8 SINFORIANO, TARACO, TEODORA E DIDIMO, TEODORO, TEODORO TAVERNAIO, TIMOTEO E MAURA, TRIFONE, RESPICIO, VINCENZO

San Sinforiano
Questo santo fu figlio di Fausto della città di Autun in Francia e buon cristiano. San Sinforiano, aiutato dalla buona educazione del padre e ancor più dalla divina grazia, si avanzò tanto nelle virtù che divenne oggetto della stima di tutti i fedeli. Al contrario nella città di Autun vi erano molti idolatri e specialmente in onore di Cibele (chiamata da essi madre degli dei). Ogni anno se ne portava la statua in processione sopra un ricco carro. Sinforiano, trovandosi un giorno a passare dove si faceva quella festa, parlò pubblicamente in disprezzo di quello idolo. Fu preso e presentato ad Eraclio, governatore della città, il quale allora faceva la ricerca dei cristiani per costringerli a rinnegare Gesù Cristo. Eraclio chiese al nostro santo perché avesse rifiutato di adorare la dea Cibele. Sinforiano rispose: “Io sono cristiano e come tale adoro il vero Dio, che regna in cielo e non i simulacri del demonio che, se me lo permettete, sono pronto a stritolare a colpi di martello”. Allora Eraclio domandò se quell’uomo era di quella città. I ministri risposero di sì e che era di una famiglia nobilissima. Dunque (riprese il giudice rivolto al santo) la tua nascita ti rendere disubbidiente e temerario? Ma non sai tu i decreti dell’imperatore? E perciò fece leggere l’editto di Marco Aurelio, dove si ordinava che chi rifiutava di sacrificare agli dei vi fosse costretto con i tormenti. Eraclio aggiunse: “Hai inteso che sei reo di due delitti, di sacrilegio verso gli dei e di disobbedienza verso la legge; dunque se non ubbidisci sarai punito con la morte”. Sinforiano rispose: “Quel Dio che adoro quanto è liberale nel premiare tanto è rigoroso nel punire. Io non potrò mai giungere alla beata eternità se non persevero in questa santa fede”. Data questa risposta, il giudice lo fece flagellare con verghe e poi lo mandò in prigione. Dopo alcuni giorni, Eraclio lo chiamò di nuovo e gli disse che se voleva adorare gli dei  romani  gli avrebbe procurato onori e posti vantaggiosi. Sinforiano lo interruppe e replicò: “Un giudice troppo avvilisce la sua dignità quando attenta all’innocenza. Io non temo nulla, perché presto o tardi si deve morire. Non riconosco altri beni se non quelli che mi promette Gesù Cristo, i quali sono beni immensi ed eterni. I tuoi beni al contrario sono come il gelo, che al primo raggio di sole si scioglie. Nessuno all’infuori del nostro Dio può darci una felicità duratura, mettendoci a parte della sua gloria, che come non ha avuto inizio così non avrà mai fine”. Eraclio con volto austero disse: “Orsù la mia pazienza è stanca o tu sacrifichi a Cibele o io ti condanno a morte, dopo che avrai sofferto molti tormenti”. Sinforiano rispose: “Io temo solo il mio Dio che è onnipotente. Il mio corpo è in tuo potere, ma nulla tu puoi sopra l’anima mia”. Quindi si mise a deridere le falsità dei pagani e le confutò con tanta forza che Eraclio subito pronunciò contro di lui la sentenza che gli fosse tagliata la testa, perché non guadagnasse seguaci. Mentre Sinforiano era condotto al martirio la sua buona madre gli fece coraggio dicendo: “Figlio, pensa a Dio, e non temere una morte che ti conduce ad una vita eterna. Alza gli occhi al cielo e mira il tuo Signore che ti aspetta nella sua gloria. Oggi non perdi la vita, ma la cambi in un’altra molto migliore”. E così Sinforiano felicemente compì il suo sacrificio.
San Taraco, Probo, Andronico
Nel martirio di questi tre santi martiri si deve ammirare sin dove giunga la crudeltà degli uomini e la pazienza dei santi confortati dalla divina grazia. In Tarso, metropoli della Cilicia, era preside Numeriano Massimo. A lui furono un giorno presentati i tre santi. Taraco, che era il più giovane, fu prima interrogato del suo nome e rispose: “Io sono cristiano”. Disse il presidente: “Io voglio sapere il tuo nome”. Taraco replicò: “Io sono cristiano”. Massimo adirato ordinò ai ministri che gli rompessero le mascelle col dirgli: “Impara a non rispondere una cosa per un’altra”. Rispose il santo: “Io ho detto il mio vero nome, del resto dagli altri io ero chiamato Taraco”. E poi soggiunse che egli era militare e cittadino romano, ma per essere cristiano aveva rinunciato alla milizia. Riprese a dire Massimo: “Pensa che sei vecchio, io voglio onorarti, se tu obbedisci ai principi e perciò sacrifica ai nostri dei”. Rispose il santo: “I principi sbagliano gravemente e sono accecati dal demonio. Io sacrifico al mio Dio il mio cuore e non il sangue degli animali, dei quali sacrifici Dio non ha bisogno. E mentre io onoro la legge di Dio non posso onorare la legge dei falsi dei”. Massimo disse: “E fuori di questa vi è altra legge?”. Taraco rispose: “Questa vostra legge è empia, mentre adorate per dei i sassi e i legni”. Il presidente allora lo fece spogliare e battere con le verghe e Taraco in quel supplizio diceva: “Queste piaghe mi confortano a riporre tutta la confidenza in Dio e nel suo Cristo”. Massimo allora riprese: “Dunque tu servi a due dei?  Come! Hai confessato dicendo che vi è Dio e Cristo e poi neghi la pluralità degli dei?”. Rispose Taraco: “Io confesso un solo Dio, poiché Cristo è figlio di Dio: il Padre e il Figlio non sono che un solo Dio”. Massimo, non volendolo più sentire, lo mandò in prigione e volle che gli fosse presentato Probo. Probo, interrogato del suo nome e della sua nascita, rispose che gli uomini lo chiamavano Probo, ma il nome a lui caro era quello di cristiano. Disse poi che suo padre era trace, ma esso era nato nella Panfilia e plebeo di condizione. Disse di più che il suo patrimonio non era piccolo, ma che egli vi aveva rinunciato per servire a Dio. Massimo gli ordinò che sacrificasse agli dei, perché  così sarebbe onorato dagli imperatori ed egli l’avrebbe ammesso alla sua amicizia. Rispose Probo: “Io non curo gli onori dei principi né la tua amicizia”. Allora ordinò il giudice che Probo fosse spogliato e battuto con nervi di bue e poi lo fece girare e battere crudelmente sul ventre. Avendo Probo chiamato Dio in suo aiuto, Massimo disse ai carnefici che lo interrogassero dove fosse l’aiuto del suo Dio che aveva chiamato. Rispose il santo: “Dio mi aiuta e mi aiuterà e per questo non temo i tuoi tormenti”. Riprese Massimo: “Misero,  guarda come la terra è tutta inzuppata del tuo sangue!”. E il santo: “Ma tu devi sapere che quanto il mio corpo soffre per Cristo tanto l’anima acquista di vita”. Il giudice mandò anche lui in carcere e si fece condurre Andronico. Massimo l’interrogò allo stesso modo del nome e della sua stirpe. Rispose similmente il santo che era cristiano e che gli altri lo chiamavano Andronico e poi che egli era di Efeso, di nobile stirpe. Massimo gli disse: “Onora i principi ed i padri: riconosci i nostri dei”. Rispose Andronico: “Hai detto bene i padri, perché voi avete per padre i diavoli”. Massimo disse: “Compatisco la tua gioventù, ma sappi che sono pronti per te grandi tormenti. Sacrifica ai nostri dei!”. Andronico rispose: “Ti sembro giovane d’anni, ma l’anima mia è giunta all’età virile. Io sono pronto a tutti i tuoi tormenti”. Massimo allora ordinò che fosse tormentato. Un certo notaio disse ad Andronico che ubbidisse al presidente e il santo: “Tieni per te il tuo consiglio, tu benché più vecchio di me, sei pazzo, consigliandomi di sacrificare ai demoni”. Mentre poi il santo era tormentato gli disse il tiranno: “Misero, non senti i tormenti? Perché non rinunci alle tue follie che non ti possono salvare dalle mie mani?”. E il santo rispose: “Beate follie per chi confida in Dio. La tua saviezza ti porterà una morte eterna”. Ordinò allora il giudice che egli fosse tormentato crudelmente nelle gambe e che gli si lacerassero i fianchi e che inoltre gli fossero stropicciate le piaghe con cocci di  terracotta. Il santo tutto soffrì con coraggio. Gli furono posti i ferri ai piedi e al collo e fu mandato con gli altri in prigione. Quindi essendo il presidente andato a Mopsuestia, qui si fece venire i tre santi e prima parlò a Taraco, ripetendogli che doveva sacrificare ai suoi dei. Avendo il santo negato con fortezza, il tiranno gli fece rompere la bocca con le pietre e cadere i denti. E il Santo dopo ciò disse: “Anche se tu mi fracassassi tutte le membra  io sarò sempre lo stesso. Sono pronto a soffrire quanto pensi, ben mi assisterà colui per il quale combatto”. Allora Massimo fece portare del fuoco e gli fece bruciare le mani. Taraco disse: “Questo fuoco non mi fa paura; mi fa paura il fuoco eterno se io ubbidissi a quello che mi chiedi”. Quindi Massimo lo fece legare per i piedi e sospendere in aria, sopra un grande fumo che si alzava di sotto”. Il santo soffriva tutto senza lamentarsi; per questo il tiranno gli fece mettere aceto, sale, e senape dentro il naso. Persistendo il santo in silenzio a soffrire, lo rimandò in prigione pensando di affliggerlo poi con nuovi tormenti. Fece poi condurre Probo e gli disse: “Gli imperatori sacrificano agli dei e tu non vuoi sacrificare?”. Probo rispose: “I tormenti che mi hai fatto soffrire mi hanno dato nuova forza e perciò non mi indurrete mai a sacrificare agli dei che non conosco. Io adoro un solo Dio e a lui solo io sacrifico. Come  puoi tu chiamare dei i legni e le pietre?”. Massimo lo interruppe e lo fece battere fortemente sulla bocca e poi gli fece bruciare le piante dei piedi con lastre di ferro infuocate. Disprezzando il santo tutte quelle pene, lo fece stendere sull’ eculeo e battere senza pietà con nervi di bue. Non potendo con tutto ciò vincere la sua pazienza gli fece radere la testa e mettervi sopra carboni ardenti. Vedendo poi che i tormenti non giovavano tentò di sedurlo con la promessa dei favori degli imperatori, come erano stati favoriti gli altri. Rispose: Purtroppo tutti questi si sono perduti con tali favori”. Massimo, che si offendeva di ogni buona risposta, lo fece battere di nuovo nella faccia e lo rimandò in carcere. Poi si fece venire Andronico a cui volle far credere che Taraco e Probo avevano sacrificato. Andronico rispose: “Non è vero, menti: essi non hanno fatto ciò, né io lo farò mai. Io non temo il tuo sdegno; metti in opera tutti i tormenti e vedrai quanto può contro di essi un vero servo di Dio”. Il tiranno a queste parole lo fece legare a quattro pali e battere con i nervi di bue. Il santo disse: “A questo dunque si riducono tutte le vostre minacce?”. Poiché un ufficiale, mosso a pietà, gli disse che il suo corpo era ormai tutto una piaga, esso gli rispose: “Chi ama Dio disprezza tutte queste pene”. Massimo ordinò che gli fosse cosparso di sale il lacero dorso. Il santo disse che facesse aggiungere più sale, cosicché il suo corpo fosse ben condito. Ma io, replicò Massimo, non mi lascerò vincere da te. Nè io, rispose Andronico, mi lascerò vincere dai tuoi tormenti. Mi troverai sempre forte in virtù di quel dio che mi dà forza. Massimo, stanco di udirlo ancora, lo fece ricondurre in prigione. Quindi passò alla città di Anazarbo e fattosi qui condurre i tre santi cominciò a dire a Taraco che adorasse gli dei. “O miseri dei, rispose Taraco, ai quali è preparato un eterno fuoco, come ad ognuno che ubbidisce a loro!”. Disse Massimo: “Io  già vedo che tu vorresti essere fatto subito da me decapitare per non patire più”. Ti inganni, replicò Taraco, anzi ti prego di dilungare il mio combattimento perché io mi guadagni una più grande mercede”. Disgraziato! riprese a dire Massimo, e qual mercede puoi tu sperare dopo la morte? E Taraco: “Tu non sai la mercede che ci prepara Dio nel cielo”. Finalmente dopo altri discorsi  il tiranno lo fece legare all’ eculeo, gli fece rompere la faccia e la bocca, trafiggere le mammelle con punte di ferro infuocate e gli fece tagliare le orecchie e radere tutta la pelle della testa, facendovi mettere carboni accesi. Il Santo in quel supplizio disse: “Fa’ quanto vuoi, io non volterò mai le spalle al mio Dio che mi fortifica”. Infine gli fece forare le ascelle con quelle stesse punte infuocate e poi lo rimandò in prigione per esporlo alle fiere. Venuto poi Probo e trovandolo Massimo forte come prima lo fece sospendere per i piedi e trafiggere i fianchi e il dorso con le stesse punte infuocate. Poi gli fece porre nella bocca  vino e carni offerte agli idoli e gli disse: “A cosa ti hanno giovato tutte le pene sofferte? Ecco alla fine hai partecipato dei nostri sacrifici”. Dunque, rispose Probo, ti pare di aver fatto una grande prodezza? Anche se tu avessi fatto mettere nella mia bocca tutte le sozzure dei tuoi altari non avresti mai contaminato l’anima mia, poiché Dio vede la violenza che mi hai usato. Massimo, per sfogare la sua rabbia, gli fece trafiggere con quelle punte infuocate le polpe delle gambe e le mani e poi anche gli occhi. Il santo in quei terribili supplizi non diede un lamento ma benediceva Dio; per cui disse al tiranno: “Finché avrò fiato benedirò sempre il mio Dio che mi dà forza e pazienza. Io altro non pretendo che finire la mia vita con la morte più crudele che tu possa inventare, per rendere al Signore la fedeltà che gli devo”. Venne poi Andronico, il quale perseverando a rigettare tutte le promesse e minacce, Massimo gli fece mettere sul ventre fasci di papiro accesi e con quelle stesse punte infuocate gli fece tormentare le dita. Il santo in quei tormenti  nominando Gesù trovava la forza per sopportare. Allora Massimo disse: ”Codesto Gesù in cui confidi fu un malfattore crocefisso sotto Ponzio Pilato”. Taci, rispose Andronico, non conviene a te parlare di lui, del quale non sei degno. Se tu lo conoscessi non bestemmieresti il suo nome né perseguiteresti i suoi servi, ma tu ed i tuoi compagni, tutti andrete in perdizione. Iddio vi punisca in modo che conosciate il male che fate”. A queste parole Massimo gli fece strappare tutti i denti ed anche tagliare la lingua e lo rimandò in prigione. Il giorno seguente fece preparare un combattimento di fiere alle quali fece esporre i santi martiri. Avendoli le fiere lasciati illesi, ordinò che si cacciasse la fiera più crudele. Fu scelta un’orsa ferocissima, ma quella postasi vicino ad Andronico si mise a leccargli le piaghe e Massimo la fece uccidere ai piedi di Andronico. Quindi fu cacciata una leonessa feroce e si pose ai piedi di Taraco come una pecora. Massimo la fece stizzire, ma quella diede segni di avventarsi contro il popolo per cui si fece rinchiudere nella sua cava. Finalmente Massimo, non sapendo più che fare, ordinò ai gladiatori che uccidessero i santi martiri e così i medesimi ottennero la palma del loro martirio.


Santa Teodora, San Didimo
Santa Teodora era di Alessandria, di una famiglia nobile e ricca ed i suoi genitori erano cristiani. Essa venne al mondo verso la fine del terzo secolo. Teodora era di una rara bellezza, ma già all’età di sedici anni o diciotto si trovava aver fatto voto di verginità, per non avere altro sposo che Gesù Cristo. Era l’esempio delle altre vergini cristiane con le sue ammirabili virtù. Essendo poi stati pubblicati gli editti di  Diocleziano in Egitto contro i cristiani, essa sin da quell’ora cominciò a desiderare con grande ardore di dare la vita per Gesù Cristo e si preparò al combattimento con le preghiere e con le ripetute offerte di se stessa a Dio. Cominciata la ricerca dei cristiani, Teodora fu accusata come una delle cristiane più fervorose. Fu posta in carcere e quindi presentata al giudice Procolo. Egli, mirandola, restò preso dalla sua bellezza e le domandò chi fosse e se fosse libera. Rispose la santa che era cristiana e che Gesù Cristo l’aveva liberata dalla schiavitù del demonio; ma che secondo il mondo era nata da genitori liberi. Avendo poi saputo il tiranno che essa era nobile, le chiese perché non avesse voluto maritarsi. Rispose Teodora che non aveva voluto marito per vivere solamente per Gesù Cristo, suo Salvatore. “Ma non sai tu, replicò il giudice, che è ordine degli imperatori che ognuno sacrifichi agli dei, altrimenti sarà condannato ai supplizi più infami?”. Procolo insistette per convincerla di sacrificare agli dei, altrimenti si dovevano mettere in atto gli editti imperiali. La santa gli diede la stessa risposta e soggiunse che essa si era consacrata a Gesù Cristo e che non l’avrebbe lasciato anche se l’avessero fatta a pezzi. “Io non sono più mia, disse, ma sua; egli mi difenderà”. Disse allora il giudice: “La tua ostinazione ti costerà cara. Che pazzia è voler confidare in un uomo che non ha potuto liberare se stesso dalla morte in croce e sperare che egli vi liberi?”. Sì, rispose la Santa, confido che Gesù Cristo, che ha sofferto la morte solo per dare a noi la vita, egli mi preserverà da ogni male. Io non temo né i tormenti né la morte, anzi desidero morire per amore del mio Dio che è morto per me.” Disse il giudice: “Tu sei nobile, non voler disonorare la tua famiglia con un’ infamia eterna”. Rispose Teodora: “La mia gloria è di confessare il nome del mio Signore Gesù Cristo, che mi ha dato l’onore e la nobiltà; egli sa custodire la sua colomba”. Orsù, riprese Procolo, tu parli troppo; sacrifica a questo punto ai nostri dei, non essere più stolta”. “Sarei stolta, rispose Teodora, se io sacrificassi ai demoni e agli dei di bronzo e di pietra”. Irritato il giudice per tal risposta, la fece schiaffeggiare e poi le disse: “Tu ci costringi a darti questo disprezzo, avendo disprezzato i nostri dei. “Io non mi lamento, disse la santa, anzi ho per onore di aver sofferto questo affronto per amore del mio Salvatore”. Orsù, riprese a dire il tiranno, ti do tre giorni di tempo per decidere, dopo i quali sarò costretto a punirti. Replicò la santa: “Fa’ conto che questi tre giorni siano passati, io dirò sempre la stessa cosa”. Passati i tre giorni e trovandola costante nella sua fede, Procolo disse che egli doveva obbedire all’imperatore e perciò la fece condurre al postribolo. Giunta la santa in quel luogo, di nuovo si raccomandò con fervore a Gesù Cristo. E cosa avvenne? San Didimo, vestitosi da soldato e posto fra la turba si fece introdurre per primo nella camera della vergine. La santa, vedendolo, cercò di ritirarsi negli angoli della stanza; ma san Didimo le disse: “Teodora, non temere di me, io non sono quello che tu credi; non sono venuto qui se non per salvarti l’onore e per metterti in libertà e liberarti da ogni oltraggio”. Cambiamo le vesti, tu prendi le mie ed io resterò qui con le tue. Se ne compiacque Teodora;  vestita da soldato uscì lieta da quel luogo infame; e tenendo il capo coperto e la faccia rivolta a terra passò in mezzo a quella turba, senza essere conosciuta. Dopo un po’, essendo entrato in quella stanza un altro giovane, restò sorpreso di trovarvi un uomo invece della vergine, per cui attonito disse fra sé: “
Forse Cristo cambia le donne in uomini? Ma san Didimo gli svelò il mistero e disse agli idolatri: “Non Cristo mi ha cambiato da donna in uomo, ma mi ha dato l’occasione di acquistarmi una corona. La vergine è lontana da qui, e io sono rimasto al posto suo, fate di me quello che vi piace.” Informato il prefetto di ciò e fattosi condurre avanti Didimo, gli chiese perché avesse fatto ciò. Rispose che così  era stato ispirato da Dio. Quindi gli comandò di sacrificare agli dei e di rivelare dove fosse Teodora. Rispose Didimo che in quanto a Teodora non sapeva dove fosse. In quanto al sacrificare, che lui, giudice, adempisse gli ordini degli imperatori, perché egli non avrebbe mai sacrificato ai demoni, anche se lo avesse fatto gettare nel fuoco. Il prefetto sdegnato ordinò che fosse decapitato e che il suo corpo poi fosse bruciato.
Andò infatti Didimo al luogo del supplizio, ma nello stesso tempo vi accorse anche Teodora e cominciarono tra loro a contendere a chi toccasse la morte. Diceva Didimo: “Toccherà a me, perché contro di me è stata promulgata la sentenza”. Ma rispondeva la Santa: “Io ho acconsentito che tu mi salvassi l’onore, ma non la vita. Io avevo in abominio l’infamia, ma non la morte. Se tu hai avuto la pretesa di privarmi del martirio, tu mi hai ingannata”. La conclusione fu che il giudice avendo saputo di quel contrasto, ordinò che ambedue fossero decapitati. E così ambedue ottennero la corona.

San Teodoro
San Teodoro, di professione soldato, (di cui San Gregorio di Nissa fece un nobile sermone in lode) era cristiano e di santi costumi. Egli si trovava con la sua legione in Amasea città del Ponto, allorché Galerio e  Massimiano, nell’anno 306 perseguitavano i cristiani. Il suo comandante, sapendo che Teodoro era cristiano, gli ordinò di sacrificare agli dei secondo gli editti imperiali. Il santo protestò che egli era fedele agli imperatori, ma che  voleva essere anche fedele al suo Dio e che perciò non avrebbe abbandonato la fede, anche se avesse dovuto perdere i beni, l’onore e la vita. Fu condotto al governatore della città, che usò tutti gli accorgimenti per convincerlo a rinunciare a Gesù Cristo. L’eroe cristiano disprezzò tutte le promesse e le minacce e disse: “Io sono disposto a conservare la mia  religione anche se dovessi essere sbranato e bruciato vivo. È giusto che il mio corpo sia sacrificato per colui che l’ha creato”. Dopo questa protesta il governatore lo mandò libero, dandogli tempo per decidere riguardo alla richiesta fatta a lui di obbedire ai principi. Teodoro si servì di questo tempo per ottenere da Dio il soccorso nel combattimento che gli sovrastava. Intanto egli continuò a confortare i cristiani perseguitati, perché stessero forti a non rinnegare Gesù Cristo. E ancor di più, spinto dal suo zelo, fece un’azione molto gloriosa. Animato da una straordinaria ispirazione di Dio ebbe il coraggio in una notte di mettere a fuoco  un famoso tempio, che stava nella città, dedicato alla dea Cibele, adorata dai pagani quale madre di tutti gli dei. Il tempio andò tutto in cenere in breve tempo per il vento che allora soffiava. Il santo poi, invece di nascondere il suo attentato, pieno di gioia andava ad annunciare a tutti che egli aveva bruciato quel esecrando tempio. Subito fu arrestato e al governatore che gli minacciava grandi tormenti se non rimediava subito al suo delitto con il sacrificare agli dei rispose che esso era molto contento di averlo fatto. Il governatore, vedendo che Teodoro si faceva beffe delle minacce, tentò di guadagnarlo con le promesse. Gli disse che lo avrebbe innalzato a pontefice dei suoi dei se avesse loro sacrificato. Il Santo rispose : “Io giudico infelici i sacerdoti dei vostri idoli e tanto più i pontefici, giacché chi tra i cattivi tiene il primo posto è peggiore degli altri. Chi vive piamente gode di essere abietto nella casa di Dio”. Il tiranno sdegnato da queste parole lo fece mettere sull’ eculeo in cui gli furono con i ferri stracciate le coste così crudelmente che gli restarono scoperte le ossa. Il santo in mezzo a quella carneficina allegramente cantava quel verso del salmo: “Benedirò il Signore in ogni tempo, sempre la sua lode sulla mia bocca”. Il governatore, attonito a tanta pazienza, gli disse: “Miserabile non ti vergogni di mettere la tua fede in quel tuo Cristo che fu fatto morire con tanta ignominia?”. Ma Teodoro diede una santa risposta: “Questa è una ignominia della quale si vantano tutti quelli che invocano il nome di Gesù Cristo”. Il governatore lo rimandò in prigione sperando col tempo di vincerlo. Il santo nella notte seguente in quel carcere fu visitato dagli angeli, che insieme con lui cantavano le lodi divine e riempirono quel luogo oscuro di una splendida luce, che fece stupire il custode. In seguito, dopo alcuni giorni, il governatore trovando Teodoro con la stessa costanza lo condannò a morire bruciato vivo. Il santo abbracciò quella morte con gioia e giunto alla vista del rogo si fece il segno della croce e nel fuoco consumò intrepidamente il suo sacrificio, sempre benedicendo Dio sino all’ultimo fiato.

San Teodoro Tavernaio
In questo santo si avvera che non vi è stato alcuno di vita tale in cui l’uomo non possa farsi santo. Teodoto fu di Ancira, capitale della Galazia. Era ammogliato ed esercitava il basso mestiere di tavernaio: quantunque poi la vita che conduceva in quella città fosse una vita comune agli occhi degli uomini, non di meno essa era santa al cospetto di Dio; poiché egli, ammaestrato nel timore di Dio da una santa vergine di nome Tecusa, sin da giovane praticò la temperanza, la castità, ed anche la mortificazione della carne con  digiuni e con opere di afflizione. Amando di essere povero dispensava ai poveri quanto poteva. La sua taverna era l’albergo dei bisognosi, l’ospedale degli infermi e la scuola della pietà e della religione. Egli liberò molti dal fango dell’impudicizia e da altri vizi e portò alla fede anche molti Gentili e Giudei, così che non pochi, usciti da questa scuola, giunsero alla gloria del martirio. Ed egli giunse a far miracoli anche in vita, specialmente con il guarire gli infermi, imponendo su di loro le mani ed invocando il nome di Gesù. Ardeva a suo tempo la persecuzione di Diocleziano ed era ministro di quella provincia il governatore Teotecno,  uomo crudele, il quale comandò che in tutti i luoghi si demolissero le chiese e si uccidessero tutti quelli che volevano seguire Gesù Cristo. Per questo i Gentili, spinti dalla crudeltà del governatore, entravano nelle case dei cristiani e ne portavano via quanto volevano; e chi si lamentava era trattato da ribelle. Ogni giorno si vedevano mettere in prigione i fedeli, ed  anche le donne nobili erano trascinate per le strade. Per questo molti si nascosero nelle caverne e nei boschi, riducendosi a vivere di erbe come bestie. Teodoto restò in Ancira, dove non faceva altro che assistere i cristiani carcerati ed aiutare i bisognosi ed anche  seppellire i corpi dei martiri. Ancor più, poiché il governatore aveva proibito di vendere il pane e il vino a chi non fosse idolatra, Teodoto  provvedeva ai poveri e somministrava ai sacerdoti il pane e il vino che serviva per le messe; cosicché la sua taverna era diventata per i cristiani il loro tempio e il loro rifugio grazie alla carità di Teodoto. In questo tempo sapendo egli che un certo Vittore, suo amico, era stato incarcerato a motivo della fede, andò a trovarlo di notte e lo animò dicendo: “Un cristiano non deve avere altra preoccupazione se non quella di mantenersi fermo nella sua fede”. Sapendo che gli erano state promesse cose grandi se sacrificava agli dei, gli disse: “Credimi, Vittore mio, che le promesse degli empi non  mirano che  alla nostra perdizione; e ci addormentano per non farci vedere la morte eterna a cui ci conducono”. Vittore, animato da queste parole, andò con coraggio al luogo dei tormenti. Ma dopo averli sopportati per un po’, chiese tempo per decidere; per questo fu ricondotto in prigione dove a breve morì per i tormenti già patiti, lasciando così un grande dubbio riguardo alla sua eterna salvezza, con grande dolore di Teodoto. Dopo ciò Teodoto si incontrò con un sacerdote di nome Frontone, in un certo luogo di campagna chiamato Malo, e gli disse che quel luogo gli sembrava molto a proposito per collocarvi le reliquie dei martiri. Rispose il prete che prima di iniziarvi la costruzione bisognava procurare le reliquie. Allora disse Teodoto: questo sarà cura di Dio. Pensa tu a fabbricarti la chiesa, perché le reliquie verranno presto ed in pegno di questa promessa che io ti faccio conserva questo anello. E gli consegnò l’anello che teneva al dito e licenziandosi ritornò ad Ancira. Quindi dissotterrò da uno stagno i corpi di sette vergini che per la fede erano state qui gettate, in un modo prodigioso, poiché si alzò un vento così forte che spinse le acque alle sponde dello stagno e comparvero nel fondo i corpi delle sante. Perciò si potè così cavarle di là e trasportarle in un vicino oratorio. Della qual cosa essendo stato poi accusato Teodoto, questi andò da se stesso a presentarsi ai magistrati. Entrato che fu nella sala dell’udienza, il governatore Teotecno gli disse che se avesse sacrificato agli dei l’avrebbe fatto primo sacerdote di Apollo; e di più gli promise altri onori e ricchezze. Teodoto, disprezzando tutto, si mise a dimostrare al governatore le grandezze di Gesù Cristo e le enormità dei vizi, che gli stessi pagani attribuivano ai loro falsi dei. Ma Teotecno, irritato da tale discorso, comandò che il santo fosse steso sull’eculeo, dove i carnefici l’uno dopo l’altro per lungo tempo gli lacerarono le carni con unghie di ferro. Di più il tiranno su quelle piaghe fece versare aceto e vi fece applicare delle fiaccole ardenti. Il Santo, sentendo il puzzo della sua carne bruciata, volse un po’ la faccia indietro. Il governatore, credendo da ciò che egli cominciasse a cedere per il dolore dei tormenti, gli si accostò e gli disse: “Teodoto, dov’ è quella la bravura che mostravi poco fa? Tu non saresti ridotto in questo stato se avessi rispettato l’imperatore. Tu che sei Tavernaio, di un mestiere così vile, per l’avvenire non te la prendere più con gli imperatori che hanno potere sulla tua vita”. Rispose Teodoto: “Se tu mi avessi arrestato per qualche delitto allora avrei timore; ma ora nulla temo e sono pronto a patire tutto per amore di Gesù Cristo. Inventa nuovi tormenti, il mio Signore Gesù Cristo mi dà la forza per non tenerne conto”. Il governatore a tali parole gli fece rompere con le pietre le mascelle, al punto che il santo buttò dalla bocca i denti rotti e poi disse: “Quand’anche tu mi tagliassi la lingua, Dio esaudisce i cristiani senza che parlino”. Il governatore lo fece ritornare in prigione, ed egli passando mostrava a tutti le sue piaghe, per far comprendere a tutti la forza che Gesù Cristo comunica ai suoi servi e diceva: “E’ giusto offrirgli queste pene giacché egli le patì prima per noi”. Cinque giorni dopo, stando  il governatore seduto nel soglio in una piazza, si fece condurre Teodoto e gli fece riaprire le piaghe e lacerare di nuovo i fianchi con i ferri e poi lo fece distendere sopra alcuni cocci roventi di creta rotta. Allora il Santo, sentendosi penetrare sino nelle viscere da una acuto dolore, ricorse a Gesù Cristo e lo pregò che glielo mitigasse un poco; e da lui confortato continuò a soffrire con forza quell’aspro tormento”. Il tiranno lo fece mettere di nuovo per la terza volta sull’eculeo facendolo straziare e lacerare come prima; ma finalmente disperando di poterlo vincere lo condannò a perdere la testa e ad essere bruciato il corpo dopo la morte. Giunto il santo al luogo del supplizio, ringraziò il Signore di avergli data la grazia di superare i tormenti e lo pregò di rendere la pace alla chiesa. Poi, rivolto ai cristiani che gli stavano intorno e si struggevano in lacrime, li consolò e volle che anche loro ringraziassero Dio per la sua vittoria; ed avendo promesso loro l’assistenza in cielo delle sue preghiere, porse il collo al carnefice ed ottenne la corona. Il suo corpo fu posto sulla pira per essere bruciato, ma apparve risplendente di una luce così grande che nessuno osò toccarlo e fu lasciato là guardato dai soldati. Ora in quello stesso giorno venne in Ancira il prete Frontone, che teneva l’anello lasciatogli da Teodoto, in pegno della promessa fattagli che Dio lo avrebbe provveduto delle reliquie, per collocarle nel luogo di Malo di cui abbiamo parlato. Questo prete conduceva  un’ asina carica di buon vino e l’asina cadde vicino al luogo dove stava il corpo del martire. E così, essendo già notte, i soldati che lo guardavano sotto una capanna qui fatta, invitarono il prete a cenare con loro. Frontone accettò l’invito e per gratitudine li mise a parte del suo vino, dal quale ben riscaldati i soldati si posero a dormire. Allora il prete, ammirando la provvidenza divina, prese il corpo di Teodoto e rimessogli al dito il suo anello lo caricò sull’asina, la quale da sola andò al detto luogo di Malo e si fermò in un posto dove poi fu costruita una chiesa  con il nome di San Teodoto. Il suo martirio avvenne all’inizio della persecuzione di Diocleziano nell’anno 303. La storia poi di questo santo fu scritta da un certo Nilo, il quale fu grande amico di Teodoto e fu testimone oculare delle cose narrate.

San Timoteo e Santa Maura sua moglie
Morto l’imperatore Diocleziano, Galerio e Massimiano, suoi successori nell’impero, continuarono la persecuzione contro i cristiani. Nel novero dei martiri che mandarono al cielo furono Timoteo e Maura. Timoteo era del villaggio di Perapo nella Tebaide ed era cristiano tanto esemplare che il vescovo lo ordinò lettore. Egli sposò una donna cristiana di nome Maura, che era in età di anni diciassette. Non erano passate più di tre settimane dopo le loro nozze che Arriano, governatore della provincia, mandò a prendere Timoteo, che gli era stato denunciato come il più grande nemico degli dei. Arriano fattolo condurre innanzi a sé gli disse: “Sai tu gli ordini dell’imperatore romano contro coloro che non sacrificano agli idoli?”. Rispose Timoteo: “Sì, li so, ma io sono pronto a dare la vita piuttosto che commettere una tale empietà”. Ebbene, replicò il governatore, sarai posto ai tormenti e vedremo come parlerai tra quelli. Ed avendo saputo che egli era stato lettore gli ordinò che gli desse tutti i libri sacri che teneva. Il santo risolutamente glieli negò. Il giudice infuriato gli fece mettere nelle orecchie ferri arroventatii che gli fecero uscire gli occhi dalla testa per la violenza del dolore. Timoteo, dopo un sì crudele tormento, si mise a lodare Dio. Più adirato il tiranno lo fece appendere per i piedi ad un patibolo con una grossa pietra legata al collo con un morso nella bocca perché non potesse più parlare. Arriano, vedendo che non giovavano i tormenti con Timoteo, si fece condurre Maura e le disse che essa solo poteva liberare dalla morte suo marito, inducendolo con le lacrime a sacrificare agli dei. Andò Maura, trovò suo marito in quello stato così compassionevole e disse quanto potè per intenerirlo e per indurlo ad abbandonare la fede. Timoteo a cui fu allora tolto il morso perché potesse rispondere, disse: “Come,  Maura!Tu sei cristiana ed invece di incoraggiarmi a patire per la fede mi esorti a lasciarla, cosicché per una breve vita che mi resta mi condanni alle pene dell’inferno? È questo l’amore che mi porti?”. Maura a questo rimprovero si ravvide e postasi in ginocchio, rivolta a Gesù Cristo, con lacrime più giuste e sante lo pregò di perdonarla. Quindi si rivolse a cercare perdono allo stesso Timoteo e tutta mutata lo esortò a star forte nella sua fede, desiderando di avere anche essa la sorte di poter correggere il suo errore con la morte e di essergli compagna nelle suo martirio. Timoteo, tutto consolato per il ravvedimento di sua moglie, le disse che quel suo parlare gli faceva dimenticare tutte le pene sofferte. La esortò ad andare dal governatore a ritrattare e a dire che anche essa era pronta a morire per Gesù Cristo. Maura in un primo tempo ebbe timore di fare questa parte dubitando della sua debolezza. Timoteo allora pregò il Signore di confortare sua moglie. La preghiera fu esaudita e Maura con fortezza seguì il consiglio del suo santo marito. Il giudice, sorpreso da tale cambiamento, volle distoglierla dal suo proposito e le disse che, morto Timoteo, le avrebbe trovato un altro ottimo sposo. Maura rispose che, morto il marito, non voleva altro sposo che Gesù Cristo. Allora Arriano le fece strappare con violenza tutti i capelli e superando essa con giubilo quel tormento il tiranno le fece poi tagliare le dita e quindi la fece gettare dentro una caldaia d’acqua bollente, ma la santa ne restò illesa con un miracolo dal quale Arriano fu commosso. Questo molto servì alla sua conversione che seguì dopo pochi giorni. Tuttavia, per non sembrare egli infedele allo imperatore, fece applicare sulle carni della santa fuoco di zolfo e pece. Alla fine, vedendola intrepida a soffrire, la condannò a morire crocifissa insieme con suo marito. Mentre essa andava al luogo del supplizio la madre piangendo la abbracciò. La santa si liberò dalle braccia della madre e corse alla croce che le era stata preparata. Furono lasciati il marito e la moglie appesi l’uno dirimpetto all’altra senza strozzarli, affinché la loro morte riuscisse più lunga e più penosa. I due santi rimasero in vita in quello stato per più giorni, in cui non fecero altro che benedire Dio e incoraggiarsi l’un l’altra con la speranza di andare presto ad unirsi insieme con Gesù Cristo in cielo. Questi  due gloriosi martiri conseguirono la corona il 19 dicembre all’inizio del quarto secolo. La loro festa anche oggi è celebre presso i greci ed anche presso i moscoviti. In Costantinopoli vi era un tempo una chiesa dedicata ai loro nomi.
San Trifone e Respicio
Questi due santi martiri Trifone e Respicio furono nativi della Bitinia. Erano essi giovani; ma poiché sin dalla infanzia erano stati educati nella fede cristiana conducevano una vita virtuosa ed esemplare. Aquilino, che era il governatore della provincia, avendo saputo che essi erano cristiani li fece arrestare. Questi, vedendosi presi dai soldati, ringraziarono Dio, che li faceva degni di patire per amore suo. Per questo gli si offrirono in sacrificio, pregandolo nello stesso tempo che desse loro la forza per perseverare nella fede sino alla morte. Furono poi condotti a Nicea e qui posti in prigione. Aquilino, avendoli fatti venire alla sua presenza, li interrogò riguardo al loro stato e alla loro fortuna. Risposero: “I cristiani non sanno che cosa sia la fortuna, mentre credono che Dio sia quello che regola tutte le cose conforme alla sua volontà e  alla sua infinita sapienza”. I ministri che assistevano il governatore dissero loro: “Tutti quelli che sono della vostra religione devono essere bruciati vivi se non sacrificano ai nostri dei, perché tale è l’ordine degli imperatori”. Allora risposero i santi prigionieri: “Noi non abbiamo timore di patire per la nostra religione; anzi lo desideriamo”. Il governatore riprese a dire loro: “Ma voi già siete in età per sapere ciò che vi conviene fare”. Sì, rispose Trifone, ben lo sappiamo, e per questo scegliamo Gesù Cristo; e tutto quel che desideriamo è poter giungere alla perfezione di questa sapienza. Sappiamo anche che non vi è strada più sicura per giungervi di quella che ora cominciamo a percorrere. Intendeva parlare della via dei patimenti. Il giudice, vedendo che stavano forti nella fede, li pose ambedue alla tortura. Essi, all’udire il comando, da se stessi si tolsero le vesti e qui furono torturati per tre giorni interi, senza lamento o segno di debolezza. Non aprirono in tutto quel tempo la loro bocca se non per invocare in aiuto il nome di Gesù Cristo e per far comprendere ad Aquilino la dannazione eterna a cui egli si esponeva, continuando ad adorare gli idoli. Ma Aquilino disprezzò tutte le loro parole e partendo di là per andare a caccia lasciò l’ordine che i santi martiri fossero esposti ad una freddissima brinata, che c’era  in quel tempo, sino al suo ritorno. E così fu fatto. Per il freddo le loro gambe creparono in più parti. Tornato che fu il tiranno dalla sua caccia, si fece presentare di nuovo i santi martiri e disse loro: “Insomma non volete diventare una volta più savi?”. Questo appunto, rispose Trifone, è quello che cerchiamo di conseguire per mezzo del culto che rendiamo al nostro Dio. Il governatore li rimandò in prigione e dopo diversi viaggi ritornò a Nicea. Fece venire di nuovo i santi e parlò ad essi piacevolmente, promettendo loro onori e ricchezze se ubbidivano agli imperatori. Ma vedendo che stavano fermi replicò loro: “Abbiate pietà della vostra giovinezza; non perdete i favori che potete godere da noi”. Rispose Trifone: “Non possiamo noi seguir meglio i vostri consigli che perseverando nel confessare Cristo Gesù”. Allora, finalmente, adirato Aquilino prima li fece trascinare per le vie della città, poi li fece crudelmente flagellare sino a che i carnefici si stancarono. Ancor più volle che fossero scorticati i loro fianchi e le coste con unghie di ferro. Poi fece bruciare le loro piaghe con fiaccole ardenti. Ma in mezzo a tanti strazi i santi martiri dicevano: “O Gesù nostro Signore, per cui combattiamo e soffriamo, non permettere che il demonio ci vinca; esaudisci le nostre preghiere, fa’ che giungiamo al termine del nostro cammino. E così i santi continuavano a parlare con Gesù Cristo, senza più rispondere ad Aquilino, il quale, mentre essi erano tormentati, non la smetteva di importunarli perché offrissero agli dei. Il tiranno, vedendo che perdeva tempo, li condannò finalmente a perdere la testa e così fu eseguito circa l’anno 251.

San Vincenzo diacono
San Vincenzo fu uno dei più famosi martiri delle Spagne. Nacque egli in Saragozza da una delle migliori famiglie di quella città. Sin dalla sua gioventù fu posto sotto la direzione di Valerio, vescovo di quella chiesa, che lo istruì lungamente nei dogmi della religione ed  anche nelle lettere umane. Per questo, essendosi fatto Vincenzo molto dotto, Valerio lo ordinò diacono; e poiché questo prelato era alquanto impedito di lingua, gli diede l’incarico della predicazione e il nostro santo ben adempì il suo ufficio, convertendo gran numero di peccatori ed anche di Gentili. In quell’anno cioè nell’anno 303, le Spagne erano sotto l’impero di Massimiano. Daciano era governatore della provincia di Tarragona, nella quale stava Saragozza. Daciano fu un uomo crudelissimo e grande nemico dei cristiani. Sentendo i grandi progressi di Vincenzo in favore della religione cristiana, lo fece venire insieme con Valerio, suo vescovo, in Valenza dove egli riceveva. Prima li fece molto patire in prigione per renderli con i maltrattamenti più inclini al rinnegamento. Ma presto si avvide che un tale mezzo poco aveva giovato al suo intento. Perciò, avendoli fatti presentare a sé, prima parlò loro con dolcezza. Rivolto a Valerio gli disse che la sua età cadente richiedeva riposo e che questo l’avrebbe ben trovato con l’ubbidire agli ordini dell’imperatore: diversamente avrebbe provato l’effetto del loro giusto sdegno. Quindi volgendosi a Vincenzo  disse: “Tu sei giovane, aspettati i favori della fortuna che ti si presenta: basterà per meritarli che tu abbandoni la tua religione. Figliolo mio, ubbidisci agli imperatori e non ti esporre con il rifiuto ad una morte ignominiosa. Allora Vincenzo si rivolse a Valerio, che nulla aveva risposto alle parole del proconsole e gli disse: “Padre, se ti piace, risponderò io per te”. Il santo vescovo, che era già disposto a soffrire tutto per Gesù Cristo, gli rispose: “Sì, figlio, come ti ho incaricato di predicare per me la divina parola, così ora ti incarico di confessare la nostra fede”. Vincenzo dichiarò a Daciano che essi non adoravano che un solo Dio e non potevano adorare i demoni, che erano gli dei dell’impero. E poi aggiunse: “Per il resto non credere di scuoterci con le minacce della morte né con le promesse degli onori perché nulla vi è nel mondo che si possa paragonare con l’onore e con la gioia che noi troviamo nel morire per Gesù Cristo”. Daciano, adirato da questa libertà del santo diacono, disse con furore: “O voi offrirete incenso agli dei o pagherete il disprezzo che  ne fate con la morte”. E san Vincenzo, alzando la voce, disse: “Io già ti ho detto che questo è il maggiore piacere ed onore che puoi farci, di farci morire per Gesù Cristo. E stai sicuro che ti stancherai prima tu di tormentarci che noi di soffrire i tormenti”. Daciano allora mandò Valerio in esilio e si mise a sfogare tutto il suo sdegno contro Vincenzo. Prima  lo fece legare sopra un cavalletto, dove gli furono talmente stirati i piedi e le mani con quella orrenda macchina che subito si udì anche dagli altri il rumore dello sforamento delle ossa, in modo che le membra del Santo non rimasero unite insieme se non per mezzo dei nervi. Ma vedendo il tiranno la serenità del santo in quel tormento e udendo che diceva: “Ecco ciò che ho sempre desiderato che mi accadesse; ecco la fine dei miei sospiri”; se la prese con i carnefici, facendoli battere con le verghe, pensando che per loro mancanza il santo non sentisse i tormenti. Poi ordinò che gli fossero lacerati il dorso ed i fianchi con le unghie di ferro sino all’apparire le coste scoperte. Quindi sapendo quanto cresce il dolore delle piaghe quando esse sono riaperte dopo essersi raffreddate, ordinò che di nuovo gli fossero stracciati i fianchi con le unghie. E ciò fu eseguito sino a scoprire le viscere del santo, scorrendo il sangue a ruscelli. Ma intanto san Vincenzo inveiva contro il proconsole dicendogli: “Dal momento che ai tuoi ministri sono mancate le forze, perché non vieni tu che sei il principale carnefice in loro aiuto? Mettici anche tu le mani e sazia la tua sete nel mio sangue. Ti inganni se credi di vincermi con i tormenti: dentro di me vi è un altro uomo rinfrancato da Dio che tu non puoi vincere”. Almeno, gli disse il tiranno, vedendo la sua costanza, almeno consegnami i sacri libri che conservi per poterli gettare nel fuoco. Rispose San Vincenzo che il fuoco era riservato non per bruciare i sacri libri ma per castigare in eterno gli scellerati e non ripugnava di avvisarlo che se egli non avesse abbandonato il culto degli idoli un giorno sarebbe stato condannato in eterno a questo fuoco. Il proconsole, credendosi vilipeso da quella risposta, pieno di stizza lo condannò ad essere bruciato sopra una graticola di ferro, tutta armata di punte acute. San Vincenzo, sentito l’ordine barbaro dato, prevenne i carnefici da se stesso. Andò e salì sopra quella graticola dove ardeva già di sotto il fuoco e vi fu legato con catene alle mani e ai piedi. Ora, mentre i carboni l’arrostivano, gli erano applicate dai carnefici lame arroventate sopra le carni lacerate del petto e del ventre. Ancor più sulle piaghe erano gettati pezzi di sale che, cadendo poi sul fuoco, si lanciavano con violenza verso quelle carni abbrustolite e lacere. Frattanto Vincenzo tra quei tormenti se ne stava con il volto ridente e con gli occhi al cielo benedicendo il Signore che accettava il suo sacrificio. Tutti ammiravano la forza prodigiosa che Dio comunicava al santo giovane. Gli stessi pagani gridavano: “Miracolo, miracolo!”. Daciano fu costretto a far togliere dalla vista del pubblico quello spettacolo di sopportazione ed ordinò che Vincenzo fosse condotto in carcere, dove, non contento di tanti strazi che gli aveva dato, volle che gli fossero serrati i piedi nel crudele strumento chiamato nervo, in cui talvolta i santi confessori  lasciavano la vita. Di più che fosse coricato supino sopra molti cocci di vasi rotti, che, riaprendogli le piaghe con le loro punte aguzze gli recavano un acutissimo dolore. Di più ordinò per stancare la pazienza del santo che nessuno si accostasse a dirgli qualche parola di conforto. Ma Dio rese vani i suoi disegni, poiché venne egli stesso a consolarlo con l’invitarlo al Paradiso. Nel profondo della notte vide il santo un grande splendore e vide anche separarsi i due legni del nervo che gli tenevano serrati i piedi e nello stesso tempo si sentì ricreare da un odore celeste. E quindi vennero molti angeli a visitarlo da parte di Gesù Cristo e   annunziandogli la fine delle sue pene lo invitarono alla gloria celeste. I custodi, svegliati dai raggi di quella luce, che usciva dalle fessure della porta, si accostarono a quella.  Avendo inteso gli angeli che lodavano Dio insieme con il martire, tutti abbracciarono la fede cristiana. Daciano, informato di tutto ciò, ordinò che Vincenzo, tolto dalla prigione, fosse posto a giacere in un morbido letto e che gli fossero curate le piaghe, affinché una volta ristorato avesse potuto di nuovo sottoporlo ai tormenti. I fedeli, avvisati di ciò, corsero a visitare il santo e a sollevarlo: chi gli baciava le piaghe, chi le asciugava con pannolini per conservarle poi come gioielli nella sua casa. Ma venuto finalmente il tempo del trionfo per Vincenzo, egli spirò su quel letto tra gli abbracci dei suoi fratelli e sotto lo sguardo degli angeli, che lo assistettero e poi lo accompagnarono al regno beato. Il tiranno, avendo saputo della sua morte, comandò che il corpo del santo fosse lasciato esposto per nutrimento delle fiere; ma il Signore destinò un corvo, che con le unghie e con il becco lo difese da quelle e specialmente da un lupo, che era venuto a divorarlo. Daciano, non sapendo più cosa fare contro il santo, ordinò che il suo corpo fosse gettato in alto mare chiuso in un sacco. Fu eseguito il comando; ma il sacco, benché vi fosse appeso un gran sasso, restò sopra l’acqua, galleggiando come una piuma, e spinto dai venti si diresse verso Valenza. Benché i marinai si affaticassero per raggiungerlo,  il corpo del santo prima del loro arrivo fu depositato dalle onde sulla spiaggia, dove subito fu coperto dalla sabbia. Comparve poi il santo ad una santa donna chiamata Jonica  e le insegnò il luogo dove stava il suo corpo. Questa subito vi andò con altri cristiani e trovate quelle sante reliquie le depositò in una piccola chiesetta, dalla quale furono poi trasportate in un magnifico tempio presso Valenza, dove sono state sempre venerate con grande devozione.

 

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