7 MAMMANTE, NICANDRO, MARCIANO, PANTALEONE, PIETRO, ANDREA, POTINO, BLANDINA, PULLIONE, QUIRINO, ROMANO, SEBASTIANO

  • Stampa

San Mammante nacque in Paflagonia, paese dell’Asia minore, ora detto Bolli, situato tra il Ponto Eusino e la Galazia. Egli era figlio di Teodoto e di Ruffina, ambedue nobili e buoni cristiani. Poiché nella loro provincia i cristiani  erano molto perseguitati, Teodoto fu fatto prigioniero da Alessandro, giudice della città, il quale trovando Teodoto costante nella fede e non avendo egli la facoltà di farlo morire, lo mandò a Fausto, governatore di Cesarea, in Cappadocia. Ruffina, benché gravida, volle accompagnare  suo marito. Fausto era uomo crudele; presentato che gli fu Teodoto gli disse che se si rifiutava di ubbidire all’imperatore si preparasse a morire fra i tormenti. Teodoto rispose che il suo desiderio era di morire per Gesù Cristo. Essendo egli caduto infermo per la fatica del viaggio fatto a piedi e per mancanza di cibo, fu mandato in prigione e qui santamente finì i suoi giorni. Ruffina, sua moglie, gli fu compagna nella morte, poiché avendo partorito prima del tempo un bambino, il giorno seguente terminò anch’essa la vita. Una ricca e nobile vedova cristiana, Annia, stando in preghiera vide un angelo che le ordinò da parte di Dio di prendere la cura di quel bambino che ancora stava nella prigione. La buona matrona, che non aveva figli, pregò il governatore di concederle la grazia di nutrire nella sua casa quel fanciullo. L’ottenne ed avendolo fatto battezzare gli diede il nome di Mammante. Il figliolo riuscì poi molto dotto nelle scienze umane, ma più dotto nella scienza e nello zelo della religione cristiana. Essendo non più che di dodici anni, tutta la sua applicazione era di attirare tutti ad abbracciare la fede di Gesù Cristo. Morì Annia, lasciandolo erede di tutte le sue ricchezze ed egli subito le distribuì ai poveri. Morì anche Fausto e gli successe nel governo Democrito, gran nemico dei cristiani. Giunto in Cesarea, informatosi dello zelo del giovane san Mammante, che con tutte le sue forze si impegnava per aumentare la fede di Gesù Cristo, lo fece chiamare a sé e così gli parlò: “Come è possibile, che tu, essendo tanto savio, voglia seguire la setta cristiana proscritta in tutto l’impero? Vieni con me al tempio a sacrificare a Giove, mentre io poi avrò cura della tua fortuna presso l’imperatore”. Rispose il santo giovane: “Ti sono obbligato del buon concetto che hai di me, ma non sarei più degno di essere chiamato savio se, sapendo che c’è un solo Dio, sacrificassi alle creature. Se gli onori che si devono all’imperatore, io li rendessi ad un suo vassallo, non mi farei reo di lesa maestà? Come ora posso sacrificare agli dei che non sono che demoni?”.
Democrito, sdegnato, ordinò che Mammante fosse posto ai tormenti, ma il santo disse che egli essendo stato adottato dalla dama Annia non poteva essere da lui condannato ai tormenti. Il giudice mise al corrente di tutto questo l’imperatore Aureliano e quegli ordinò che il giovane fosse condotto dove egli stava. Quando lo vide, gli disse: “Io voglio, figlio mio, che tu dimori con me a corte, ma bisogna che tu lasci la religione cristiana. Scegli dunque di fare o una vita felice alla mia corte o una morte infame sopra un palco”. Rispose San Mammante: “Principe l’elezione è fatta. Tu mi proponi  o una morte che mi deve rendere per sempre felice o una vita breve che mi deve rendere per sempre infelice”. Replicò l’imperatore: “E da chi ti aspetti  questa felicità eterna se non dai nostri dei?”. No, signore, rispose, i vostri dei,  i  quali  non sono che  statue sorde e cieche, non possono farmi alcun bene. Io non adoro che l’unico e vero Dio e per lui sono pronto a dare volentieri la vita e questa io stimo essere la mia fortuna”. Aureliano, irritato da tale discorso, comandò che a Mammante fosse lacerato il corpo con le verghe. Il santo soffriva tutto senza lamentarsi e il principe, che mostrava qualche affetto nel vederlo tanto patire, gli disse quasi pregando: “Mammante, almeno di solo con la bocca che sacrificherai”. E il santo rispose: “A Dio non piaccia che io abbandoni il mio Signore né col cuore né con la bocca. Tormentatemi quanto volete; più si stancheranno i carnefici di straziarmi che io di soffrire”. Allora Aureliano si infuriò e comandò che gli fossero bruciate le carni con torce accese. Dio dispose che le fiamme non bruciassero il santo ma coloro che tenevano le torce. Il principe, vedendo ciò, ordinò che fosse gettato in mare. Camminando Mammante verso il mare, apparve un angelo in forma di giovane, che fece prendere la fuga a coloro che lo conducevano e disse al santo che si ritirasse sopra un monte vicino a Cesarea, dove il santo si trattenne solitario per quaranta giorni. Venne poi un nuovo governatore, il quale, informato che sopra quel monte  abitava un cristiano che l’imperatore aveva già condannato a morte, mandò a prenderlo da molti soldati a cavallo. Andarono qui i soldati e trovandolo gli chiesero, poiché non lo conoscevano, dove fosse Mammante. Il santo rispose che egli l’avrebbe loro indicato e li fece entrare nella capanna ove divorava su quel monte. Allora venne un gruppo di fiere e il santo disse ai soldati: “Non temete queste sono quelle che mi nutrono con il loro latte e poi si manifestò loro dicendo: “Io  sono Mammante che voi cercate, fate ritorno perché  vi seguo”. I soldati ancora spaventati dalla vista delle fiere, tornarono a Cesarea e misero al corrente di tutto il governatore. Presto poi  si presentò il santo martire e il governatore gli disse: “Sei tu l’incantatore, che facendo prestigi come fanno i cristiani, sai addomesticare le fiere?”. Rispose il santo: “Io sono servo  di Gesù Cristo, il quale conserva i suoi servi e condanna al fuoco eterno coloro che confidano negli idoli. Del resto sappi che gli incantesimi di cui mi accusi sono ignoti ai cristiani. Mi hai fatto chiamare? Eccomi pronto ai tuoi ordini!”. Riprende il tiranno: “Tu sei un temerario quando ti opponi ai comandi dell’imperatore ma i tormenti ti correggeranno”. E allora ordinò che il santo fosse flagellato stando sospeso al cavalletto. Avendo il santo sofferto tutto con pazienza, lo minacciò di farlo bruciare vivo e poi lo mandò in prigione, dove san Mammante ritrovò quaranta cristiani che stavano carcerati per la fede. Il santo, avendone compassione, si mise in preghiera ed ecco che si aprirono da sé le porte del carcere e quei santi confessori si trovarono in libertà. Il miracolo convertì alcuni pagani, ma mise in maggior furore il governatore, il quale ordinò che il santo, legato mani e piedi, fosse gettato in una fornace. Il fuoco non bruciò neppure un suo capello, bruciò solamente i legami e il santo se ne restò in quelle fiamme benedicendo il Signore. Alla fine il governatore ordinò che san Mammante fosse ucciso. Il santo, allora, pregando Dio che gli facesse consumare il suo martirio, fu ucciso con molti colpi di spada e così andò a ricevere il premio di tante pene sofferte. Ciò avvenne verso l’anno 275, che fu l’ultimo anno del regno di Aureliano. Al tempo di Costantino fu fabbricata una chiesa in Cesarea sopra il sepolcro del santo e altre ne furono edificate in suo onore in molte città.
San Nicandro e San Marciano
Questi i due santi erano soldati di professione, ma poiché erano buoni cristiani furono denunciati al governatore Massimo nel tempo della persecuzione di Massimiano. Il governatore, fattili venire a sé, li obbligò a sacrificare. Rispose Nicandro: “Questo comando riguarda coloro che vogliono sacrificare, ma noi che siamo cristiani non possiamo eseguirlo”. Massimo soggiunse: “Ma perché ricusate anche di ricevere il denaro che vi spetta per le vostre cariche?”. Replicò il santo: “Non possiamo riceverlo, perché il denaro degli empi è peste per chi serve a Dio”. Almeno, disse Massimo, offrite l’incenso agli dei. E il santo: “Come può un cristiano abbandonare il vero Dio per adorare le pietre e i legni? E come può dar loro quel culto che si deve solo a Dio?”. Era presente a  questo discorso Daria moglie di Nicandro, la quale animata dallo spirito di Dio disse al marito: “Nicandro, guardati di obbedire al governatore; non rinunciare a Gesù Cristo. Ricordati di quel Dio al quale hai legato la tua fede. Egli è il tuo protettore”. Allora Massimo esclamò: “Donna malvagia, perché procuri tu la morte al tuo marito?”. Rispose Daria: “Perché possieda presto la vita eterna”. Replicò Massimo: “Di’ meglio, perché desideri cambiare marito e perciò vorresti che egli morisse”. E Daria: “Se sospetti di ciò fammi, se ti è permesso, morire per Gesù Cristo prima di lui”. Rispose Massimo che egli non aveva ricevuto l’ordine di far morire le donne, tuttavia subito la mandò in prigione. Rivolto poi a Nicandro gli disse: “Non ascoltare le parole di tua moglie che ti costerebbero la morte”. E poi aggiunse: “Io ti do tempo per decidere se ti torna più a conto il vivere o il morire”. Nicandro rispose: “Il tempo che vuoi darmi è già passato, la decisione è già fatta, e io non desidero che di salvarmi. Massimo allora esclamò: “Lodato sia Dio”, credendo che Nicandro per salvare la vita volesse ormai sacrificare. Nicandro pronunciò le stesse parole: “Lodato sia Dio”. Il governatore già se ne andava allegro per la creduta vittoria ma udì allora Nicandro che ringraziava Dio e lo pregava a voce alta di liberarlo dalle sozzure di questo secolo. Massimo, attonito a quella preghiera, disse a Nicandro: “Come! Poco fa volevi vivere ed ora vuole morire?”. No, rispose Nicandro, non voglio morire ma vivere in eterno e perciò disprezzo questa vita di cui mi parli. Esercita sopra il mio corpo la potestà che ti è data, io sono cristiano”. Allora il governatore si voltò a Marciano: “E tu, gli disse, cosa pensi di fare?”. Marciano rispose: “Io dico che voglio lo stesso che dice e vuole il mio compagno”. Dunque, replicò Massimo, andate ora in prigione e preparatevi a pagare la pena che meritate. Dopo venti giorni li richiamò e domandò loro: “Cosa dite? Volete ubbidire agli imperatori?”. Gli rispose Marciano con grande coraggio: “Le tue parole non ci faranno mai volgere le spalle al nostro Dio. Noi sappiamo che Dio ci chiama, dunque non ci trattenere più. Mandaci presto a quel dio crocifisso che noi adoriamo e tu bestemmi”. Massimo disse: “Allora, giacché volete morire, morite”. E Marciano: “Fai presto, non perché ci spaventino i tormenti ma perché desideriamo di unirci presto a Gesù Cristo”. Il governatore riprese a dire: “Io sono innocente della vostra morte, non sono io che vi condanno ma gli ordini degli imperatori. Se voi siete sicuri di passare a sorte migliore io mi rallegro con voi”. E allora li condannò alla morte e i santi dissero: “Massimo, la pace sia con te!”. E pieni di giubilo si avviarono al martirio, benedicendo Dio. Dietro a Nicandro andava Daria, sua moglie, e un suo figliolo, portato in braccio da Papiano, fratello di un altro martire, Pasicrate. Daria, quando il martire stava per essere decollato, volle passare a parlargli da vicino per dargli animo, ma non poteva passare per la folla. Marciano le porse la mano e la presentò a Nicandro, il quale come licenziandosi da lei con volto sereno le disse: “La pace sia con te. Ed essa, stando lì presso, intrepida l’animò dicendo: “Stai allegro, compi il tuo sacrificio. Io mi consolo di vederti andare alla gloria e stimo grande la mia sorte di essere moglie di un martire. Rendi dunque a Dio l’amore che gli devi e pregalo che liberi anche me dalla morte eterna. Al contrario dietro a Marciano andava anche sua moglie con altri suoi parenti, ma questa andava stracciandosi le vesti e gridando: “Misera me! Marciano perché così mi disprezzi? Abbi pietà di me, almeno guarda il tuo figliolo”. Marciano la interruppe e le disse con fortezza: “Sino a quando il demonio ti accecherà? Ritirati e lasciami terminare il mio martirio”. La moglie continuava a piangere e giunse a gettarglisi addosso, impedendogli di camminare. Marciano allora disse a un buon cristiano chiamato Zotico: “Di grazia, trattieni mia moglie!” E quando giunse al luogo del supplizio disse a lei: “Ritirati in nome del Signore, perché essendo tu posseduta dal diavolo non puoi vedermi terminare il mio martirio”. Quindi abbracciò il figlio ed alzati gli occhi al cielo disse: “Mio Dio, prendi tu la cura di questo mio figlio”. Finalmente Nicandro e Marciano, abbracciandosi, si diedero il bacio di pace e il carnefice, avendo bendati gli occhi ad ambedue i santi, troncò loro le teste.

San Pantaleone
Pantaleone fu di Nicomedia; suo padre si chiamò Eustorgio ed era pagano; sua madre Eubola ed era cristiana. Questa morì mentre Pantaleone era fanciullo. Egli pertanto sotto l’educazione del padre continuò a essere pagano. Si applicò alla medicina e vi riuscì a meraviglia. L’imperatore Massimiano lo prese per suo medico. Un giorno il santo si trovò a discorrere con un santo sacerdote chiamato Ermolao, il quale lodò la sua scienza e il suo spirito e poi gli disse: “Ma a cosa ti serviranno, amico, tutte le tue belle conoscenze, se ignori la scienza della salvezza?”. Quindi gli spiegò le verità principali della nostra fede, in modo che gli fece confessare che per essere felice bisognava essere cristiano. Dopo ciò accadde che Pantaleone trovò sulla via un fanciullo morto per il morso di una vipera, che gli stava accanto. Allora, così ispirato da Dio, disse al fanciullo che si alzasse in nome di Gesù Cristo. Il fanciullo risorse per cui egli subito corse a trovare san Ermolao e si fece dare il battesimo. Fatto cristiano, cominciò a rendere cristiano anche suo padre. Un giorno gli comparve innanzi col volto mesto. Il padre gli domandò la ragione di quella mestizia ed egli rispose: “Padre le stravaganze della nostra religione mi tengono confuso. Se i nostri dei sono stati uomini, come poi sono diventati dei? Al contrario vedo che della stessa materia di cui si fanno le pentole si fanno anche gli idoli. Ora come dunque noi offriamo i sacrifici a questi idoli, che non hanno occhi per vedere?”. Il padre restò commosso da questo discorso. Essendo poi venuto un cieco a cercare rimedio, il nostro santo, avendo invocato il nome di Gesù sopra di lui, guarì il cieco. Con quel miracolo il cieco e il padre si convertirono e presero il battesimo. Da questi fatti Pantaleone si scoprì dappertutto cristiano e ne fu accusato all’imperatore. Massimiano fece chiamare il cieco e volle sapere da lui il fatto. Quegli semplicemente disse come era stato e che egli perciò si era fatto già cristiano. L’imperatore tentò di convincerlo che era stato guarito non da Gesù Cristo ma dagli dei. Quello rispose: “Ma come vuoi, principe, che gli dei diano la vista quando essi non vedono? Massimiliano, sdegnato a questa risposta, gli fece subito troncare la testa. Quindi fece chiamare Pantaleone e gli rimproverò la sua ingratitudine nel farsi cristiano, dopo che egli l’aveva colmato d’onore e di ricchezze. Rispose il santo: “Sire non vi è di noi chi non sa la nascita degli dei e quindi le loro passioni e i loro delitti. Come possiamo adorare questi uomini empi come dei? Principe, uno è il solo vero Dio:  il Dio dei cristiani. Facciamo qui la prova, alla tua  presenza, della verità della fede”. L’imperatore fu contento. Si fece venire un infermo di morbo incurabile. I pagani impiegarono sacrifici ed orazioni, ma l’ infermo rimase qual era. Facendo poi S. Pantaleone il segno della croce sull’infermo in nome di Gesù Cristo, quello subito si trovò guarito e cominciò a gridare: “Sono sano, sono sano, non vi è altro Dio che il Dio dei cristiani”. L’imperatore gridò invano: “Incantesimo, magia!”; ma la maggior parte dei presenti si convertì e dappertutto fu resa nota la potenza di Gesù Cristo. Massimiano, da ciò più inasprito, fece condurre Pantaleone in una piazza e lo fece lacerare a pezzi e poi bruciare le piaghe con torce accese. Poi lo fece buttare in una caldaia di piombo liquefatto, ma il santo in nulla restò leso da tali supplizi. Quindi l’imperatore lo fece gettare in mare con una pietra da mulino legata al collo. Il santo uscì dal mare sano e salvo. Ancor più lo fece legare ad un albero di ulivo per farlo qui uccidere con le spade; ma il ferro diventò molle come cera. Alla fine gli fece troncare la testa, da cui uscì sangue e latte. L’imperatore se la prese poi con san Ermolao. Il Santo si mise in preghiera e venne un terremoto, che fece cadere tutti gli idoli della città. Massimiano, non sapendo più cosa fare, fece subito decapitare San Ermolao. Le reliquie di san Pantaleone furono trasportate prima a Costantinopoli, poi in Francia. Nella città di Ravello, nel regno di Napoli, si conserva un vaso del suo sangue che ogni anno si liquefà e si vede asperso di sopra con latte, come lo ho veduto anch’io che scrivo questo libro.

San Pietro, Andrea e compagni
Nella persecuzione di Decio a Lampsaco, città dell’ Ellesponto, un giovane di nome Pietro, fu presentato al proconsole. Questi, intendendo da lui che era cristiano, gli ordinò di sacrificare alla grande dea Venere. Pietro rispose: “Io mi stupisco come tu voglia che io sacrifichi ad una donna la cui impudicizia è una vergogna raccontare. I sacrifici conviene piuttosto offrirli al vero Dio”. Il tiranno, a questa risposta, lo fece stendere e legare sopra una ruota, che, girando per certi pezzi di legno posti intorno, ridusse il santo con le ossa tutte stritolate. Egli dopo quel tormento alzando gli occhi al cielo disse: “Ti ringrazio Gesù, Cristo mio, che mi fai patire per amore tuo”. Il proconsole, vedendo quella costanza del santo, gli fece tagliare la testa. Gli furono poi presentati altri tre cristiani: Andrea, Paolo e Nicomaco. Nicomaco, appena il proconsole chiese loro quale fosse la loro religione, rispose per primo: “Io sono cristiano e non sacrifico ai demoni”. Il tiranno lo fece sospendere in aria dandogli la tortura. Il misero Nicomaco, quando si vide vicino a morire per la violenza del dolore, esclamò: “Io non sono mai stato cristiano e sacrifico agli dei. Il proconsole lo fece subito calare e sciogliere, ma, appena egli sacrificò, fu invasato dal demonio e sbattendo per terra, con i propri denti si tagliò la lingua e morì. Nello stesso tempio tuttavia si trovava una giovane di anni sedici,  chiamata Dionisia, che piangendo la caduta di Nicomaco gridò: “O miserabile! Per non soffrire un altro po’ ti sei condannato ad una pena eterna”. Il proconsole, udendola così parlare, la interrogò se fosse cristiana. Si, ella rispose, sono cristiana e per questo piango la perdizione di questo infelice. Il proconsole sdegnato la minacciò di farla bruciare viva. Dionisia disse: “Io non temo le tue minacce, il mio Dio mi dà la forza di soffrire quanto mi farete patire”. Il giudice allora abbandonò la santa vergine a due giovinastri, che, ritrovandosi nella stanza dove era Dionisia, videro un angelo in forma di giovane tutto risplendente, che la custodiva. Essi tremando si gettarono ai piedi della santa, pregandola di intercedere per loro. Il mattino seguente il tiranno si fece presentare Andrea e Paolo e comandò loro di sacrificare a Diana. Risposero: Noi non conosciamo né Diana né gli altri demoni, che tu adori, né abbiamo mai adorato altri che il vero Dio”. Il proconsole, disperando di vincere la loro costanza, li abbandonò al furore del popolo, che li trascinò per i piedi fuori della città. Intanto Dionisia, scappando dalle mani delle guardie, corse al luogo dove erano i martiri e qui giunta disse loro: “Io voglio qui in terra morire con voi, per vivere con voi in cielo”. Avvisato di tutto ciò, il proconsole la fece condurre in un luogo separato e qui le fece tagliare la testa. Gli altri due martiri terminarono la vita lapidati dal popolo.

San Potino, Blandina ed altri martiri di Lione
Facendo l’imperatore Marco Aurelio in Germania la guerra ai Quadi e ad altri popoli, temette di vedere perire di sete tutto il suo esercito. Avendo pregato i soldati cristiani che stavano fra le sue truppe, cadde una grande pioggia che dissetò tutto l’esercito. Poiché in quel tempo i nemici assalivano i Romani, caddero molti  fulmini, che, unendosi con la grande acqua, posero in disordine questi nemici e li obbligarono a darsi alla fuga. L’imperatore, riconoscendo che questo miracolo era avvenuto in virtù del dio dei cristiani, nell’anno 174 proibì sotto pena di morte di accusarli a causa della loro religione. Ma dopo due anni, per il tumulto che mossero gli idolatri, si riaccese la persecuzione contro i cristiani, in modo che essi non osavano più farsi vedere. Ciò avvenne principalmente a Lione, a Vienne e nei paesi vicini. Ma quanto più i fedeli erano perseguitati, tanto più si videro confortati da Dio a soffrire con pazienza i maltrattamenti che ricevevano dal popolo e dai magistrati. Furono essi presi e poi presentati al presidente, il quale cominciò a trattarli con crudeltà. Ma allora gli si fece davanti un giovane di famiglia nobile, chiamato Vezzio Espegato, il quale, essendo pieno dello spirito di Dio, gli disse con coraggio che i cristiani non erano rei e ingiustamente venivano perseguitati. Il presidente, che era pagano, gli domandò chi egli fosse. Rispose: “Io sono cristiano”. Quello ordinò che tutti i cristiani a Lione e a Vienne fossero posti in carcere. Allora si mossero alcuni ad accusarli che nelle loro adunanze commettevano le più esecrande impudicizie e che qui mangiavano i bambini. I magistrati posero in piedi i tormenti più atroci, perché i fedeli confessassero tali delitti e abbandonassero la fede di Gesù Cristo. Tra gli altri presero a tormentare un certo diacono chiamato santo, il quale interrogato non volle dire né il suo nome né la sua patria e non rispondeva se non: “Io sono cristiano”. Giunsero con lamine di rame infuocato a bruciargli le parti più sensibili del corpo. Egli, quantunque il suo corpo dalla testa ai piedi fosse diventato tutto una piaga, in virtù della grazia si mantenne sempre forte nella fede. Stando poi il medesimo tutto contratto ed incurvato per i tormenti sofferti, lo rimisero in prigione. Pochi giorni dopo tornarono a tormentarlo, ma la loro crudeltà operò in modo che i secondi strazi servissero di rimedio ai primi perché si trovò allora perfettamente sano. In tale persecuzione molti disgraziatamente rinnegarono  Gesù Cristo e fra costoro vi fu una donna chiamata Bibliade. Costei fu più volte posta alla tortura perché confessasse i delitti di cui erano stati accusati i cristiani. Essa nei tormenti si ravvedeva e dai dolori che soffriva in quelli argomentò quanto fossero insopportabili le pene che avrebbe dovuto patire nell’inferno, se fosse morta in peccato come si trovava e così, invece di accusare i cristiani rispose: “Come è mai possibile che quelli che si astengono dall’assaggiare il sangue degli animali vogliano poi cibarsi dei propri figli?”.  Allora Bibliade confessò di essere cristiana e tale voleva morire e rientrò nel consorzio degli altri martiri. Viveva ancora in quel tempo il vescovo di Lione San Potino, in età di anni novanta, ed era così debole di forze che appena poteva respirare. Quanto grande era la sua debolezza, altrettanto era grande il suo desiderio di dare la vita per Gesù Cristo e di unire il suo sangue a quello che vedeva sparso da tante sue pecorelle. Quando fu condotto a braccia dai soldati davanti al presidente e questi gli chiese quale fosse il Dio dei cristiani, rispose il santo: “Se tu sei degno lo conoscerai”. A questa risposta gli idolatri gli si avventarono sopra come cani arrabbiati con pugni e calci, così che avendolo poi gettato in prigione, qui dopo due giorni il vecchio spirò per gli strazi patiti. Le carceri erano piene di cristiani ai quali si faceva soffrire ogni sorta di patimenti. Allora si riconobbe la differenza che vi era tra coloro che si erano preparati al combattimento con una vita santa e mortificata e gli altri che si erano rilassati in una vita tiepida e molle. I primi furono costanti nel confessare Gesù Cristo e stavano allegri e contenti. I secondi  abbandonarono la fede e poi per il rimorso di coscienza apparivano mesti e confusi, mentre si vedevano dileggiati dagli stessi Gentili. Molti di quei buoni cristiani morirono nella prigione, oppressi dal fetore, dall’umidità, dalla fame e dagli altri patimenti. Altri poi furono destinati a morire fra i tormenti. Tra costoro vi furono Maturo e Santo, che oltre i patimenti sofferti furono posti, a richiesta del popolo idolatra, a sedere in una sedia di ferro infuocato: crudeltà che non poteva inventarne di peggiore la stessa crudeltà dei demoni. La puzza che esalava dalle carni bruciate dei pazienti disturbava gli stessi persecutori, i quali alla fine li scannarono e così quei due santi martiri ottennero la vittoria del loro lungo martirio. Poi il popolo chiese che fosse giustiziato Attalo di Pergamo, che era da tutti conosciuto come buono cristiano. Udendo il presidente che egli era cittadino romano, lo fece rimettere in prigione per aspettare la decisione dell’imperatore. In quel tempo si trovò in Lione anche un cristiano di nome Alessandro, medico e oriundo della Frigia. Questi, stando vicino al presidente che interrogava i fedeli, con  la testa e con gli occhi faceva  loro cenno per esortarli a stare forti nella fede. I pagani lo accusarono di questo al presidente e questi, sentendo da lui stesso che era cristiano, lo mandò in carcere e il giorno seguente lo condannò insieme con Attalo e ad altri martiri alle fiere e poi tutti furono alla fine scannati con le spade dai carnefici. Quindi si passò a terminare il martirio di Santa Blandina, la quale merita un più distinto e disteso racconto. Santa Blandina era schiava, era giovane, ed era di salute cagionevole, così che la sua padrona, che era buona cristiana, molto temeva che essa non potesse resistere ai tormenti e rinnegasse la fede. Blandina non ebbe alcuno che la superasse in coraggio nel soffrire i tormenti con cui fu straziata. I carnefici per un giorno intero si affaticarono a tormentarla gli uni dopo gli altri. Si stupivano come una fanciulla così delicata e malaticcia potesse ancora vivere dopo tanti tormenti. Prima la flagellarono crudelmente così che le stracciarono le carni sino alle viscere e poi l’ arsero con il farla sedere nella sedia infuocata. In questi tormenti essa altro non diceva se non: “Io sono cristiana e fra i cristiani si ignora il nome di peccato”. La chiusero poi dentro una rete e la esposero ad un toro feroce, che per lungo tempo la gettò in aria. Alla fine la santa eroina fu scannata come una vittima, confessando gli stessi pagani di non aver mai visto donna patire così atroci supplizi con tanta costanza. I corpi di tutti questi santi martiri furono poi bruciati e le loro ceneri furono gettate nel Rodano. La loro storia fu  scritta dai fedeli delle chiese di Lione e di Vienne, i quali furono testimoni e forse anche compagni dei loro patimenti. La fortezza di questi martiri nel sopportare tormenti così acerbi e crudeli con tanta costanza fa vedere che le anime, che davvero amano Gesù Cristo e si sono date tutte a lui, vincono con la sua grazia tutti i tormenti che si possono patire in questa vita.


San Pullione
Nella città di Tibali fu presentato al giudice chiamato Probo, Pullione. Richiesto da lui se era cristiano, rispose che era cristiano ed era il primo dei lettori. Di quali lettori? Replicò Probo. E il santo: “Di quelli che leggono la divina parola al popolo”. Soggiunse Probo: “Di quelli che sogliono sedurre le donnicciole per ritirarle dal maritarsi e indurle ad osservare una vana continenza?”. Rispose Pullione: “In verità sono vani quelli che abbandonano il loro Creatore e consentono alle vostre superstizioni; al contrario sono devoti quelli che ad onta dei tormenti persistono nell’osservanza dei precetti”. Il preside riprese: “Di quali i precetti mi parli?”. E il santo: “Di quelli che ordinano di conoscere un solo Dio e non quegli dei che sono fatti di pietra o di legno: che correggono i peccati e confermano i buoni a perseverare nel bene: che insegnano alle vergini il pregio della verginità, ed alle maritate il conservare la pudicizia: ai sudditi l’ubbidienza ai sovrani quando comandano cose giuste: che insegnano finalmente che è preparata una vita eterna a chi disprezza la morte che voi potete darci”. Disse Probo: “Ma cosa resta da sperare ad un uomo che con la vita ha perso il godimento della luce e di tutti i beni del corpo?”. Rispose il santo: “Vi è una luce eterna immensamente migliore di quella che dopo breve tempo per noi si oscura. I beni che sempre durano sono senza paragone più amabili di quelli che finiscono. E non è prudenza posporre le cose caduche alle eterne?”. Probo ruppe questo discorso del santo dicendo: “A che servono tutte queste parole? Fa’ quello che hanno comandato gli imperatori, sacrifica agli dei!”. Pullione rispose: “Pensa tu a fare quello che ti è stato ordinato. Io non sacrifico, essendo scritto: Chi sacrifica agli dei e non a un solo Dio sarà sterminato”. E Probo: “Ma se non sacrifichi sarai decapitato!”. E il santo: “Fa” quello che ti è stato ordinato; a me tocca di seguire le dottrine che mi hanno insegnato i miei padri e vescovi. Quanto mi farai soffrire lo soffrirò con piacere”. Probo sdegnato, invece di farlo decapitare lo condannò ad essere bruciato vivo. Condotto che fu il santo dal ministro al luogo del supplizio si offrì  in sacrificio a Dio e lo benedisse perché lo faceva morire martire per la sua gloria e morì da forte tra le fiamme per il nome di Gesù Cristo il 27 aprile.


San Quirino vescovo
Nell’anno 303 avendo lasciato l’impero Diocleziano e Massimiano, Galerio, loro successore, continuò la persecuzione contro i cristiani. San Quirino che era vescovo di Siscia nella Croazia, dopo aver egli convertito alla fede tutto il paese, intendendo che Massimo (il quale presiedeva nella Pannonia come luogotenente del governatore) aveva dato ordine di arrestarlo, uscì dalla città per meglio applicarsi alla custodia del suo gregge. Presto fu preso dai soldati e presentato a Massimo, che gli domandò perché fuggisse. Rispose il santo: “Io eseguo l’ordine del mio Signore che ha detto: se siete perseguitati in una città, fuggite in un’altra”. Replicò Massimo: “Chi ha comandato ciò?”. E Quirino: “Gesù Cristo che è il vero Dio”. Riprese il giudice: “Ma non sai che gli imperatori possono trovarvi in ogni luogo e che il vostro Dio non può liberarvi dalle nostre mani come già vedi?”. Rispose il santo: “Io non so altro che il nostro Dio è con noi e può soccorrerci in ogni luogo. Ed egli è quello che mi dà forza in questa mia debole età  anche nei tormenti”. Tu parli molto perché sei vecchio, disse Massimo, e ci tieni a bada con le tue parole: meno parole e più sottomissione. Noi non vogliamo più cristiani nell’impero. Il principe ordina che tutti sacrifichino agli dei sotto pena di morte: sottomettiti! Rispose il Santo: “Io non posso sottomettermi agli ordini che sono contro la mia religione. Posso io non ubbidire a Dio per ubbidire agli uomini?”. Massimo ripigliò: “Buon uomo, non sapresti tante favole se avessi vissuto meno. Ubbidisci all’imperatore e diventerai saggio almeno alla fine dei tuoi giorni”. È saviezza dunque, rispose san Quirino,  commettere una tale empietà? Il giudice disse: “Or via, non più parole, o scegli di essere sacerdote di Giove o di morire fra i tormenti”. Rispose il santo: “Ho eletto Dio ed ora già esercito l’ufficio di sacerdote, offrendo me stesso in sacrificio al mio Dio, stimandomi beato di essere nel tempo stesso il sacerdote e la vittima”. Massimo, non potendo più sopportarlo, lo fece crudelmente flagellare con le sferze. Il santo vescovo in tutto quel tempo con gli occhi in cielo non faceva altro che ringraziare Dio. Rivolto a Massimo gli disse che egli era pronto a patire altri maggiori dolori per dare anche buon esempio ai suoi seguaci. Massimo non volle allora che fosse fatto morire sotto i flagelli e lo mandò al carcere. San Quirino, giunto che vi fu, si mise a ringraziare di nuovo il Signore di tanti affronti che riceveva e a pregare per coloro che stavano nel carcere, perché abbracciassero la vera fede. Sulla mezza notte si vide una grande luce che circondava san Quirino. Il carceriere, chiamato Marcello, allora si buttò ai piedi del santo e gli disse: “Servo di Dio, prega per me, mentre io credo non esservi altro Dio se non quello che tu credi”. E San Quirino avendolo in poco tempo istruito nella fede lo battezzò. Tre giorni dopo Massimo mandò san Quirino carico di catene ad Amanzio, governatore della prima Pannonia che oggi si chiama Ungheria, affinché lo giudicasse. Il santo, prima di giungere colà, fu chiuso in carcere in Sabadia, dove alcune donne cristiane gli portarono qualche cibo. Mentre il santo lo benediceva, caddero le sue catene dalle mani e dai piedi, volendo con ciò Dio mostrare quanto gradiva la carità fatta al santo vecchio. Il governatore si fece condurre san Quirino, lesse gli atti e cercò di smuoverlo col timore di una morte crudele in quella sua età molto avanzata. Il santo rispose che la sua grande età gli serviva per disprezzare maggiormente la morte che gli era vicina. Amanzio, disperando di mutarlo, gli fece attaccare al collo una macina ed ordinò che con quella fosse gettato nel fiume Sibari. Mentre era portato al ponte per essere buttato di là nel fiume, vi era già intorno una grande popolo. Fu precipitato, ma si vide il santo galleggiare sull’acqua insieme con la macina. Di là egli cominciò ad esortare i cristiani a stare costanti nella fede e continuò a predicare per molte ore alla vista di tutti. Questo miracolo convertì una gran numero di pagani, ma dopo ciò il santo  pregò così: “Mio Salvatore Gesù Cristo, questo popolo ha già veduto i segni della tua potenza. Dammi ora la grazia di morire per te e non permettere che io perda la corona del martirio”. E allora il suo corpo con la macina si affondò nell’acqua e il santo rese lo spirito a Dio il 4 giugno all’inizio del quarto secolo. San Girolamo mette la sua morte nell’anno 310, ma il Baronio la mette al 308. Il corpo di San Quirino fu sepolto a Roma vicino le catacombe di San Sebastiano, ma Innocenzo II lo trasportò poi nella chiesa di Santa Maria Trastevere.

San Romano diacono
Il martirio di questo santo è ammirabile e si trova celebrato dagli scrittori sia dell’Oriente sia dell’Occidente, come scrive il padre Orsi, citando Eusebio, San Giovanni Crisostomo, Prudenzio, nei luoghi dove ne parlano. San Romano fu siro e nacque da genitori cristiani e nobile. Applicatosi da giovane agli studi vi fece grandi progressi, poiché era di bello ingegno. Ma il profitto più grande fu quello che ottenne nella scienza dei santi, con i santi costumi che coltivava e con lo zelo che aveva per la religione. Quando cominciò la persecuzione di Diocleziano, egli si trovava già diacono nella chiesa di Cesarea. Per confortare i fedeli a soffrire quella grande tribolazione si pose a girare per tutte le case. Il suo vescovo lo mandò ad Antiochia per alcuni affari urgenti. Ma, giunto colà,  San Romano trovò nell’anno 303 che stavano demolendo le chiese per ordine degli imperatori. Ciò lo afflisse molto, ma gli fu poi di maggiore dolore vedere la caduta di molti cristiani, che si presentavano per sacrificare agli idoli, spaventati dalle pene minacciate dai giudici. Per questo, acceso dal suo zelo, e non facendo conto del suo pericolo, entrò nella folla di quegli apostati e gridò: “Fratelli miei, cosa fate? Voi abbandonate il vero Dio, il vostro Creatore, il vostro Redentore, per darvi ai demoni vostri nemici? Voi offrite l’incenso agli dei di bronzo, di pietra, o di legno, e volete adorare come dei coloro che sono stati i più scellerati degli uomini?”. Con questo discorso ottenne molto, poiché non solo trattenne quelli che stavano per cadere e confermò quelli costanti, ma sollevò coloro che erano abbattuti, e li dispose a resistere a tutti gli insulti dei nemici. Avendo il prefetto del pretorio, chiamato Asclepiade,  mandato soldati alla chiesa ad offrire vittime agli idoli sopra il santo altare, ordinando che dopo ciò fosse distrutta la chiesa, il santo si oppose all’empio sacrilegio. Disse poi che se volevano scannare una vittima egli era pronto ad offrire al suo Dio il sacrificio della propria vita. Asclepiade, avendo saputo ciò, diede l’ordine che Romano fosse arrestato. Avvisato, il santo poteva fuggire, ma non volle; anzi andò esso incontro ai soldati e condotto al tribunale confessò di essere cristiano e che aveva distolto i fedeli dall’ubbidire all’editto, perché l’editto era empio. Ben prevedo, aggiunse, che  questa  mia confessione mi sottoporrà ai tormenti, ma spero di sopportarli con costanza per amore del mio Dio, perché non ho commesso alcun delitto. Il prefetto ordinò che fosse steso sull’eculeo e lacerato con ferri. Essendogli stato detto che il santo era nobile, mutò il supplizio con il farlo battere in sua presenza, per lungo tempo, con flagelli armati di piombo. Vedremo, disse il prefetto, se parlerai con tanta insolenza in mezzo ai supplizi. Rispose il santo martire: “A Dio non piaccia che io sia  insolente. Sarò fedele con la grazia di Gesù Cristo e finché avrò vita non cesserò di esaltare le sue lodi e detestare le vostre superstizioni”. Soffriva intanto Romano quella carneficina, non solo con pazienza, ma con gioia. Per la qual cosa Asclepiade ardeva di sdegno e cercava di costringerlo a tacere, ora stendendo le mani verso i carnefici per indurli a incrudelire, ora trasportato dall’ira alzandosi dalla sedia per intimorirlo. Quindi cominciò a parlare in difesa dei suoi numi, ai quali, diceva, Roma doveva l’acquisto dell’impero e che egli doveva supplicare gli dei per la salute degli imperatori e castigare lui ribelle con il sangue. Rispose che egli non poteva far miglior preghiera, per i principi e per i soldati, che tutti abbracciassero la fede di Gesù Cristo e che egli non avrebbe mai obbedito all’imperatore se avesse continuato a perseguitare i cristiani. Asclepiade, irritato specialmente da queste ultime parole, ordinò che il martire fosse posto sull’eculeo e che gli fossero solcati i fianchi e il petto con unghie di ferro, sino alle ossa e alle viscere, per quelle audaci parole contro l’imperatore. Ma poiché il santo continuava a burlarsi di quelle pene ed incoraggiava i presenti a non tener conto di tutto quello che perisce, il prefetto comandò ai ministri che con le stesse unghie di ferro gli lacerassero la bocca e le guance. Ma il Santo di ciò lo ringraziò, dicendo che in questo modo invece di una bocca gli aveva fatto aprire più bocche a celebrare le lodi di Cristo. Il giudice, più infuriato, minacciò di farlo bruciare vivo, chiamandolo ostinato nel voler preferire all’antica la nuova religione di Cristo morto su di una croce. Ma da ciò Romano prese a celebrare le glorie della croce, spiegando i santi misteri che la croce conteneva. Concluse che mentre lui, Asclepiade, non comprendeva tali misteri, gliene mostrava una facile prova. Si faccia qui venire, disse, un fanciullo di pochi anni e si sappia da lui quale religione si deve seguire, se quella di più dei o quella che adora un solo Dio. Il prefetto accettò la scommessa. Si fece venire un bambino da poco svezzato e Romano lo interrogò: “Bambino mio qual è la strada migliore, venerare Gesù Cristo oppure molti dei? Il bambino rispose che il vero Dio non poteva essere che uno e che non si poteva concepire il credere in più dei. A tale risposta il tiranno restò confuso. Non sapendo cosa dire si rivolse al fanciullo e gli disse: “Chi ti ha insegnato queste cose” Rispose quello: “Mia madre, e a mia madre  Dio”. Allora Asclepiade ebbe la crudeltà di far strappare il bambino dalle mani di sua madre e lo fece battere così crudelmente che quello restò tutto macerato e sparso di sangue e dopo ciò gli fece troncare la testa. La Chiesa celebra il 18 novembre la festa di questo fanciullo martire, chiamato Barula, che restò battezzato nel proprio sangue. La buona madre, che era già cristiana, avendo sentito la sentenza data contro il figlio lo portò essa stessa al luogo del supplizio e dandolo al carnefice senza piangere lo baciò e gli disse che si ricordasse di lei nel cielo e poi stese la sua veste per ricevere quella sacra testa e la portò nella sua casa come preziosa reliquia. Asclepiade, disumano, invece di restare commosso dal miracolo che fece stupire tutti gli astanti, divenne più furioso e crudele. Fece chiamare di nuovo san Romano, che considerava l’autore di tanti mali, alla tortura, e qui lo fece più acerbamente straziare sino a fargli strappare i miseri resti delle sue carni. Ma il santo irrideva la debolezza dei carnefici, dicendo che non avevano saputo privarlo della vita. Il prefetto, udito ciò, disse: “Poiché desideri di finirla, via, sia soddisfatto il tuo desiderio: Sarai presto consumato dal fuoco e ridotto in cenere”. E San Romano, mentre i soldati lo conducevano, rivolto al giudice gli disse: “Perfido, faccio appello al mio Cristo per questa tua crudele sentenza”. Disse ciò perché il tiranno comprendesse che un giorno di tutto doveva rendere conto al giudice supremo. Ma allora Asclepiade diede l’ultima sentenza con la quale condannò il martire alle fiamme. Intanto essendo già stato preparato nel campo il rogo sul quale san Romano doveva essere bruciato, mentre i carnefici lo legavano al palo, disse il santo che sapeva non essergli destinato da Dio quel genere di martirio e che si doveva ancora ammirare un altro grande miracolo. E così fu, poiché subito copertosi il cielo di nuvole, cominciò a scaricare un gran diluvio di pioggia. Per la qual cosa i carnefici, per quanto si dessero da fare, non poterono far ardere la legna, quantunque  l’avessero cosparsa d’olio e di pece. Ciò fu motivo di un gran rumore nel popolo; per questo il fatto fu riferito all’imperatore e mentre si attendeva la risposta, il santo, burlandosi dei ministri, chiedeva: “Dov’è il fuoco?”. L’imperatore allora sembrava propenso a liberare un uomo che vedeva così protetto dal cielo, ma Asclepiade lo distolse dal proposito, anzi ne ottenne che al santo fosse tagliata quella lingua che tante volte aveva bestemmiato gli dei. Per questo, tornato al foro e fatto venire Romano, ordinò ad un cerusico. chiamato Aristone, che gli strappasse la lingua. E ciò fu subito eseguito, poiché avendo il Santo con prontezza presentata la lingua quella gli fu strappata sino dalla radice. Per questo gli uscì dalla bocca un rivolo di sangue sulla barba e sul petto. Fu nuovo prodigio che Romano vivesse dopo quella barbara esecuzione: ma il prodigio maggiore fu che il medesimo continuasse a parlare. E un tale scrive che vi erano ancora al suo tempo molte persone che furono presenti a questo miracolo. Asclepiade, non contento di quanto aveva fatto, volle di nuovo tentare la costanza del santo e fece preparare un altare con fuoco ed incenso e con certe carni di animali. Fatto venire Romano, lo esortò a sacrificare e poi gli disse, per deriderlo, che gli dava licenza di parlare. Ma allora il Santo alzò la voce e rispose che non si doveva meravigliare se non mancavano mai le parole a chi predicava Gesù Cristo a cui erano soggette le leggi della natura; e per questo gli era da esso donata la facoltà di parlare senza lingua. Il tiranno a quel nuovo prodigio non sapeva cosa rispondere. Manifestò il sospetto di essere stato burlato dal cerusico, ma quello disse  per discolparsi che si visitasse la bocca del santo e quella in verità fu ritrovata senza lingua. E per maggiore prova del miracolo, essendo stata recisa allora la lingua ad un reo già condannato a morte, quello subito spirò. San Romano fu ricondotto in prigione, dove fu tenuto più mesi e non smise di continuare a predicare le glorie di Gesù Cristo. Anzi mentre prima era alquanto balbuziente, poi continuò a parlare con tutta la pertinenza. Essendo poi giunta la solennità dei vicennali di Diocleziano, fu donata a tutti i carcerati la libertà, fuorché a San Romano. Questi nello stesso carcere ove era disteso con i piedi nel nervo sino al quinto buco, fu strangolato e andò a ricevere in cielo il premio di tanti suoi strazi il 17 novembre dell’anno 303. San Giovanni Crisostomo ed altri padri hanno celebrato con molte lodi la memoria del suo glorioso martirio.

San Sebastiano
San Sebastiano nacque da genitori cristiani, che abitavano a Narbona nella Linguadoca ma erano originari di Milano. Dice S. Ambrogio che San Sebastiano col suo talento e con la probità dei costumi fu prima molto amato da Diocleziano, che lo fece capitano della prima compagnia delle sue guardie. Il santo si avvaleva di questo posto per impiegare le sue facoltà a beneficio dei poveri e le sue fatiche in aiuto dei cristiani e specialmente di coloro che in gran numero languivano nelle carceri. Egli li soccorreva, dava loro coraggio a soffrire per Gesù Cristo; insomma era il sostegno di tutti i fedeli perseguitati. Avvenne intanto che i due fratelli Marco e Marcelliano, cavalieri romani, i quali avevano già sofferto con fortezza le torture, alla fine fossero condotti alla morte. In questo tempo vennero Tranquillino loro padre e Marcia  loro madre i quali erano pagani, accompagnati dalle mogli e dai figli dei due confessori di Cristo ed ottennero con le loro lacrime dal giudice Cromazio che la giustizia fosse differita per trenta giorni. Ognuno può ben immaginare le preghiere e le tenerezze che usarono quei parenti per far prevaricare i due santi fratelli. Insomma furono tali che i medesimi, mossi da queste battaglie, cominciavano già a  vacillare. Ma san Sebastiano, accortosi del loro pericolo, subito corse a soccorrerli e Dio benedisse talmente le sue parole che non solo confortò i due fratelli a ricevere con gioia la morte di lancia, dopo essere stati un giorno ed una notte trafitti in un patibolo nei piedi con i chiodi, ma convertì anche alla fede tutti i loro sopra citati congiunti. Inoltre attirò alla fede Nicostrato, ufficiale di Cromazio, e Claudio, custode della prigione, e sessantaquattro altri carcerati che erano idolatri. Il prodigio maggiore fu la conversione dello stesso Cromazio, vicario del prefetto, il quale sapendo che Tranquillino aveva abbracciato la fede lo fece chiamare a sé e gli disse: “Sei forse diventato pazzo negli ultimi giorni della tua vita?”. Rispose il buon vecchio: “Anzi ora con il farmi cristiano sono diventato saggio, preferendo la vita eterna alla vita di poche ore che mi toccherà in questo mondo”. Quindi lo fece parlare con San Sebastiano che lo convinse del tutto essere la religione cristiana l’unica vera. Cromazio si battezzò con tutta la sua famiglia e con i suoi schiavi ai quali diede la libertà. Quindi rinunciò alla sua carica e si ritirò a vivere in campagna. Fabiano, successore di Cromazio, avvisato che san Sebastiano confortava tutti i cristiani a stare forti nella fede e convertiva anche i pagani, ne informò l’imperatore, il quale avendosi fatto presentare il santo gli rimproverò il suo delitto nell’indurre i suoi sudditi ad essere cristiani. San Sebastiano rispose che egli credeva con ciò di prestare il maggiore servizio che poteva all’impero. Lo Stato non poteva ricevere maggior bene che l’avere sudditi cristiani, che quanto più sono fedeli a Gesù Cristo tanto più sono fedeli al loro principe. L’imperatore, sdegnato da tale risposta, ordinò che il santo fosse legato ad un palo e trafitto con le frecce dai soldati. La sentenza fu subito eseguita e fu lasciato San Sebastiano come morto. Una santa vedova, chiamata Irene, andata nella notte seguente per seppellirlo, lo trovò ancora vivo. Segretamente lo fece portare in casa sua dove il santo, essendo poi guarito, andò un giorno a trovare l’imperatore e gli disse: “Principe è possibile che tu voglia sempre credere alle calunnie inventate contro i cristiani? Ritorno a dirti che tu non hai sudditi più utili e fedeli nello Stato che i cristiani, i quali con le loro preghiere ti ottengono tutte le tue prosperità”. Diocleziano, sorpreso nel vedere San Sebastiano ancora in vita, gli disse: “Come, tu sei ancora vivo?”. Si, rispose il santo, il Signore mi ha conservato la vita perché io manifesti l’empietà che tu commetti nel perseguitare i cristiani”. Allora l’imperatore  adirato ordinò che il Santo fosse flagellato a morte e così avvenne e il santo andò a ricevere in cielo la corona del martirio il 20 gennaio dell’anno 288. I pagani gettarono il corpo del santo martire in una fogna, ma quello restò sospeso ad un arpione. Lucina, dama di gran virtù, mandò a prenderlo e lo seppellì all’ingresso del cimitero chiamato anche oggi, le catacombe di San Sebastiano.