacrifichi ti farò tormentare e bruciare viva”. La santa con coraggio rispose: “Soffra pure ogni tormento questo mio corpo, giacché è stato strumento di tanti peccati; ma non sia mai vero che io voglia contaminare l’anima mia con il sacrificare ai demoni”. Allora il giudice pronunciò la sentenza in questi termini: “Comandiamo che Afra meretrice, la quale ha dichiarato di essere cristiana ed ha rifiutato di sacrificare agli dei, sia bruciata viva”. Il luogo del supplizio fu una certa isoletta del fiume Lech, dove, essendo stata condotta la santa, i carnefici la legarono al palo per bruciarla. Allora, alzando essa gli occhi al cielo, fece questa preghiera: “Signore mio Gesù Cristo, che sei venuto a chiamare non i giusti ma i peccatori a penitenza e che ti sei degnato di farci sapere che in ogni ora in cui il peccatore ritorna a  te pentito dei suoi peccati, tutti li scordi e lo perdoni di tutte le offese che ti ha fatto, ricevi in quest’ora me, povera peccatrice, che mi offro a patire questa pena per amore tuo. Per mezzo di questo fuoco che brucerà il mio corpo liberami dal fuoco eterno”. Finita questa preghiera, ed essendo già stato dato fuoco ai sarmenti, fu udita la santa dire: “Ti ringrazio Signore, che essendo innocente ti sei sacrificato per i peccatori; ed essendo il benedetto di Dio hai voluto morire per noi maledetti. Ti ringrazio ed offro il sacrificio di me stessa a te che regni col Padre e con lo Spirito Santo, nei secoli dei secoli, amen”. E finite queste parole, finì di vivere. In questo frangente stavano sulla riva del fiume a vedere il tutto tre donne: Eunomia, Digna, ed Eutrobia, che erano state serve della santa; e come l’avevano imitata nei suoi errori, così l’avevano poi seguita nella sua conversione, facendosi battezzare con essa dal santo vescovo Narciso. Sapendo che la loro padrona era già morta, si fecero poi trasportare in quell’isola. Nello stesso tempo, essendo stata avvisata la madre della santa, chiamata Ilaria, della morte di  Afra, ella di notte passò nella stessa isola con altri sacerdoti. Preso quel santo corpo lo fece trasportare in un sepolcro della sua famiglia, distante due miglia dalla città di Augusta. Avendo poi saputo tutto ciò Gaio, spedì qui una truppa di soldati con ordine che, arrestati tutti quelli che si trovavano in quel luogo, se rifiutavano essi di sacrificare agli dei, fossero tutti chiusi nel medesimo sepolcro e bruciati. E così fu barbaramente eseguito e tutte quelle sante donne ebbero la corona del martirio. Ciò accadde nell’anno 304.

Santa Agata
Questa santa vergine e martire è celebre presso i Latini e i Greci. E sebbene gli atti del suo martirio non siano a noi giunti, nondimeno vi sono tali memorie che ben meritano tutto il credito. Da queste si ricava che essa nacque in Sicilia da una famiglia molto nobile e ricca. Oltre a ciò la santa era dotata di singolare bellezza.  Tutte queste doti invaghirono di lei il governatore Quinziano, così che stabilì di ottenerla per sua sposa. Avendo intanto egli, già pubblicato l’editto dell’imperatore Decio contro i cristiani, ordinò che Agata come cristiana fosse a lui condotta nella città di Catania, dove esso aveva la sua dimora. La santa vergine, udendo gli ordini dati contro i cristiani, si era ritirata in un luogo nascosto, per liberarsi dalle insidie di Quinziano, delle quali già prima aveva avuto notizia. In questo luogo essa fu ritrovata dai ministri del governatore. Quando si vide posta nelle loro mani, fece questa preghiera: “Signore mio Gesù Cristo e padrone di tutto, tu vedi il mio cuore e sai qual è il mio desiderio che solo tu mi possieda, giacché tutta a te mi sono data. Conservami contro questo tiranno e rendimi degna di vincere il demonio che insidia la mia anima. Quinziano, quando la santa gli fu condotta, per guadagnarla più sicuramente, la consegnò ad una certa donna infame di nome Afrodisia, che faceva pubblica professione di impudicizia insieme con altre nove figliole, che essa teneva nella sua empia scuola. Troppo penosa fu la dimora della santa in quella infame casa, più che se fosse stata la più oscura e fetida carcere della terra. Qui si usarono tutte le insidie da Afrodisia e dalle sue infami discepole perché sant’Agata cedesse ai voleri di Quinziano. Ma la santa, che sino dall’infanzia si era consacrata a Gesù Cristo e riceveva forza dal suo divino aiuto, stette forte e costante a resistere. Avendo saputo Quinziano che niente avevano giovato per un mese continuo tutte le astuzie adoperate da Afrodisia, comandò che la santa fosse ricondotta alla sua presenza. Quando pertanto santa Agata gli fu presentata, esso la rimproverò che essendo essa libera e nobile si fosse lasciata sedurre ad abbracciare l’umile schiavitù dei cristiani. La santa vergine coraggiosamente confessò di essere cristiana e disse che essa non conosceva nobiltà più illustre né libertà più vera che quella di essere serva di Gesù Cristo. E per far comprendere al governatore quanto fossero infami gli dei che egli adorava e voleva fare da lei adorare, gli domandò se egli avrebbe voluto che sua moglie fosse prostituita come una Venere ed egli fosse reputato come un Giove, adultero ed incestuoso. Quinziano, irritato da questi rinfacciamenti di santa Agata, la fece percuotere con schiaffi e poi la mandò in prigione. Il giorno seguente di nuovo se la fece presentare e le chiese se aveva pensato a mettere in salvo la sua vita. Rispose la santa: “Gesù Cristo è la mia vita e la mia salvezza”. Il governatore allora la fece mettere alla tortura e poiché vedeva che simili tormenti poco la disturbavano ordinò che essa fosse tormentata nelle mammelle e quindi che fossero ambedue recise. La qual cosa fu eseguita con barbara crudeltà. Poi ordinò Quinziano che la santa fosse rinchiusa di nuovo nella prigione e che qui non le si applicasse alcun lenitivo alle ferite, perché morisse  di puro dolore. Ed in effetti sarebbe morta di dolore, ma verso la mezzanotte le apparve San Pietro, il quale perfettamente le guarì le ferite e la liberò da ogni dolore e per tutta quella notte si vide in quel carcere splendere una grande luce, in modo che, da quella spaventate, le guardie si misero a fuggire e lasciarono le porte aperte. Poteva allora la santa veramente uscire dalla prigione e salvarsi, come era consigliata dagli altri carcerati, ma essa rispose che non voleva perdere con tale fuga la corona che desiderava ed era per lei pronta in cielo. Quinziano,  non tenendo conto del miracolo, anzi da quello più irritato, dopo quattro giorni pensò di tormentare la santa con nuovi strazi. Ordinò che fosse posta sopra cocci di creta mescolati con carboni ardenti. Ma essa tutto soffrì con costanza; e mentre il tiranno pensava forse di affliggerla con nuovi tormenti, la santa, vedendo  vicino il termine della sua vita, fece questa preghiera: “Signore e mio Creatore, che sin dall’infanzia mi hai conservato e che mi hai dato forza per vincere i tormenti e hai tolto dal mio cuore l’amore del mondo, ricevi ora l’anima mia, poiché è ormai tempo che io da questa misera vita passi a godere della tua misericordia”. Appena la santa ebbe finita questa preghiera tranquillamente spirò e andò ad unirsi con Dio per lodarlo e da amarlo in eterno.

Santa Agnese martire
Si aggiunge qui il martirio di un’altra vergine gloriosa quale fu quello di Santa Agnese il cui nome è celebrato in tutto il mondo anche da Santa Ambrogio, da San Massimo, da S. Agostino, da Prudenzio e da molti altri scrittori. È fama che la Santa vergine sia nata da genitori di sangue illustre e di santi costumi. Non aveva essa più di dodici anni, come scrive Sant’Ambrogio, o più di tredici anni come scrive Sant’Agostino, ed era desiderata da molti per la sua rara bellezza. Ma specialmente ne era al sommo invaghito Procopio, figlio di Sinfronio, governatore di Roma. Se non che la santa aveva già consacrata la sua verginità e tutto il suo amore a Gesù Cristo. Quando Procopio le mandò un ricco regalo, significandole che egli la desiderava, essa gli rispose che era promessa ad altro sposo. Procopio non si perse d’animo, tentò ogni mezzo per guadagnarla, ma tutti gli riuscirono vani… Non sapendo più cosa fare, implorò l’aiuto di suo padre Sinfronio, sperando che egli con la sua autorità di governatore di Roma gli avrebbe ottenuto l’intento. Il governatore, per accontentare il figlio, fece venire Agnese alla sua presenza e le disse che non sapeva per quale ragione essa rifiutasse le nozze del suo figliolo, mentre non capiva come potesse sperare migliore partito. La santa rispose che il suo sposo era divino e perciò sopravanzava di gran lunga le qualità del suo figliolo. Il governatore non comprendeva chi mai fosse questo  sposo divino. Un gentiluomo della sua corte gli disse che quella fanciulla era cristiana e che lo sposo divino altri non era che il Dio dei cristiani. Allora Sinfronio, cambiando modo di parlare, disse alla santa che doveva abbandonare quella setta e la sua dottrina se non voleva perdere la fortuna che le si offriva e sottoporsi all’infamia e a crudeli tormenti, allorché ostinatamente volesse continuare ad essere cristiana. Per decidere al proposito le dava ventiquattro ore di tempo. Agnese allora con intrepidezza subito rispose che essa senza aspettare altro tempo aveva già deciso di non avere altro sposo che Gesù Cristo e che non temeva né tormenti, né la morte, anzi massimamente desiderava di dare la vita per questo suo divino sposo. Il governatore pensò di spaventarla minacciando di mandarla ad essere prostituita e disonorata in un luogo infame. E la santa replicò: io confido in Gesù Cristo, mio sposo onnipotente, che egli mi difenderà da ogni oltraggio. Allora Sinfronio, dato in furore, ordinò che la Santa vergine fosse cinta di manette e catene e che fosse trascinata agli altari degli idoli perché desse loro l’incenso. Giunta la santa davanti all’idolo, invece di offrirgli l’incenso, si fece il segno della croce dichiarando con ciò che il solo suo sposo crocifisso meritava di essere adorato. Il governatore adirato la fece  poi condurre a forza al luogo di prostituzione. Ma posta la vergine in quel luogo infame, nessuno  ebbe l’ardire neppure di guardarla con occhio impudico. Un solo giovane temerario (e questo dice uno scrittore che fu Procopio) ebbe l’insolenza di insultarla, ma il misero conobbe l’effetto di quello zelo con cui lo sposo delle vergini viene in difesa delle colombe a lui consacrate. Un fulmine sceso dal cielo accecò l’impudico e lo fece cadere quasi morto in mezzo alla piazza. Mentre i compagni si davano da fare per portargli qualche aiuto e lo piangevano quasi per morto, la vergine fu supplicata di pregare per lui. È fama che avendo Agnese pregato fu restituita la vita al giovane e l’uso perduto degli occhi. Il governatore, attonito di fronte a tanti prodigi, era propenso a liberare la vergine da ogni altra molestia. Ma i sacerdoti degli idoli, gridando che quelli non erano che sortilegi e magie, incitarono il popolo a chiedere la morte di Agnese come di una maga. Il governatore, temendo una sedizione se la liberava, abbandonò il pensiero di lasciarla andare, ma non avendo animo di condannarla a morte rimise il giudizio di tal causa ad Aspasio suo luogotenente. Questi costretto dal popolo la condannò ad essere bruciata viva. Subito fu eretto il rogo e collocatavi la santa si accese il fuoco. Le fiamme la rispettarono poiché esse si divisero e dando la morte a molti idolatri che vi assistevano lasciarono la santa senza alcuna offesa. I sacerdoti e il popolo, continuando a gridare che tutti ciò era opera del demonio,  obbligarono il luogotenente ad ordinare ad una carnefice che svenasse la vergine sopra la stessa catasta. Il carnefice, come scrive San t’Ambrogio, impallidito per l’orrore di tale esecuzione, stava renitente a vibrare il colpo. La santa gli fece coraggio dicendogli: “Presto, distruggi questo mio corpo, che è stato occasione di piacere ad altri con offesa del mio sposo divino. Non avere timore di darmi una morte, che sarà a me principio di una vita eterna”. Alzando gli occhi al cielo pregò Gesù Cristo di ricevere in pace l’anima sua benedetta. E così la beata vergine ricevendo il colpo andò in cielo a ricevere la palma del suo martirio. Al tempo di Costantino fu fabbricata una chiesa in onore di Santa Agnese, la festa della quale è celebrata due volte all’anno dalla santa Chiesa, nel giorno 21 gennaio per la sua morte sofferta in terra e il 28 dello stesso mese per la corona da lei ricevuta in cielo.


Santa Anastasia vergine
Morto che fu Gallo, imperatore, nell’anno 244 fu eletto Valeriano, il quale da principio si mostrò favorevole ai cristiani e per tale ragione nel suo palazzo vi era una gran numero di cristiani. Ma quanta fu la sua dolcezza all’inizio, altrettanta fu poi la crudeltà con la quale li perseguitò. Prese con lui una gran confidenza un egizio che era mago. Poiché i cristiani con il solo segno della croce distruggevano i prestigi dei demoni, il principe stimolato dal suo favorito, verso la fine dell’anno 247 si impegnò per annientare la religione cristiana. Santa Anastasia era una vergine nata a Roma da genitori cristiani e nobili. La santa vergine era dotata di una grande bellezza, ma essa, sin dai primi anni, dimostrò  che non voleva altro sposo che Gesù Cristo. Per questo conduceva una vita santa ed altro non desiderava che di crescere sempre più nel divino amore. Vi era a Roma una casa di vergini consacrate a Dio, retta da un’altra vergine di grande virtù di nome Sofia.  Tra queste andò a chiudersi Anastasia e qui maggiormente si avanzò nelle virtù. Non smise il demonio di tentarla in più modi ad abbandonare la buona vita incominciata, ma aiutandosi essa con le preghiere maggiormente si perfezionò e si strinse con Gesù Cristo. Avendo poi Valeriano fatto pubblicare gli editti contro i cristiani, i suoi ministri correvano dappertutto a spiare dove fossero cristiani per renderli vittime del loro furore. Seppero che in casa di Sofia vi era Anastasia, che con la sua vita esemplare portava il nome di santa tra i fedeli. Un giorno un certo ufficiale andò con molti soldati al monastero. Aprirono a forza le porte e da parte del prefetto di Roma, chiamato Probo, chiesero che fosse loro consegnata Anastasia. Avvisata di ciò, la buona Sofia corse a dar coraggio alla sua discepola e le disse: “Figlia mia ecco il tempo che lo sposo ti chiama. Va’ a sacrificarti per amore di colui che per te si sacrificò sulla croce. Sii tu forte e fatti conoscere degna di tale sposo”. Presa che fu la santa giovane fu presentata a Probo, il quale ammirando la sua bellezza, le domandò con dolcezza qual era il suo nome. Rispose la santa: “Io mi chiamo Anastasia ed ho la felicità di essere cristiana”. Riprese il giudice: “Questa qualità di cristiana è cattiva per te ed oscura i tuoi pregi. Io ti consiglio di lasciare questa religione così odiosa; io procurerò di renderti felice, ma bisogna che tu venga con me al tempio ad offrire un sacrificio a Giove. Se poi non vuoi ubbidire, sappi che ti aspettano tutti i tormenti”. Rispose la santa: “Tutti questi tormenti io li aspetto e sono pronta a soffrirli per amore del mio Dio. Non mi smuovono le tue promesse né le tue minacce. Quel Dio onnipotente che adoro saprà darmi forza per superarli. A queste parole, dette con animo risoluto, il prefetto montò in furia e ordinò che Anastasia fosse schiaffeggiata. Ciò fu fatto con tanta violenza che la faccia restò coperta di sangue e così maltrattata fu mandata in prigione. Qui posta, la santa invece di mestizia dimostrò tanta allegrezza che il tiranno, cresciuto nella rabbia, comandò che nella tortura le fossero slogate tutte le membra e bruciati i fianchi con torce ardenti. Ma lo strazio fu sopportato dalla santa con volto sereno e senza un lamento. Vedendo pertanto il prefetto che la tortura e il fuoco non la scuotevano affatto le fece strappare le unghie dalle dita e spezzare i denti a colpi di martello. Poi le fece strappare con i ferri le mammelle. Essa naturalmente per la violenza di tanti dolori avrebbe dovuto spirare, ma il Signore la confortò  fra quelli in modo che essa non faceva altro che benedirlo. Giunta che fu al carcere, si trovò prodigiosamente guarita da tutte le  sue piaghe. Probo, informato di ciò e sapendo inoltre che la santa chiamava i suoi dei, dei di legno, di creta e di metallo, comandò, da barbaro qual era, che le fosse strappata la lingua sin dalle radici. La santa, udendo quell’ordine crudele, si mise a ringraziare Dio e a cantare le sue lodi. L’operazione fece orrore a tutti e si vide uscire dalla sua bocca un ruscello di sangue di cui restò tutta bagnata e tinta la sua veste. Sentendosi poi essa mancare in quel tormento fece segno ad un cristiano chiamato Cirillo, il quale gli stava accanto, che gli desse un poco d’acqua. Quegli gliela porse e per quella carità meritò poi la grazia del martirio. Tuttavia santa Anastasia, strappata che le fu la lingua, non cessava di benedire il Signore e di chiedergli aiuto per compiere il suo sacrificio. Spesso alzava le mani al cielo, ma il tiranno, non potendo sopportare ciò, ebbe la crudeltà di farle troncare anche le mani e i piedi e poi le fece tagliare la testa. La santa ebbe la sorte di andare ornata di tante gemme quanti erano stati i suoi supplizi a unirsi in cielo con Gesù Cristo per cui aveva tanto patito. Nello stesso tempo fu decapitato quel buon cristiano Cirillo, che le aveva usato quella carità dell’acqua, come di sopra si è detto. Tutto ciò accadde il 27 oppure 28 ottobre verso l’anno 249. Narra il Surio che la buona Sofia, avendo saputo della gloriosa morte della sua novizia, procurò di avere il suo corpo e lo seppellì in un luogo fuori della città con l’aiuto di due persone, che vennero allora ad aiutarla in quell’ufficio di pietà.

Santa Cecilia vergine e santi Valeriano e Tiburzio
Santa Cecilia è una vergine martire molto celebre nella chiesa, in onore della quale sin dal quarto secolo era in Roma dedicata una chiesa. Di lei si fa menzione in tutti i martirologi ed anche nel canone della messa. Nell’ottavo secolo si era sparsa voce che Astulfo, re dei Longobardi, avesse estratto da Roma il corpo della santa trasportandolo altrove. Ma la medesima santa apparve in sogno al Papa San Pasquale I e gli disse che Dio non aveva permesso quel trasporto preteso dai Longobardi e la esortò a ricercare le sue reliquie, come fece il santo pontefice, e le ritrovò nel cimitero di Pretestato, sulla via Appia nell’anno 821. Le ripose a Roma nella chiesa sopraddetta che fece rifabbricare dai fondamenti. Avvenne tuttavia che nel 1599, dopo otto secoli, fosse di nuovo ritrovato il corpo di santa Cecilia, del quale si era anche perduta la memoria, in una cassa di cipresso, dentro un’altra di marmo, con i panni di lino tinti del sangue della martire. Di ciò fu testimone il cardinale Baronio. Il papa Clemente VIII fece riporre quella cassa di cipresso ove stava il corpo della Santa in un’altra preziosa cassa d’argento, in cui fino al presente giace. Parlando poi della storia di Cecilia, quantunque alcuni scrittori abbiano messo in dubbio gli atti antichi, noi esporremo il suo martirio secondo questi atti, dal momento che questi sono stati universalmente accolti nella chiesa latina e greca per il tempo di quattordici secoli. Santa Cecilia fu una fanciulla romana delle più antiche famiglie di Roma. Nacque, secondo l’opinione più comune, verso l’inizio del terzo secolo, da genitori non si sa se cristiani o pagani. È noto che essa fu cristiana fin dalla sua infanzia. E poiché era ornata di tutti i pregi naturali era desiderata dai giovani romani più ricchi e più nobili: Essa tuttavia si sottraeva a tutte le richieste di nozze, poiché si era tutta data all’amore di Gesù Cristo, scelto da lei per suo unico sposo. Si crede che essa si compiacesse di suonare strumenti musicali, sui quali si dilettava poi di cantare le lodi divine e ciò le serviva anche di pretesto per starsene più ritirata. Dicono anche gli atti del suo martirio che portava con sé di continuo il libro dei sacri Vangeli, per seguirne le massime e i consigli e perciò la sua vita non era applicata ad altro se non alla preghiera e alla mortificazione del suo corpo. Intanto i suoi genitori decisero di darla in matrimonio ad un giovane nobile, chiamato Valeriano. La santa, udendo ciò, non si perse di coraggio, ma in quei tre giorni, che precedettero le sue nozze, osservò un rigoroso digiuno, si armò con un aspro cilicio che poi da lei non fu più lasciato e perseverando in una continua preghiera non cessava di pregare Gesù Cristo perché non permettesse che ella perdesse quella verginità che a lui aveva già consacrato. Per questo il Signore la consolò, poiché per mezzo del suo angelo custode, fatto a lei visibile, le fece sapere che egli l’avrebbe assistita e che Valeriano destinato per suo sposo non l’ avrebbe offesa e con tale certezza ella acconsentì a sposarlo. La sera delle nozze santa Cecilia, parlando con Valeriano gli disse: “Valeriano, sappi che io sono cristiana e che sin dalla mia fanciullezza mi sono consacrata a Dio dedicandogli la mia verginità. Egli mi ha assegnato un angelo dal cielo che mi custodisca e mi difenda da ogni offesa. Perciò bada a non commettere verso di me qualche cosa che susciti  lo sdegno di Dio contro di te”. Valeriano, udendo ciò, non osò toccarla, anzi disse che egli avrebbe creduto in Gesù Cristo se gli fosse fatto vedere il suo angelo. Allora la Santa, piena di giubilo a questa risposta, gli replicò che non poteva essere fatto degno di tale grazia, se prima non avesse preso il battesimo. Valeriano, preso dal desiderio di vedere l’angelo, rispose che era pronto a farsi battezzare. La santa lo esortò di andare a trovare il papa Urbano che stava nascosto, a motivo della persecuzione, nei sepolcri dei martiri presso la via Appia. E Valeriano, ubbidiente alla voce della sua santa sposa ed  alla voce di Dio, che già l’aveva accettato per suo servo e per suo martire come poi fu, andò e trovò san Urbano, il quale avendolo sufficientemente istruito, lo battezzò. Quindi ritornato a Santa Cecilia la ritrovò in preghiera ed insieme con essa ebbe la sorte di vedere l’angelo risplendente d’uno splendore celeste, che lo assisteva. Allora Valeriano, rinfrancato da quella visione divina e pieno di giubilo pensò di procurare con tutte le sue forze di ridurre anche Tiburzio, suo fratello, che egli molto amava, a farsi cristiano e gli narrò tutto quanto era a lui accaduto. Santa Cecilia, che si trovava presente a questo discorso, si mise a dimostrare a Tiburzio la verità della religione cristiana e che la religione dei Gentili che egli professava non era che un mucchio di favole e di falsità, inventate dal demonio per far perdere le anime. Mentre la santa parlava, la grazia di Gesù Cristo attirò a sé il cuore di Tiburzio, il quale cercò di essere al più presto battezzato. Subito andò anche lui a trovare san Urbano da cui ritornò parimenti battezzato. Ora questi  due santi fratelli, fatti già seguaci di Gesù Cristo, subito si diedero con le elemosine a sollevare i poveri e si applicarono a consolare i carcerati per la fede e a seppellire i corpi dei martiri. Delle quali cose essendo poi stato informato Almachio, prefetto di Roma, nemico dei cristiani, i due fratelli furono da lui chiamati e li rimproverò di ciò che facevano mescolandosi con i cristiani. Essi, che già si erano affezionati alla fede, risposero che illuminati dalla luce divina conoscevano che tutte le cose di questo mondo sono vanità e bugia, che è una pazzia per questi beni terreni perdere i beni eterni del cielo. Il prefetto replicò: “Chi vi ha insegnato  queste follie? Risposero essi: “Signore, è follia adorare invece di un dio una statua di pietra o di legno e preferire una vita che dura pochi giorni ad una felicità eterna. Nel tempo passato anche noi siamo stati pazzi, ma da oggi in poi non vogliamo essere più pazzi. E anche tu Almachio, dopo la tua morte confesserai  la tua pazzia se continuerai a venerare i falsi dei; ma allora non vi sarà più rimedio alla tua eterna rovina”. Almachio, sdegnato, li fece ambedue battere con tanta crudeltà che ebbero quasi a lasciare la vita in quel supplizio, nel quale i santi confessori non facevano altro che benedire Gesù Cristo per averli fatti degni di spargere il sangue per suo amore. Quindi ordinò che essi fossero portati al tempio di Giove, comandando che, se avessero qui rifiutato di sacrificare, fossero messi a morte. Con tale ordine furono consegnati ad un ufficiale di nome Massimo, che poi li condannò a morte. Vedendo che i santi martiri andavano allegri alla morte, domandò loro donde nascesse quella loro allegrezza tanto grande. Rispose Tiburzio: “E come non dobbiamo rallegrarci vedendoci prossimi al termine di questa vita infelice per iniziarne una tutta felice che non avrà più fine?”. Allora Massimo replicò: “Dunque vi è  un’altra vita dopo la presente?”. Senza dubbio, riprese Tiburzio, l’anima nostra è immortale, cosicché dopo questa vita, che è così breve e piena di tribolazioni, vi è la vita eterna pienamente felice, preparata da Dio ai suoi servi fedeli”. Commosso Massimo da queste parole e ancor più dalla grazia divina che lo illuminò disse: “Se è così, io voglio essere cristiano”. Differì l’esecuzione della sentenza data contro i due santi per il giorno seguente e in quella notte si fece istruire e ricevette il battesimo anche alla presenza di Santa Cecilia che animò tutti e tre al desiderio del martirio. Il giorno seguente nel luogo in cui i due santi fratelli furono decapitati Massimo vide le loro anime come due stelle lucenti condotte dagli angeli al cielo. Allora piangendo di gioia disse: “Beati voi, servi del vero Dio! Chi può comprendere la vostra gloria come io la vedo! E poiché io sono cristiano come voi perché non posso avere la medesima sorte?”. Almachio, udendo la conversione di questo suo ufficiale, seguita da quella di molti altri, ordinò che Massimo fosse percosso con i bastoni. L’ordine fu eseguito con tanta crudeltà che il santo martire morì tra quelle battiture. Le reliquie dei due santi fratelli prima furono seppellite in un luogo distante quattro miglia da Roma ma poi furono trasportate nella città nell’anno 821 dal papa Pasquale, che le collocò nella stessa chiesa dedicata a Santa Cecilia. Ritorniamo a Santa Cecilia. I santi Valeriano e Tiburzio avevano lasciato tutti i loro beni alla santa, perché ne disponesse a suo piacimento. La santa, vedendo che la sua morte non era lontana, vendette tutto e diede il ricavato ai poveri. Almachio, avendo saputo poi che Cecilia era cristiana, la fece arrestare. Quelli che la conducevano piangevano nel vedere quella giovane così nobile e dotata di tanta bellezza vicina ad essere condannata a morte; per questo cercavano di convincerla a rinunciare a Gesù Cristo. Ma Cecilia, al contrario, piangendo sopra la loro cecità disse: “Voi parlate così perché non sapete quale sia la felicità di morire per Gesù Cristo. Sappiate che questo è il desiderio più grande che io ho”. Piena di santo zelo dimostrò a tutti quei pagani che l’ascoltavano quanto sia grande la sorte di coloro che credono al vero Dio e lasciano i beni miserabili di questo mondo per acquistare la gloria eterna del Paradiso. Parlò a lungo su queste verità eterne, quindi chiese loro se credessero a quanto aveva detto. E quelli risposero tutti: “Sì, lo crediamo e vogliamo essere cristiani. La santa allora mandò a chiamare il pontefice san Urbano, il quale venne e battezzò nello stesso giorno tutta quella compagnia, che era di quattrocento persone, la maggior parte delle quali diedero poi la vita per Gesù Cristo. Dopo tale gloriosa conquista ritornò la santa tutta giubilante alle carceri ed essendo stata di nuovo presentata ad Almachio, quello, preso dalla bellezza di Cecilia e dallo spirito con cui gli rispose, si sentiva inclinato a rimandarla senza darle alcuna pena. Avendo poi saputo della conversione di tanta gente operata per mezzo della santa cominciò a spaventarla con minacce di morte se non cedeva. Rispose la santa: “Signore tu ci dai la morte, ma il nostro Dio, invece della vita presente piena di miserie, ci dona una vita eterna tutta felice e poi ti stupisci che i cristiani temano così poco la morte? Tu adori una statua di pietra formata a colpi di scalpello, oppure un tronco di legno cresciuto nella foresta: queste sono le vostre divinità. I cristiani, al contrario, adorano un solo Dio, Signore di tutto e per questo voi li condannate a morte? E perché? Perché rifiutano essi di essere empi”. Almachio a questo discorso restò come fuori di se stesso e  non rispose se non che si doveva ubbidire all’imperatore. La santa replicò che ancor più bisognava ubbidire a Dio. Il prefetto la interruppe e la fece ricondurre in prigione. Non osando poi farla morire in pubblico per timore di qualche sedizione, ordinò che fosse chiusa in una stufa dove rimanesse soffocata dal fuoco. Comprendendo poi che la santa non ne provava alcun spavento mandò un carnefice a troncarle il capo. Il carnefice ripeté tre colpi di scimitarra sopra il collo di santa Cecilia con tutta la sua forza, ma non gli riuscì di tagliarle la testa. Poiché dalle leggi era vietato dare più di tre colpi, lasciò la santa bagnata di sangue, ma ancora viva. Visse ella altri tre giorni, come aveva chiesto a Dio, per confermare nella fede coloro che aveva convertito a Gesù Cristo. In quel tempo quella casa fu sempre piena  di nuovi convertiti che dalla santa furono sempre più animati a star saldi nella fede. Alla fine, il terzo giorno, il 22 novembre dell’anno 232 essa diede serenamente l’anima al suo Dio e andò a ricevere il premio di tanti suoi meriti. San Urbano, che assistette alla sua morte, fece sotterrare il suo corpo nel cimitero di Callisto e poi consacrò in una chiesa la casa della santa.

Santa Crespina
Santa Crespina fu celebrata per tutta l’Africa. San Agostino fa menzione in più luoghi del suo martirio. Essa era nobile e ricca ed era madre di più figli. Quando la santa si vide nel pericolo di perdere i figli, i beni e la vita nella persecuzione che regnava al suo tempo, invece di rattristarsi ne concepì una grande gioia. Essa era stata cristiana fin dai suoi più teneri anni. Fu arrestata nella sua città di Tagara, per ordine del proconsole Anulino. Questi la interrogò se le fossero noti gli editti imperiali, con cui si comandava a tutti di sacrificare agli dei dell’impero. Essa rispose: “Io non ho mai sacrificato, né sacrifico se non ad un solo Dio e al nostro Signore Gesù Cristo, suo Figlio, il quale è nato e ha patito per noi”. Anulino allora disse: “Lascia stare questa tua superstizione e adora i nostri dei”. Replicò Crespina: “Io adoro ogni giorno il mio Dio e fuori di lui non ne conosco alcun altro”. Tu dunque, disse il giudice, sei ostinata e disprezzi i nostri dei; perciò bisogna che tu conosca la forza delle nostre leggi. E la santa: “Io patirò volentieri quanto dovrò patire per la mia fede”. Disse il proconsole: “Io ti farò leggere il comando dell’imperatore che tu devi osservare”. La santa rispose: “Io osservo il comando del mio Signore, Gesù Cristo”. Ma tu perderai la testa, replicò Anulino, se non osservi l’ordine dell’imperatore, come lo osserva tutta l’Africa. Non sia mai vero, rispose la Santa, che qualcuno mi faccia sacrificare ai demoni. Io sacrifico solo al Signore che ha fatto il cielo e la terra. Il proconsole riprese ad esortarla che ubbidisse agli ordini dei principi, altrimenti, le disse, non potrai evitare la collera dell’imperatore. La santa rispose con coraggio: “Io non temo lo sdegno degli uomini: tutto il male che essi possono farmi è nulla. Io temo solo quel Dio che è nei cieli e mi stimerei perduta per sempre se lo offendessi con l’essere sacrilega”. Il proconsole replicò: “Tu non sarai sacrilega obbedendo ai principi e adorando le divinità  dei  Romani”. Ma Crespina alzando di più la voce disse: “Dunque tu pretendi che io sia sacrilega presso Dio per non apparire sacrilega agli occhi degli uomini? Ciò non sarà mai: Dio solo è grande ed onnipotente, ed ha creato tutte le cose. Gli uomini sono sue creature, che male essi possono fare?”. Anulino vedendo che la Santa era sempre più ferma nella sua fede dopo averle dette altre invettive e minacce ordinò che per ignominia le fosse rasata la testa. Poi le disse che se avesse continuato ad essere ostinata le avrebbe fatto perdere la vita fra i tormenti. Alla qual cosa la santa rispose: “Io non tengo in conto la vita presente e temo solo di perdere la vita dell’anima e di essere condannata al fuoco eterno”. Or via, gridò il proconsole, se ti ostini ancora io ti farò tagliare la testa. E la Santa: “Ne renderò grazie al mio Dio nel farmi degna di questa sorte. Dio è con me perché io non acconsenta alle tue insistenze”. Allora Anulino disse: “A quale scopo sopportiamo ancora questa empia donna?”. E ordinò, dopo aver fatto rileggere gli atti, che a Crespina fosse tagliata la testa, per essere essa ostinata a non sacrificare agli dei secondo gli editti dei principi. Crespina, udita l’iniqua sentenza, non si turbò affatto e neppure se ne dolse, ma giubilando disse: “Rendo grazie a Gesù Cristo e benedico il Signore che si degna in tal modo di liberarmi dalle mani degli uomini”. Questa santa consumò il suo martirio il 5 dicembre dell’anno 304. San Agostino spesso proponeva l’esempio di questa martire nei suoi sermoni, dicendo: “Ecco, santa Crespina disprezzò tutte le cose e la vita stessa per amore di Gesù Cristo. Poteva essa vivere più a lungo e felice su questa terra, essendo ricca e nobile, ma non avrebbe ottenuto la vita eterna. Saggiamente dunque scelse di vivere in eterno piuttosto che prolungare un po’ di più la vita terrena”.

Santa Febbronia
Nella persecuzione di Diocleziano vi era nella Siria in Sibapoli un celebre monastero di vergini, che erano più di cinquanta religiose unicamente occupate alle divine lodi. La superiore chiamata Brienna era nobile e di molta virtù. Essa aveva presso di sé una nipote chiamata Febbronia, che aveva allevato sin dall’età di tre anni e che allora aveva diciannove anni. Era di una rara bellezza; ma quello che la rendeva più bella erano le grandi virtù che la adornavano. Per questo la zia la teneva custodita con tanta cura che non la lasciava vedere ad alcuno. Febbronia sin dalla sua infanzia aveva deciso di non avere altro sposo che Gesù Cristo. Per questo, fattasi religiosa, conduceva una vita tutta santa. Digiunava quasi tutto l’anno ed i suoi cibi non erano che pane e radici o legumi e spesso passava due giorni senza cibo. Dormiva su di una tavola molto stretta e spesso anche sulla nuda terra. Si sapeva che vi era nel monastero una giovane di grande bellezza e di una rara virtù; per questo più persone avevano tentato di vederla e di parlarle, ma sempre inutilmente. Ma una giovane vedova di grande nobiltà chiamata Jeria,  tanto pregò e pianse ai piedi della superiora,  che la medesima le promise di farla parlare con lei. Poiché Febbronia difficilmente si sarebbe risoluta a parlare con una persona secolare, vestirono Jeria con abito da monaca. Così Febbronia le parlò con tanto spirito d’amore divino che Jeria dopo quel discorso subito prese il battesimo e fece battezzare tutta la sua famiglia, e rinunciando alle seconde nozze, a cui prima pensava, non pensò più che a vivere solo per Dio. Dopo ciò giunse la notizia che l’imperatore Diocleziano mandava a Sibapoli il prefetto Lisimaco con Seleno suo zio, con ordine di sterminare tutti i cristiani. Lo spavento dei fedeli fu grande; perciò il vescovo, vedendo il pericolo delle vergini se fossero rimaste nel monastero, diede loro il permesso di uscirne. Ed infatti tutte uscirono, spargendo grandi lacrime nel separarsi tra loro. Ma la superiora disse che sebbene lasciava a tutte la libertà di uscire, essa pur tuttavia voleva rimanere nel convento ed aspettare qui il suo martirio. Disse poi piangendo: “Che sarà di Febbronia? E che sarà di me?”. Rispose Febbronia: “Resterò qui anch’io, zia mia: e poi disse: “Quale sorte migliore posso io sperare che dare il sangue per Gesù Cristo?”. Lisimaco, per altro, essendo figlio di una cristiana, favoriva i cristiani; ciò nonostante l’imperatore Diocleziano l’aveva destinato proconsole in Oriente insieme con Seleno suo zio, nemico mortale dei cristiani; per questo dovette dare il comando delle truppe alla conte Primo, con ordine però di seguire i consigli di Seleno. L’ordine fu prima eseguito a Palmira con la morte di innumerevoli cristiani. Quindi i pagani avvisarono Seleno che vi era quel monastero di vergini cristiane. Subito fu spedita una compagnia di soldati;  avendo questi aperto a forza le porte del convento, Febbronia subito si gettò ai loro piedi pregandoli di fare di lei la prima vittima di Gesù Cristo. Nello stesso tempo giunse il comandante Primo, ed avendo ammirato la bellezza di Febbronia, andò a trovare Lisimaco (il quale era un giovane d’anni venti) e gli disse di aver trovato nel monastero una giovane molto bella, che dall’aspetto sembrava nobile. Perciò la stimava molto adatta per sua sposa. Ma mentre facevano questo discorso un soldato andò a riferire a Seleno che Primo trattava per ammogliare suo nipote con una vergine cristiana. Per questo, Seleno ordinò subito che fosse a lui condotta Febbronia. Venne la santa al giovane carica di catene: “Le altre monache sue compagne volevano seguirla nel martirio, ma i soldati non lo permisero. La sua buona zia, licenziandosi da lei le disse abbracciandola: “Va’ figlia mia e fatti conoscere come degna sposa di Gesù Cristo”. Presentata Febbronia a Seleno ed  interrogata se fosse libera: No, rispose, io sono schiava. E quegli: “Chi è il tuo padrone? Rispose: “E’ Gesù Cristo, mio Salvatore e Dio”. Seleno replicò che era un grande danno trovarsi essa ingannata con questa setta, per cui la pregò di uscire dall’inganno e di sacrificare agli dei, che stavano per renderla fortunata, perché così avrebbe contratto le nozze con suo nipote Lisimaco e sarebbe diventata una delle prime dame dell’impero. La santa allora, tenendo le catene con la mano, disse: “Signore, ti prego, non mi privare di questi gioielli, i più belli che io abbia portato in vita mia. In quanto poi alle nozze che mi proponi io sono consacrata al mio Dio, perciò non occorre offrirmi i giovani della terra. Sono poi cristiana; come posso venerare i demoni? E sappi che per la mia fede sono pronta a soffrire tutti i tormenti”. Seleno adirato ordinò allora che la santa fosse straziata con i flagelli e fu straziata in modo tale che il suo corpo appariva una sola piaga. In quel frattempo Febbronia non fece altro che benedire continuamente Dio. Seleno, credendosi con ciò insultato dalla santa, la fece stendere sopra una graticola di ferro dove la fece bruciare a fuoco lento. I presenti, anche i pagani, a quella crudeltà si allontanarono. Ma la santa intrepida non faceva altro che ringraziare Gesù Cristo di farla degna di partire per suo amore. Il tiranno, non contento di quei tormenti, le fece inoltre spezzare tutti i denti e poi strappare dal petto le mammelle. Ma non avendo tutti quei supplizi indebolita la costanza di Febbronia, alla fine il tiranno, poiché non la sopportava più, le fece tagliare la testa. Così la santa compì il suo martirio il 25 giugno all’inizio del quarto secolo. Mentre  poi Primo e Lisimaco discorrevano della vittoria della santa fu portata a loro la notizia che Seleno, diventato subito furioso, si era rotto da se stesso la testa contro un pilastro ed in quel punto era morto. Andarono alla stanza di Seleno e lo trovarono già morto. Per questo Lisimaco ordinò al conte Primo che facesse chiudere il corpo di Santa Febbronia in una ricca cassa e le fosse data onorevole sepoltura. Compiuto questo atto pietoso, Primo e Lisimaco ebbero la fortuna di abbracciare la fede e la loro conversione fu seguita da molti altri.

 

 

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