5 FEDE, CAPRASIO, GIULITTA E QUIRICO, LUCIA, SERAPIA, SABINA, GIACOMO, MARIANO

Santa Fede vergine e San Caprasio
Santa Fede nacque in Agen di Aquitania, da una delle famiglie più illustri della provincia e cristiane. In quel tempo ardeva una grande persecuzione contro la Chiesa. La nostra santa, la quale sin dai primi suoi anni si era consacrata a Gesù Cristo, nell’udire parlare delle battaglie e vittorie dei martiri stava con gran desiderio aspettando il martirio e presto vide compiute le sue brame. Nella Aquitania era governatore il famoso Daciano; dico famoso per la  crudeltà, che usava con tutti i cristiani. Poiché la città di Agen era tutta cristiana, il tiranno risolse di andarvi in persona, per fare una strage di tutti i fedeli che vi trovava. Tutti procurarono di fuggire nei boschi e nelle caverne per salvarsi dalla tempesta. Santa Fede, quantunque fosse pressata a fuggire, non volle partirsi dalla città, dicendo di non voler perdere l’occasione che Dio le offriva allora di dare la vita per suo amor. Presto fu essa accusata al prefetto come cristiana. Essendo avvisata di ciò, la santa andò da se stessa a presentarsi a Daciano, il quale, sapendo che era nobile e vedendo la sua intrepidezza, le chiese il suo nome e di quale religione fosse. Essa rispose: “Io mi chiamo Fede e se ne porto il nome ne ho anche le opere, perché sono cristiana e mi sono tutta consacrata a Gesù Cristo mio Salvatore”. Il governatore replicò: “Figliola mia, lascia i sogni dei cristiani . Sei nobile, sei giovane, io ti prometto di farti diventare la prima dama della provincia. Va’ e  sacrifica alla dea Diana e all’uscita dal tempio riceverai i ricchi doni che ti ho destinato”. Santa Fede rispose con coraggio: “Io sin dalla mia infanzia ho conosciuto che tutti i vostri dei non sono che demoni e tu vorresti persuadere me di offrire loro sacrifici?  Dio me ne guardi! Non vi è che un solo Dio a cui ho sacrificato il mio corpo per la mia vita; tutte le vostre promesse e doni non potranno mai farmi tradire la mia religione”. Daciano con volto severo allora le disse: “Come? Tu hai l’ardire di chiamare demoni i nostri dei? Via, o sacrifichi o aspettati di morire fra i tormenti”. La santa, fatta allora più coraggiosa, rispose: “Sappi, signore, che non solo sono pronta a soffrire tutto per amore del mio Dio ma desidero di dargli presto questo segno della mia fedeltà”. Il tiranno ordinò che la santa fosse stesa su una graticola di ferro e sotto vi fosse posto il fuoco per arrostirla viva. Il barbaro ordine fu subito eseguito. Il supplizio fece orrore agli stessi pagani, che dissero allora essere una crudeltà troppo grande tormentare così una fanciulla nobile, non per altro delitto che di essere fedele al  Dio che adora. Intanto essendosi sparsa la notizia di ciò, San Caprasio, che era un giovane buon cristiano, nativo di Agen e si era ritirato in una caverna di un monte, osservò la santa che stava già soffrendo sulla graticola. Nello stesso tempo vide una bianca colomba che, portando nel suo becco una corona di gemme, andò a collocarla sul capo della martire e poi  battendo le ali fece discendere una rugiada, che spense tutto il fuoco. Allora Caprasio si sentì acceso di un grande desiderio del martirio. Vedendosi indeciso riguardo a quel che doveva fare, pregò il Signore che gli desse un segno che lo chiamasse al combattimento. Appena ritornato alla sua caverna vide uscire da un sasso una fontana di acqua viva. Pertanto animato da quel miracolo, che era il segno chiesto, lasciò la caverna e andò a dichiararsi cristiano davanti al prefetto. Daciano sdegnato gli domandò chi egli fosse. Rispose: sono cristiano. Egli era un giovane di amabile aspetto, per cui Daciano, avendone qualche compassione, lo chiamò in disparte e cercò in tutti i modi di farlo abiurare. Vedendo che il giovane stava forte nella sua fede ordinò che posto sul cavalletto gli fosse lacerato tutto il corpo con unghie di ferro. Il santo, stando in quel tormento, si mise a dimostrare a coloro che lo circondavano la verità della religione cristiana e la follia e l’empietà delle favole pagane con tanto spirito che ne convertì la maggior parte. Fra gli altri vi furono due fratelli, Primo e Feliciano, che, persuasi dalle parole di Caprasio, dichiararono che il vero Dio era il Dio dei cristiani e presto si fecero battezzare. Daciano in tutti i modi cercò di costringerli ad abbandonare la fede abbracciata e li fece anche condurre a un tempio ad offrire un sacrificio agli dei. Resistendo sempre quei santi con costanza furono condannati a essere decapitati con santa Fede e San Caprasio e con alcuni altri convertiti. E i cristiani della città con diligenza presero, nella notte seguente, tutti i loro corpi e li sotterrarono in luoghi nascosti. Nel tempo poi che fu restituita la pace alla chiesa, il vescovo di Agen, chiamato Dulcidio, prelato di grande probità, fece costruire una chiesa in onore di santa Fede e vi fece trasportare le reliquie di tutti i santi martiri sopra citati. Col tempo il corpo di santa Fede fu trasferito nella abbazia di Conche, la quale prese poi il nome della santa, la festa della quale è posta nel martirologio il 6 ottobre e il suo culto è molto diffuso nelle chiese della Francia.
Santa Giulitta e San Quirico suo figlio
Santa Giulitta era nobile della città di Icaonio nella Licaonia. Sotto l’impero di Diocleziano e Massimiano si trovava governatore della provincia Domiziano, uomo molto crudele. Perciò santa Giulitta, ardendo la persecuzione, si prese Quirico, suo figlio di tre anni, con due serve e si ritirò a Seleucia nella Isauria per sua maggiore sicurezza. Ma qui trovò Alessandro, il proconsole della Cilicia, che non era meno barbaro contro i cristiani che rifiutavano di sacrificare ai falsi dei. La santa passò da Seleucia a Tarso, dove nello stesso tempo vi giunse Alessandro. Essa era stata spogliata di quasi tutti i suoi beni da un uomo potente. Chiamato in giudizio l’usurpatore, non avendo per sé alcuna difesa, disse che essa come cristiana non poteva essere ammessa a difendersi per la legge promulgata dall’imperatore. Avendo udito ciò, il pretore fece arrestare Giulitta, la quale si presentò al giudice insieme con il fanciullo Quirico che teneva nelle sue braccia. Il pretore fece preparare il fuoco e l’incenso e poi ordinò a Giulitta di sacrificare agli dei dell’impero e rinnegare Gesù Cristo, non potendo i cristiani senza ciò valersi delle leggi per difendersi. La santa rispose: “Io sono cristiana e perciò sono  pronta a perdere non solamente i miei beni ma anche la vita piuttosto che rinnegare il mio Dio”. Il giudice più volte la costrinse ad abiurare la fede; ma ella, che era contenta di compensare i beni temporali con l’acquisto di quelli eterni, sempre rispose: “Io sono cristiana e non posso rinnegare Gesù Cristo”. Alessandro sdegnato di ciò, ordinò che toltole dal seno il figliolo, fosse posta sull’eculeo e percossa crudelmente con nervi di bue. Ma la santa in quei tormenti non faceva altro che ripetere: “Sono cristiana e non sacrifico ai vostri dei”. Quirico frattanto guardando la madre piangeva a dirotto e si sforzava per tornare nelle sue braccia. Alessandro lo prese e se lo pose sopra le ginocchia e facendogli carezze cercava di calmarlo. Volle anche dargli un bacio; ma il bambino, continuando a guardare la madre, cercava con tutti i suoi sforzi di allontanare da sé la faccia del giudice e con i calci e ancora con le sue piccole unghie da lui si difendeva gridando anch’egli: “Io sono cristiano”. Allora l’uomo bestiale, persa la pazienza, prese Quirico per un piede e dall’alto del trono dove stava seduto lo gettò con furia a terra. Cadendo il fanciullo  sugli spigoli dei gradini, gli si fracassò la testa ed avendo con il suo sangue e cervello asperso tutto il soglio, in quello stesso istante spirò. Allora la madre, invece di lamentarsi per tanta crudeltà, alzò la voce piena di giubilo e disse: “Mio Dio ti ringrazio di aver chiamato a te il mio figliolo prima di me”. Da tale fatto più irritato, il giudice ordinò contro Giulitta che con unghie di ferro le fossero lacerati i fianchi e sui piedi le fosse versato un vaso di pece bollente. Frattanto uno le disse: “Giulitta abbi pietà di te, non fare la stessa fine di tuo figlio e sacrifica agli dei”. Ma ella, soffrendo da forte quello strazio, rispose: “Io non sacrifico ai demoni ed alle statue mute, ma adoro Gesù Cristo e desidero raggiungere mio figlio in cielo”. Finalmente il giudice la privò di tutte le sue facoltà e la condannò alle fiamme. La Santa tutta giubilante, giunta al luogo del supplizio, poste le ginocchia a terra disse: “Signore che ti sei degnato di mettere il mio figliolo a parte della gloria dei santi, rivolgi lo sguardo anche su di me e mettimi tra le anime destinate ad amarti e adorarti per sempre”. E così la Santa tutta infiammata di santo amore nel cuore e piena di giubilo consumò il sacrificio nel fuoco.

Santa Lucia vergine
Santa Lucia nacque da nobile stirpe in Siracusa, la quale in quel tempo era considerata come la città capitale della Sicilia. Perse la santa il padre mentre era bambina. Sua madre, Eutichia, ebbe cura di allevarla e ben la istruì nei dogmi della fede. Quando essa vide la figlia giunta all’età nubile, pensò di maritarla, ma santa Lucia, che si era già tutta consacrata a Gesù Cristo, aspettava l’occasione per manifestare la sua decisione. Presto le si presentò l’occasione e fu questa: la nominata Eutichia pativa da più anni un flusso di sangue a cui non aveva potuto trovare rimedio che le giovasse. Al contrario il Signore operava gran miracoli al sepolcro di Santa Agata in Catania, per cui santa Lucia persuase sua madre ad andare là per ottenere la sua guarigione. Giunte a Catania e prostratesi ambedue sul sepolcro di santa Agata si misero a pregare. Lucia allora, forse per la stanchezza del viaggio, fu presa dal sonno e durante quello le apparve la santa martire e le disse: “Lucia, perché chiedi a me quel che tu stessa puoi dare subito a tua madre per la fede che hai in Gesù Cristo?”. E poi la rassicurò che Dio, a motivo di questa sua fede, aveva già guarito sua madre. Poi le predisse che per aver conservato la sua verginità essa avrebbe avuto da Dio in Siracusa quella gloria che essa aveva ricevuto in Catania. Santa Lucia molto animata da ciò confermò la sua decisione di consacrarsi a Gesù Cristo. Per questo disse alla madre che non le parlasse più di nozze; anzi la pregò di donare ai poveri la sua dote. La madre rispose che morendo avrebbe lasciato tutto a lei, perché ne disponesse come voleva. La santa replicò che per gratitudine della grazia ricevuta doveva spogliarsi in vita di quei beni che alla morte doveva lasciare per necessità. La madre acconsentì e tornate a Siracusa cominciarono a vendere i loro fondi e a distribuirne il prezzo ai poveri. Saputo ciò un giovane che pretendeva Lucia per sua sposa se ne lamentò con Eutichia, ma vedendo riuscire inutili le sue rimostranze, perché Lucia rifiutava del tutto le sue nozze, per dispetto la accusò a Pascasio, governatore della Sicilia, di essere cristiana contro gli editti di Diocleziano e Massimiano. Pertanto la santa fu presa e condotta a Pascasio, il quale cercò di indurla a sacrificare agli idoli. Lucia rispose che il sacrificio gradito a Dio era il sollevare i poveri e  questo era quel sacrificio che essa stava consumando, disposta ad offrire a Dio anche la sua anima. Pascasio replicò che essa doveva ubbidire agli imperatori come anche lui faceva. La santa rispose: “Io giorno e notte medito la legge divina e se tu ti dai da fare per piacere all’imperatore io cerco di piacere al mio Dio:  per questo ho a lui consacrato la mia verginità”. Pascasio allora sdegnato la ingiuriò dicendole che essa era la impurità in persona. La santa rispose: “No, tu sei la stessa impurità mentre corrompi le anime, allontanandole da Dio per servire il demonio, preferendo in modo sbagliato i beni della terra a quelli del cielo”. Pascasio replicò: “Ora che verremo ai tormenti, cesseranno le tue parole. E Lucia: “Non mancheranno mai le parole a chi serve Dio come ha promesso il Signore, dicendo che allora parlerà per noi lo Spirito Santo”. Dunque, ripigliò Pascasio, in te è lo Spirito Santo? E la Santa: “San Paolo ha detto che quelli che vivono castamente hanno lo Spirito Santo”. Allora, replicò il tiranno, io ti farò condurre al postribolo, perché ti lasci lo Spirito Santo. E Lucia: “Non  resta macchiato il corpo quando non c’è il consenso della volontà; anzi allora la violenza mi meriterà una doppia corona”. Pascasio poi le minacciò i tormenti più crudeli se non ubbidiva agli imperatori. La santa intrepida rispose: “Ecco il mio corpo pronto a soffrire ogni tormento; perché tardi? Comincia tu a fare ciò che ti suggerisce il demonio, tuo padre”. Allora Pascasio dato in furia ordinò che essa subito fosse condotta al lupanare per farle prima perdere l’onore della verginità e poi farla uccidere. Ma quando i ministri vollero condurla, non fu possibile smuoverla dal luogo dove essa stava, quantunque usassero tutte le violenze. Pascasio, vedendo ciò, esclamò: “Che prestigi sono mai questi?”. E la Santa: “Non sono questi, prestigi, ma è virtù di Dio”. Ed osservando Pascasio così furibondo soggiunse: “Perché tanto ti affliggi? Ecco tocchi con la tua mano che io sono tempio di Dio”. Ma Pascasio, più confuso ed infuriato, ordinò che si accendesse un grande fuoco intorno alla santa perché fosse bruciata. Essa non si spaventò affatto e rivolta al tiranno gli disse: “Io pregherò Gesù mio Signore perché il fuoco non mi offenda, affinché i fedeli riconoscano la divina potenza e gli infedeli restino confusi”. Ma gli amici di Pascasio lo consigliarono di farle tagliare la testa perché terminassero i prodigi. E così egli fece. Santa Lucia, postasi in ginocchio, offrì a Dio la sua morte e così consumò il suo martirio il 13 dicembre circa l’anno 304.

Santa Serapia vergine e Santa Sabina,
Santa Serapia era una fanciulla di Antiochia, nata da padri cristiani, che per la persecuzione passarono in Italia. Serapia, morti i genitori, a causa della sua rara bellezza fu chiesta in matrimonio dai più ragguardevoli romani. Essa che aveva deciso di non avere altro sposo che Gesù Cristo rifiutò tutte le nozze offerte e volle piuttosto mettersi come serva ad una dama romana chiamata Sabina, che, essendo giovane, era rimasta vedova. Sabina era pagana, ma Serapia appena dopo due mesi guadagnò il suo cuore e poiché essa era piena dello spirito di Dio ben presto convertì la sua padrona e la convinse a fuggire il tumulto di Roma e a ritirarsi in una delle sue terre che aveva nell’Umbria. Sabina infatti si ritirò nell’Umbria accompagnata non solo da Serapia ma anche da certe altre fanciulle cristiane che vollero seguirla. Quel luogo divenne poi un ritiro di sante. Ma essendosi rinnovata la persecuzione contro i cristiani, il governatore dell’Umbria chiamato Berillo, sapendo che in casa di Sabina vi erano molte fanciulle cristiane, comandò che tutte gli fossero condotte davanti. Sabina rifiutò di obbedire, ma Serapia confidando in Gesù Cristo, la pregò di permetterle di andare da sola a parlare con il giudice, sperando che il Signore l’avrebbe rincuorata. Sabina con gran pena glielo permise ma volle accompagnarla alla casa del governatore. Berillo l’accolse con onore sapendo del suo merito e le disse che si meravigliava che una persona della sua dignità si avvilisse a seguire la setta dei cristiani, persuasa da una maga: intendeva Serapia, avendo saputo che essa aveva convertito Sabina. Il governatore in un primo momento lasciò che Sabina si ritirasse nella sua casa con Serapia. Dopo pochi giorni fece prendere Serapia dai soldati. Sabina la seguì a piedi e usò tutti i mezzi per impedire che maltrattassero la sua cara Serapia. Berillo, per niente commosso, domandò a Serapia se voleva sacrificare agli dei. La santa giovane rispose che essa era cristiana e che non conosceva e non temeva se non il suo unico Dio e che si stupiva che le fosse proposto di adorare gli dei che non erano che demoni. Le rispose il giudice: “Almeno lasciami vederti sacrificare al tuo Cristo”. Serapia rispose: “Io notte e giorno gli sacrifico me stessa”. E quale sorta di sacrificio è questo, replicò Berillo, offrire te a questo Cristo? Disse la santa: “Questo sacrificio di una buona vita è il più gradito che io gli possa offrire”. Berillo per oltraggiarla la consegnò alla brutalità di due giovani infami; ma un angelo li spaventò, in modo che caddero a terra semi morti. Quando la Santa fu interrogata dal giudice con quale incanto avesse operato quel prodigio, rispose che gli incanti dei cristiani sono la preghiera e la fede in Dio, per cui egli li difende. Finalmente Berillo, pieno di rabbia, le disse: “Sacrifica ora a Giove o aspetta la morte”. Serapia rispose: “Questa minaccia mi consola tutta mentre mi stimo troppo felice di poter offrire la mia vita e il sangue al mio Dio”. Il prefetto, più irritato di prima, la fece battere crudelmente con i bastoni, ma scorgendola invincibile le fece allora subito tagliare la testa. Santa Sabina, informata del tutto, procurò di avere il corpo della santa e lo fece seppellire con onore dei funerali. Ritirandosi nella sua casa, desiderosa anch’essa di dare la vita per Gesù Cristo, dopo la morte della sua cara Serapia notte e giorno era in orazione, pregando Serapia  che le ottenesse il martirio. Presto ottenne la grazia perché Berillo, il quale aveva lasciato in libertà Sabina per il rispetto che le portava, fu rimosso dalla prefettura e gli successe Elpidio, il quale si fece chiamare Sabina e maltrattandola con ingiurie la mandò in prigione. Esultò essa di gioia entrando nel carcere e disse: “E’ possibile che io sia messa a parte con la mia Serapia della stessa corona che essa gode. Essa certamente mi ha ottenuto questa grazia”. Il giorno seguente Elpidio chiamò a sé  di nuovo Sabina e le disse: “Come? Tu ti sei avvilita a seguire i cristiani che si gloriano di essere mendicanti e disprezzano gli onori e la vita? Bisogna avere un animo molto vile per sposare un così vile partito”. La santa rispose: “Signore tu hai un’ idea falsa della religione cristiana e non conosci quanto sia nobile e eccellente. Non è viltà disprezzare i beni terreni per meritare quelli del cielo. Non è viltà pertanto l’essere cristiana: viltà, infamia ad una persona è inginocchiarsi davanti agli idoli, che non hanno altro pregio se non della materia di cui sono fatti e della mano che li ha formati”. Elpidio a questa risposta lasciò le ingiurie e con dolcezza le disse: “Gli imperatori adorano i nostri dei e anche tu devi adorarli; non mi costringere a trattarti con rigore”. Sabina rispose: “Signore tu puoi privarmi della vita ma non della mia fede, io non adoro che il vero Dio”. Elpidio alla fine la condannò a perdere la testa. La santa all’udire la sentenza disse: “Mio Dio ti ringrazio per la grazia che mi fai; raccomando nelle tue mani l’anima mia”. Detto ciò, il carnefice le troncò la testa. Il suo martirio avvenne il 29 agosto, nello stesso giorno in cui, un anno prima, era stata coronata Santa Serapia. Verso l’anno 430 furono trasportati in Roma i corpi di queste due sante, nella chiesa che fu allora costruita sul monte Aventino in onore di Santa Sabina.


Santi Giacomo, Mariano, e compagni
San Giacomo fu diacono e San Mariano lettore, ma non si sa di quale chiesa e quale fosse stata la loro patria. Andarono essi verso la Numidia e giunti ad un certo villaggio detto Muguas, poco distante dalla città di Cirta, ivi si fermarono. In quella provincia erano dappertutto perseguitati i cristiani. Il prefetto che la governava li odiava a tal punto che anche coloro che nelle passate persecuzioni erano stati condannati all’esilio, esso li richiamava per condannarli di nuovo. I nostri martiri si accorsero di essere qui vicini a conseguire il martirio che tanto desideravano. Mentre stavano a Muguas, passarono qui due santi vescovi, Agapio e Secondino che erano stati richiamati dal prefetto per giudicarli di nuovo. Questi buoni vescovi, partendo da là lasciarono Giacomo e Mariano molto animati a dare la vita per la fede. Passati due giorni vennero i soldati e avendoli presi li condussero prigionieri a Cirta. Alcuni buoni cristiani, vedendoli in catene li invidiavano e li animavano a stare forti. Accortisi di ciò, gli idolatri li interrogarono se erano cristiani. Quelli risposero di sì, per cui anch’essi furono incarcerati e conseguirono il martirio prima dei due santi. Essendo stati questi poi presentati ai magistrati di Cirta, Giacomo confessò con fortezza non solo di essere cristiano, ma anche diacono, benché sapesse che contro i diaconi era stata ordinata la pena di morte. Mariano poi fu posto ai tormenti, che furono molto acerbi. Fu sospeso in alto, legato non per le mani ma per le estremità delle dita. Questo gli procurava un dolore molto forte e in più gli furono attaccati ai piedi pesi molto gravi, così che gli restarono slogate le ossa e sconvolte le viscere. Ma il santo martire soffrì tutto con grande costanza ed insieme con Giacomo e compagni fu rimandato in carcere. Stando in quel carcere, Mariano fu consolato con la seguente visione, che egli poi narrò dicendo: “Ho visto un grande tribunale sopra cui vi era un giudice. Vi era un palco al quale si facevano salire diversi confessori, che poi da quel giudice venivano condannati a morte. Allora io salito sul palco vidi Cipriano vicino a quel giudice che mi stese la mano aiutandomi a salire e mi disse con un sorriso: “Vieni e siedi con me”. Poi il giudice si alzò e con noi ritornò al pretorio. Si passò per un luogo ameno circondato di tanti alberi ed in mezzo vi era una limpida fonte. Il giudice disparve e Cipriano prese una caraffa di quella acqua; la bevve e poi la porse a me e anche io ne bevvi con piacere e finì la visione. Giacomo, udendo questo racconto, si ricordò di un’altra simile visione avuta prima da lui ed entrambe significavano il loro vicino martirio. Dopo queste visioni, furono i santi presentati di nuovo ai magistrati per essere trasferiti al presidente della provincia, che si trovava in un altro luogo, dove molto presto furono trasportati i santi con altri cristiani. Trovarono qui il presidente occupato a risolvere le cause di altri cristiani, dei quali ne fece morire molti. A Giacomo comparve qui Agapio, uno di quei santi vescovi nominati sopra, il quale con la morte aveva già conseguito la corona. E in quella visione gli fu detto: “State allegri, perché domani sarete con noi”. E così infatti avvenne, poiché il giorno seguente il preside pronunciò la sentenza di morte contro Giacomo e Mariano e gli altri loro compagni, che da questa terra passarono a godere la vista di Dio. Per l’esecuzione della sentenza fu scelta una valle in mezzo alla quale scorreva un fiume, e la valle era circondata da colline. Poiché il numero dei condannati era grande, furono essi schierati in fila lungo la riva del fiume affinché il carnefice, passando, avesse potuto tagliare loro la testa l’uno dopo l’altro; e così i corpi morti fossero subito gettati nella corrente e agli spettatori fosse tolto l’orrore di vedere tanti cadaveri trucidati e stesi su quella riva. Stavano tutti i santi martiri con gli occhi bendati aspettando il colpo della morte. Parlando fra di loro alcuni dicevano di vedere nell’aria giovani ornati di candide stole sopra cavalli più bianchi della neve. Altri dicevano di non vedere tali cavalli ma di udirne il calpestio e i nitriti. S. Mariano disse di vedere la vendetta che Dio preparava a coloro che spargevano quel sangue innocente. Dopo che quei santi ebbero consumato il loro martirio, la madre di Mariano esultava di gioia nel vedersi madre di un martire e non si saziava di baciare il collo reciso del suo santo figliolo. Essa è lodata da Sant’Agostino e più lungamente poi dallo scrittore del martirio di questi santi, che fu testimone del loro combattimento ed anche compagno della loro prigionia. Questo martirio avvenne nell’anno 259.

 

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