4 BONOSO, MASSIMIANO, CIPRIANO, GIUSTINA, CIRIACO, CIRILLO, CRISOGONO, ANASTASIA, EPIDODIO, ALESSANDRO, EUPLIO, DIONISIA, FILEA, FILOROMO

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San Bonoso e Massimiliano
Regnava l’empio Giuliano Apostata nell’anno 361 e  aveva per principale ministro della sua empietà una altro Giuliano, suo zio materno, che, per compiacerlo, aveva anche lui apostato dalla fede. A costui, mentre risiedeva in  Antiochia come conte dell’Oriente, furono denunciati Bonoso e Massimiliano, che, essendo ufficiali dell’esercito, tenevano nei loro stendardi la figura della croce insieme col santo nome di Gesù Cristo. L’imperatore ordinava che negli stendardi tutte le figure fossero degli idoli. Perciò li mandò a chiamare e comandò loro che cambiassero quelle figure e venerassero gli dei. I due santi apertamente protestarono che non potevano fare né l’uno né l’altro. Allora il conte Giuliano sdegnato fece prima legare e battere crudelmente Bonoso con flagelli armati di piombo, sino a trecento e più colpi. Mentre Bonoso stava soffrendo i flagelli,  il conte gli fece più domande. Il santo però tacque per lungo tempo, ma finalmente disse: “Noi adoriamo il vero Dio e non sappiamo chi siano quegli dei che voi adorate. Giuliano si rivolse a Massimiliano il quale gli diede le stesse risposte di Bonoso e aggiunse: “Se volete che adoriamo i vostri déi, fate prima che essi diventino capaci di udire e di parlare, poiché ci è proibito di adorare dèi sordi e muti. Il conte, montato in maggiore furia, pose ambedue i santi nel tormento dell’eculeo e poi, scorgendoli sempre allegri e tranquilli, li fece gettare in una caldaia di pece bollente; ma da quella essi  uscirono senza lesione; solo ne contrassero alcuni segni, che servivano per testimonianza del tormento sofferto. Gli idolatri, secondo il solito, tacciarono i santi di magia, ma il prefetto del pretorio, Sallustio, benché gentile volle vedere il prodigio con i propri occhi e trovò nel tempio che i martiri stavano nella caldaia e che essi lodavano Dio come se fossero in un bagno di acqua fresca. Sorpreso dallo stupore disse a Giuliano che bisognava fare una simile prova sopra i sacerdoti degli dei. Se quel prodigio era opera del demonio gli dei dovevano per loro onore difendere anche i loro sacerdoti, come il Dio dei cristiani aveva difeso i suoi servi. Il conte, non osando contraddire, consegnò i sacerdoti pagani al prefetto. Questi li fece gettare nella caldaia; subito rimasero arsi. Il tiranno ordinò ai custodi della prigione che non dessero ai nostri santi altro pane all’infuori di quello che era formato con una certa figura idolatrica. I santi martiri dissero di voler piuttosto morire che cibarsi di quel pane. Nel frattempo il conte Ormisda, che era fratello del re Sapore e stava da molto tempo ritirato nell’impero romano, sin da quando vi regnavano gli imperatori Costantino e Costanzo, essendo egli buon cristiano volle per sua devozione visitare i nostri santi. Maggiormente sdegnato da questa visita Giuliano intimò ai due santi che se non mutavano fede li avrebbe esposti alle fiere. Rispose Bonoso: “Noi abbiamo Dio con noi, onde non temiamo né gli uomini né le fiere”. E Giuliano aggiunse che li avrebbe fatti bruciare vivi in una fornace. Allora i cristiani presenti gli dissero in faccia che anche loro volevano essere compagni del martirio dei nostri santi. E Giuliano allora, temendo qualche tumulto, fece in modo che il prefetto Sallustio subentrasse a lui per tormentare di nuovo i santi. Ma il prefetto rifiutò di assumersi questo ufficio; anzi, quantunque egli fosse pagano, pregò Bonoso di pregare il suo Dio per lui. Alla fine Giuliano condannò Bonoso e Massimiliano insieme con altri cristiani carcerati ad essere decapitati. Andarono tutti al martirio con gioia e vi furono accompagnati in trionfo da San Elesio, vescovo di Antiochia, e da molti altri cristiani che si rallegravano con i nostri martiri della loro felice sorte. Consumarono così il loro sacrificio. Dopo tre giorni dalla loro morte il conte Giuliano fu preso da una orribile malattia, che gli infettò le viscere in modo che non faceva altro che vomitare un mucchio di vermi dalla bocca. In mezzo a quegli acerbi  dolori  egli stesso infine, benché senza frutto, riconobbe essere effetto della divina vendetta. Poco dopo disperatamente morì.
San Cipriano e Santa Giustina
Cipriano fu nativo di Antiochia nella Siria, di una famiglia nobile e ricca ma pagana, per cui lo allevarono nelle superstizioni dei falsi dei, specialmente nell’arte magica. Poiché Cipriano era di molto talento, divenne il mago più famoso della Grecia. Essendosi egli pertanto fatto amico così familiare con i demoni, non vi fu abominazione che egli non abbracciasse. Giungeva sino a svenare i fanciulli per offrire il loro sangue ai demoni e fece questa vita empia sino all’età di trenta anni; ma allora Dio lo chiamo a sè. Il fatto avvenne così. In Antiochia vi era una fanciulla chiamata Giustina, la quale, benché i suoi genitori fossero Gentili, tuttavia, avendo udito una predica, abbracciò la fede cristiana e  da allora consacrò a Gesù Cristo tutta se stessa con la sua verginità. Era essa di una rara bellezza, per cui un giovane chiamato Aglaide , essendone preso, usò tutti i modi per averla, ma ella sempre lo rifiutò. Il giovane ricorse a Cipriano affinché con i suoi incantesimi gliela guadagnasse. Cipriano adopererò tutta la sua scienza ma nulla ottenne. Scrive San Gregorio che i demoni posero tutte le loro forze per farla cadere, ma la santa si raccomandava alla divina madre e così restava sempre forte a resistere. Cipriano rimproverava al demonio come egli non potesse vincere una fanciulla, ma il demonio rispose che quella giovane era difesa dal Dio dei cristiani e per ciò stesso non poteva vincerla. Cipriano udendo ciò disse: poiché questo Dio dei cristiani è più potente di te, a questo Dio io voglio servire da oggi in avanti. Passò a trovare un suo amico sacerdote di nome Eusebio. Questo gli diede coraggio contro le tentazioni di disperazione che il demonio gli dava per tante scelleratezze commesse. Così Cipriano da un mostro d’inferno diventò un santo cristiano, in modo che convertì molti idolatri. Asserisce un autore come cosa certa che, morto il vescovo di Antiochia, fu eletto Cipriano a tenere quella sede. Allora Diocleziano informato della santità di Cipriano e nello stesso tempo di quella della vergine Giustina, li fece ambedue prendere dal governatore della Fenicia chiamato Eutolmo, il quale, trovandoli nella fede, fece flagellare santa Giustina e fece lacerare San Cipriano sino alle ossa con uncini di ferro. Quindi li mandò in prigione divisi l’una dall’altro. Vedendo che dopo tutti i mezzi usati per farli prevaricare non otteneva nulla, li fece immergere ambedue in una caldaia di pece bollente. Ma i due santi restarono illesi da quel supplizio. Il giudice mandò i martiri a Diocleziano che subito li fece decapitare e ciò avvenne il 26 settembre. Le loro reliquie furono portate a Roma, dove una donna devota chiamata Ruffina fece fabbricare una piccola chiesa, da dove poi furono trasportate nella Chiesa di S. Giovanni in Laterano.


San Ciriaco, Largo, e Smeraldo
L’imperatore Diocleziano ebbe la vanità di fabbricarsi un palazzo che fosse una meraviglia del mondo. Per essere questa gran costruzione in Roma, fece collocare qui i famosi bagni, che furono poi chiamati le terme di Diocleziano: sino ad oggi se ne vedono in Roma i resti. Avendo poi questo imperatore un odio viscerale contro i cristiani, per cui desiderava e cercava di farli tutti morire nei modi più barbari che sapeva inventare la sua crudeltà, fra gli altri strazi con cui si diede ad affliggere i fedeli, pensò di obbligarli a faticare nella costruzione di questo suo palazzo. Si vide radunato colà un gran numero di servi di Dio a trascinare le pietre, a cavare l’arena, a portare la calce e l’acqua. Poiché era sua intenzione di farli morire tutti, si costringevano tutti a faticare senza riposo e senza cibo sufficiente a sostentarsi. Un certo signore romano chiamato Trasone, molto ricco, e cristiano nascosto, avendo compassione di quei confessori di Cristo, pensò di soccorrere loro per mezzo di tre zelanti cristiani suoi amici, Ciriaco, Largo e Smeraldo. Questi tre santi provvedevano ai loro bisogni e nello stesso tempo li incoraggiavano a patire per Gesù Cristo. Il Papa S. Marcellino, informato della loro virtù, volle ordinare san Ciriaco diacono, affinché potesse meglio provvedere ai bisogni dei fedeli. Un giorno quei santi furono trovati dai pagani, carichi di viveri che portavano ai cristiani. Furono arrestati ed anch’essi condannati a faticare nella fabbrica. Essi ben si distinsero allora fra tutti nell’aiutare e sollevare i più deboli. Perciò essendo stati denunciati a Massimiano, compagno di Diocleziano, questi che non era meno crudele di lui, li fece prendere e chiudere in un carcere dove il Signore per loro mezzo operò molti prodigi. Fra gli altri, vi fu quello che alcuni ciechi, essendo ricorsi a Ciriaco, egli con il segno della croce restituì loro la vista. Quindi si mossero molti infermi a venire in quella prigione e tutti restarono guariti, non solo nel corpo ma anche nell’anima. I nostri santi in quella occasione non lasciarono di indurli ad abbracciare la fede cristiana e così ne convertirono molti. La fama dei tanti miracoli essendosi sparsa nella corte, vi fu una figlia di Diocleziano chiamata Artemia, la quale era molto maltrattata da un demonio, che la possedeva e diceva che non poteva essa esserne liberata se non per mezzo del diacono Ciriaco. L’imperatore, costretto dal grande amore che portava alla sua figlia, si indusse a far chiamare Ciriaco dal carcere. Questi, pregato di liberare quella principessa, comandò al demonio di uscire da quel corpo. Rispose il demonio: Ubbidisco, perché non posso resistere alla potenza di Gesù Cristo, ma andrò alla corte del re di Persia. Replicò San Ciriaco: tutto riuscirà a gloria di Cristo e a tua confusione. Fu subito liberata la fanciulla che manifestò la volontà di essere cristiana. Intanto la figlia del re di Persia, chiamata Giobia si trovava allora invasata dallo stesso demonio e quella si pose a esclamare di non poter essere liberata se non dal diacono Ciriaco che stava a Roma. Il re mandò subito un ambasciatore a pregare Diocleziano che subito gli mandasse Ciriaco. Diocleziano glielo mandò insieme con i suoi amati compagni. Giunti in Persia, Ciriaco disse al re che, per vedere sua figlia liberata come desiderava, era necessario che egli credesse in Gesù Cristo. Il re promise tutto e la fanciulla restò libera. Il principe e la figlia ricevettero il battesimo con quattrocento pagani. Il re avrebbe voluto che i nostri santi rimanessero in Persia ma essi vollero far ritorno a Roma dove speravano il martirio. Ritornati i santi in Roma si diedero a confortare e a soccorrere i cristiani perseguitati. Diocleziano li tollerava, ma essendo poi egli  andato lontano da Roma, Massimiano, pieno di odio contro i fedeli, fece arrestare i nostri santi. Fece loro intimare da Carpasio, suo ministro, che essi dovevano sacrificare agli dei o essere agli dei sacrificati. I santi rigettarono con orrore queste parole e San Ciriaco allora disse: “Come possiamo sacrificare agli dei che sono demoni dell’inferno?”. Carpasio gli fece versare pece bollente sul capo. Il santo soffrì quel tormento con pace, anzi si mise a lodare Gesù Cristo. Il giudice per la rabbia lo fece poi stendere sul cavalletto e flagellare con i bastoni. In quel mentre San Ciriaco disse che ringraziava Gesù Cristo, che lo faceva degno di patire per la sua gloria. Massimiano, vedendo che nulla avrebbe ottenuto con quei santi eroi, li fece subito decapitare con altri venti martiri il giorno 16 marzo dell’anno 303. I loro corpi furono sotterrati in un luogo vicino al loro supplizio nella strada del sale denominata via Salaria. Poco dopo furono trasportati da S. Marcello papa in una terra appartenente a Lucina, dama cristiana, nella strada di Ostia.

San Cirillo fanciullo
In Cesarea vi fu San Cirillo, che essendo fanciullo, per essere lui cristiano fu dal padre idolatra maltrattato e anche cacciato di casa. Il giudice, sapendo ciò chiamò a sè Cirillo e intendendo egli stesso che pronunziava il nome di Gesù, gli disse che se prometteva di non nominarlo più l’avrebbe fatto riprendere in casa dal padre. Il santo fanciullo rispose: “Io sono contento di essere cacciato dalla mia casa perché ne avrò un’altra più grande nel cielo, nè ho paura della morte poiché essa mi acquista una vita migliore”. Il giudice, per intimorirlo, lo fece legare come se fosse condotto alla morte, ma con ordine segreto al carnefice che non lo offendesse. Cirillo fu portato vicino ad un grande fuoco e qui fu minacciato di essere gettato dentro, ma egli si dimostrò pronto a perdervi la vita. Dopo ciò fu richiamato dal giudice che gli disse:
“Figlio mio hai visto il fuoco? Abbandona la fede cristiana se vuoi rientrare in casa di tuo padre e godere dei suoi beni”. Rispose Cirillo: “Io non temo il fuoco né la spada e sospiro una casa più desiderabile e ricchezze più durevoli di quelle di mio padre. Dio è colui che mi deve ricevere. Affrettati tu a farmi morire perché io presto vada a trovarlo”. I circostanti piangevano nel sentirlo così parlare, ma egli diceva loro: “Voi dovreste non piangere ma rallegrarvi ed animarmi a patire per andare così a quella casa che desidero”. E stando costante in questi sentimenti soffrì con gioia la morte.

San Crisogono e Santa Anastasia vedova
San Crisogono, di cui si fa menzione nel canone della messa, fu sacerdote romano. Di questo santo martire non vi sono gli atti. Quanto ne sappiamo è tratto dagli atti del martirio di Santa Anastasia, della quale la Chiesa celebra la festa il 25 dicembre e anche il suo nome è posto nel canone della messa. Da questi atti pertanto si sa che san Crisogono, ardendo il fuoco della persecuzione, dimorava in Roma ove dava grandi esempi di pietà, passava la notte negli oratori sotterranei e di giorno visitava le case dei fedeli per confermarli nella fede. Faceva anche a Roma sempre nuove conversioni di genti. Tra i suoi discepoli egli ebbe anche Santa Anastasia, dama romana e figlia di Pretestato, che era pagano, uomo nobile e ricco. Sua madre era cristiana e la fece battezzare dalla culla e la allevò segretamente nella religione in cui la Santa fece grandi progressi. San Crisogono, che tanto si affaticava per giovare ai cristiani nella tempesta mossa dall’imperatore Diocleziano, non poté stare a lungo nascosto. Fu accusato al prefetto di Roma come il maggior nemico degli dei e degli editti imperiali. Pertanto fu arrestato e messo in una prigione che trovò piena di fedeli. Fra questi vi era la sua discepola diletta Anastasia, di modo che in quel carcere ebbe maggior possibilità di istruirla nelle sante virtù e di animarla a patire per la fede. Santa Anastasia era così accesa d’amore divino che quando stava fuori dal carcere era tutta dedita a consolare i cristiani, a soccorrerli, a dare loro coraggio per resistere ai nemici della fede. Soprattutto si adoperava a sollevare quei cristiani che stavano in prigione. Allorché seppe che San Crisogono stava in carcere, essa corse alla prigione e si stimò fortunata di poterlo aiutare in quelle angustie. Era già più di un anno che San Crisogono stava in carcere, dove non faceva altro che animare e istruire quei fedeli compagni delle sue catene. Poiché nella prigione vi erano anche molti idolatri, il santo ebbe la consolazione di convertirne molti. Per questo molto lo aiutò Santa Anastasia, che con le sue opere di carità, sollevando quei miseri, cooperava molto alla loro conversione. Bisogna  sapere che essa ebbe per marito un nobile romano, Publio, che era pagano. Egli amava molto sua moglie, ma quando si accorse dai santi suoi comportamenti che essa era cristiana, da marito le diventò nemico. Per questo la chiuse nella sua casa e la trattò da schiava. Santa Anastasia invece di dolersi di questi maltrattamenti ne godeva, pensando che pativa per amore di Gesù Cristo. Si affliggeva soltanto di vedersi chiusa la via per assistere i fedeli, che languivano nelle carceri. Scrisse a San Crisogono e lo pregò di ottenerle da Dio o che il marito si convertisse o che fosse tolto dal mondo, se voleva continuare la vita scellerata che faceva. San Crisogono le rispose di avere pazienza e di non dubitare, perché il Signore presto l’avrebbe consolata. Questa lettera diede nuovo coraggio alla santa di soffrire la crudeltà che il marito accrebbe verso di lei. La chiuse più strettamente e raddoppiò gli strazi verso di lei, talmente che essa credette di finire la vita in quel suo carcere, mentre il marito le faceva mancare anche il pane per sostentarsi. Scrisse di nuovo al santo direttore di raddoppiare per lei  le preghiere, perché il Signore la facesse morire in sua grazia e il santo le rispose che Gesù Cristo permetteva tutto ciò perché l’amava molto; perché si preparasse a soffrire maggiori sofferenze per la sua gloria. E in effetti così avvenne, perché Publio, suo crudele marito, andando come ambasciatore al re di Persia per ordine dell’imperatore, lasciò ai suoi ministri l’incombenza di trattare sua moglie nel tempo della sua assenza in modo che al suo ritorno senz’altro gliela facessero trovare morta. Ma Dio dispose tutto l’opposto, poiché egli miseramente morì nel suo viaggio e la santa restò liberata dalla sua tirannia. Perciò avendo essa recuperato i suoi beni cominciò di nuovo a aiutare i fedeli e specialmente quelli che stavano in prigione. Intanto erano già due anni che San Crisogono stava in prigione, dove non cessava di assistere i suoi fratelli e di convertire molti idolatri che gli capitavano. Essendo Diocleziano informato di questo, ordinò che gli fosse condotto il santo in Aquileia, dove egli allora dimorava. Presentato che gli fu innanzi san Crisogono, egli cercò di guadagnarlo in tutti i modi e con grandi offerte, sino ad offrirgli la prefettura di Roma; ma il santo rispose che egli non conosceva di poter avere altro onore se non quello che si trova nel servire il vero Dio e che non gli era cara la vita se non per offrirla in sacrificio a Gesù Cristo. Al contrario la religione dell’impero non era altro che un miscuglio di favole, che meritavano non venerazione ma disprezzo. Diocleziano per tali parole dato in furore, ordinò che subito in quel luogo solitario gli fosse troncata la testa; e l’ordine fu eseguito il 24 novembre dell’anno 303. In questo giorno viene celebrata la sua festa in quasi tutto l’Occidente. Il corpo del Santo fu gettato in alto mare ma nel giro di due giorni fu trovato sulla spiaggia da un santo sacerdote chiamato Zailo, che lo sotterrò piamente nella cantina di casa sua. Dopo trenta giorni apparve il santo e l’assicurò che presto avrebbe ricevuto il premio della sua carità. Veniamo ora al martirio di Santa Anastasia. L’imperatore ordinò che dopo la morte di San Crisogono gli fossero condotti tutti i i santi confessori, che stavano nelle prigioni di Roma, per farne un macello. Santa Anastasia, avendo inteso l’ordine di Diocleziano, andò subito ad Aquileia per assistere quei suoi perseguitati fedeli. Venendo poi trasportati in Macedonia molti di quei confessori insieme con Agapia, Chionia, ed Irene, destinate al martirio, li volle accompagnare qui per assisterli come meglio poteva, come già fece, ottenendo con denari dalle guardie la libertà di andare a soccorrere i suoi prigionieri. Essa aveva già in segreto venduto quanto possedeva, onde ebbe modo di dare loro grandi elemosine. Un giorno andò al carcere e lo trovò vuoto, perché l’imperatore aveva già dato la morte a quei santi carcerati. Per questo si mise a piangere dirottamente. Essendole stato chiesto da alcuni della corte perché piangesse, rispose: “Piango perché ho perso i miei fratelli fatti crudelmente morire”. Dopo ciò fu subito presa e presentata a Floro prefetto della Illiria. Il prefetto avendo inteso che era la vedova di Publio, favorito dall’imperatore e già morto nel viaggio in Persia, come abbiamo detto sopra, le parlò prima con molto rispetto e si affaticò a persuaderla che abbandonasse la sua fede. Vedendo dalle risposte della santa che perdeva tempo la mandò dall’imperatore. Diocleziano, vedendo la vedova del suo favorito, prima di tutto le domandò , da avaro, cosa ne avesse fatto delle sue ricchezze. La santa rispose che le aveva date tutte ai poveri ed ai cristiani perseguitati così ingiustamente. L’imperatore benché irritato da questa risposta continuò a parlarle con dolcezza perché abbandonasse una religione proibita per tutto l’impero. La santa di nuovo gli rispose con fortezza. L’imperatore allora la rimandò a Floro e Floro la sottopose a Uppiano, pontefice del Campidoglio, perché la riconducesse alla culto degli dei. Uppiano fece di tutto per persuaderla, ma non ritrovandone frutto le disse: “Orsù, ti do tre giorni per pensarvi. Rispose santa Anastasia: “Tre giorni sono troppi; fa’ come siano già passati; io sono cristiana e desidero morire per amore di Gesù Cristo e non avrai da me altra risposta. Uppiano la diede in custodia a tre donne, perché la facessero abiurare, ma quelle nulla ottennero. Uppiano, nonostante ciò, volle continuare a provocarla, anzi ebbe la sfacciataggine di prendersi qualche licenza immodesta. Ma di ciò fu punito da Dio, perché subito divenne cieco ed ebbe poi violente convulsioni, che, in un’ora, gli tolsero la vita. Floro, sdegnato per la morte di Uppiano, fece chiudere la santa in prigione con l’ordine di farla morire di fame. Il Signore, prodigiosamente, la mantenne in vita. Il prefetto non volendo sporcarsi le mani del suo sangue la fece mettere in una barca tutta forata insieme con centoventi idolatri condannati alla morte. La barca subito si riempì d’acqua ma non affondò e andò ad approdare sulla spiaggia. Questo miracolo fece convertire tutti quegli idolatri che poi ebbero la sorte di morire martiri per Gesù Cristo. Santa Anastasia fu poi trasportata all’isola di Palmarola, condannata ad essere qui bruciata viva. Così consumò la santa il suo martirio attaccata ad un palo in mezzo alle fiamme. Una dama cristiana ottenne il suo corpo e lo seppellì con onore vicino a Zara in Dalmazia. Sotto Leone imperatore, verso l’anno 460, le sue reliquie furono portate a Costantinopoli e collocate qui nella celebre Chiesa della risurrezione detta  Anastasia. Questa prima servì di cattedrale a San Gregorio di Nazianzio, ma fu poi bruciata al tempo di S. Giovanni Crisostomo. Di Santa Anastasia la Chiesa celebra la festa il 25 dicembre, il giorno della nascita di nostro Signore, per cui nella seconda messa si fa ricordo di questa santa.

San Epidodio e San Alessandro
Era Epidodio nativo di Lione ed Alessandro greco di origine ed erano ambedue di famiglie illustri. Avevano essi sin dalla giovinezza contratto nelle scuole una stretta amicizia, che sempre più era cresciuta con l’esercizio delle virtù da essi esercitata nella religione cristiana, in cui furono allevati dai loro genitori. Si trovavano pertanto quei santi nel fiore degli anni e sciolti dai legami di matrimonio quando incrudeliva la persecuzione dell’imperatore Marco Aurelio contro i cristiani, specialmente a Lione, dove la strage dei fedeli fu così grande che i Gentili credevano di aver estinto qui la religione cristiana. In questo tempo Epidodio e Alessandro, per tradimento di un loro domestico, furono denunciati come cristiani al prefetto, il quale comandò che fossero presi. Essi, avendo saputo di un tale ordine, secondo il consiglio evangelico, lasciarono la città e si rifugiarono nel tugurio di una povera vedova cristiana in un villaggio e qui stettero nascosti per qualche tempo. Poi furono trovati ed arrestati. Dopo tre giorni, con le mani legate furono presentati al prefetto, al quale  confessarono di essere cristiani. Gli idolatri allora subito gridarono e chiesero che fossero martirizzati. Il giudice cominciò a dire loro: “Dunque ancora persiste la temerarietà dei cristiani nel disprezzare gli dei e gli editti dei principi? Abbiamo castigato con la morte tutti questi temerari lasciando insepolti i loro corpi eppure ancora si parla di Cristo? Quale ardire è il vostro nel voler professare una religione vietata dagli imperatori? Presto ne pagherete la pena!”. Mandò quindi Alessandro al carcere e fece restare Epidodio, che era più giovane, credendo più facile  farlo rinnegare. Prima gli parlò con piacevolezza dicendogli: “E un peccato che tu essendo giovane voglia perire perseverando in questa falsa setta. Noi adoriamo gli dei che sono adorati da tutti i popoli e specialmente dai nostri principi. Il culto che rendiamo loro ci fa condurre una vita allegra in giochi e piaceri. Voi cristiani adorate un uomo crocifisso, che ama vedere i suoi seguaci afflitti dalle penitenze e lontani dai piaceri. Ma quali beni può dare ai suoi servi uno che non ha potuto difendersi dalla morte che gli hanno dato i Giudei? Lascia, figlio mio, questa setta e godi anche tu i piaceri che godiamo noi”. Epidodio rispose: “La pietà che tu dimostri verso di me è una vera crudeltà, poiché vivere come vivete voi altri è lo stesso che morire eternamente. Al contrario morire seguendo Gesù Cristo è il maggior bene che si possa desiderare. Tu sai che Cristo è morto crocifisso ma non sai che è risorto, essendo Dio e uomo, e ha così aperto la via ai suoi servi per condurli dopo questa misera e breve vita a regnare in cielo eternamente. Tu non intendi le verità della fede cristiana, ma ben puoi intendere che i piaceri del corpo non possono accontentare l’anima nostra, che è creata da Dio per la vita eterna. Noi neghiamo al corpo i diletti della terra per salvare l’anima che è eterna. Tu credi che con il finire la vita presente finisca ogni cosa, ma noi crediamo che terminando la vita presente, così piena di miserie, passiamo a godere una vita felice che non finisce mai”. Il prefetto, benché fosse stato alquanto commosso da quel discorso, tuttavia lasciando libero sfogo alla sua rabbia ordinò ai ministri che percuotessero la bocca del santo con pugni. Il santo, con la bocca che mandava sangue, disse allora con coraggio: “Io confesso essere Cristo  col Padre e con lo spirito Santo un solo e vero Dio. È cosa giusta che io renda l’anima a colui che ne è stato il Creatore e Redentore. Così non perdo la vita, ma ne acquisto una molto migliore. Poco poi m’importa in quale modo si sciolga questa macchina del mio corpo, purché l’anima mia vada in cielo e ritorni a chi me l’ha data. “Mentre così parlava, san Epidodio, per ordine del giudice, fu posto all’ eculeo sul quale due carnefici gli lacerarono i fianchi con uncini di ferro. Inoltre il popolo chiedeva di avere il santo per farlo morire lapidato. Per questo il prefetto, temendo che il popolo furioso glielo togliesse dalle mani con disprezzo della sua autorità, gli fece subito tagliare la testa e così presto il santo giovane conseguì la corona. Morto San Epidodio, il giudice si fece presentare il suo compagno Alessandro e gli disse: “E’ ancora in tuo potere evitare la morte data agli altri. Io penso che tra i cristiani tu solo sei rimasto. Se vuoi salvare la tua vita, devi onorare e sacrificare ai nostri dei”. Alessandro, fatto più coraggioso dal martirio del suo compagno, rispose: “Io ringrazio Dio che mentre tu mi ricordi la morte dei miei fratelli, mi confermi con i loro esempi nel desiderio di imitarli. Forse tu pensi che, essendo essi  morti, siano morte anche le loro anime? No, sappi che esse ora possiedono il cielo. Ti inganni se credi di estinguere la fede cristiana, la quale è stata da Dio fondata in modo tale che con la morte dei fedeli essa più si propaga. Quelli che tu credi di aver tolto dal mondo ora godono i beni del cielo e li godranno in eterno. Al contrario tu con i tuoi dèi sarai un giorno gettato nel fuoco dell’inferno a penare in eterno. Io sono cristiano come il mio caro fratello Epidodio che regna nel cielo, fa’ del mio corpo quel che ti piace, perché l’anima mia sarà accolta da quel Dio che me l’ha donata”. A queste parole infuriato il prefetto comandò a tre carnefici che crudelmente battessero il santo, il quale implorando in quei tormenti il divino aiuto soffrì tutto con costanza. Il giudice, vedendo che dopo la lunga carneficina del corpo il santo  non si arrendeva per nulla, gli chiese se era ancora ostinato nel suo proposito. Alessandro rispose: “Io non cambierò mai il mio proposito perché di quello ne è custode un Dio onnipotente a differenza dei tuoi dei che non sono altro che demoni”. Ripigliò il prefetto e disse: “I cristiani sono così pazzi che credono di acquistarsi gloria con le loro pene e perciò bisogna che costui sia punito come merita”. Ordinò che  fosse posto in croce e ciò fu subito eseguito. E così, presto, Alessandro consumò il suo martirio, poiché il suo corpo era stato talmente lacerato che gli comparivano scoperte le interiora. Poco sopravvisse sul patibolo e andò a ricevere il premio dei suoi patimenti. Il martirio di questi due santi si crede avvenuto nel mese di aprile dell’anno 178. I loro sacri corpi furono prelevati dai cristiani segretamente e nascosti nello scavo di una collina, che poi divenne famosa per molti miracoli operati in occasione di una peste, che  dopo la morte dei santi afflisse la città di Lione.

San Euplio
Si aggiunge qui il martirio di questo santo diacono Euplio, che ottenne la palma in Sicilia sotto la stessa persecuzione di Diocleziano e Massimiano. Euplio nell’atto stesso che stava leggendo il Vangelo nella città di Catania fu arrestato e subito fu presentato con il libro dei Vangeli in mano al governatore chiamato Calvisiano, il quale gli domandò, se quegli scritti  li avesse portati dalla sua casa. Rispose il Santo: io non ho casa, li ho portati con me e con essi sono stato ritrovato. Il giudice gli impose di leggerne qualche passo ed egli lesse due testi: beati quelli che sono perseguitati per la giustizia, e l’altro: chi vuole venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua. Disse il giudice: “Cosa vuol dire ciò? Ed Euplio: Questa è la legge di Dio che mi è stata data. E  da chi? Aggiunse il giudice. Da Gesù Cristo, replicò il Santo, figlio di Dio vivo. Giacché  dunque confessi di essere cristiano disse Calvisiano io ti consegno ai carnefici perché ti mettano alla tortura. Stando poi il santo alla tortura l’interrogò Calvisiano: “Che  dici ora della tua confessione fatta? E il santo: “Quello che ho detto prima, lo dico anche ora: io sono cristiano”. Ma perché, disse il giudice, non hai consegnato quelle carte come comandano gli imperatori?”. Rispose: “Perché sono cristiano e sono pronto  a morire piuttosto che a consegnarle. In quelle vi è  la vita eterna e chi le consegna la perde”. Il tiranno lo fece di nuovo mettere fra i tormenti ed Euplio, stando fra quelli, diceva: “Ti ringrazio, Gesù Cristo mio Dio; io per te patisco, tu custodiscimi”. Disse il giudice: ”Adora gli dei, sarai liberato. E il santo rispose: “Adoro Cristo e detesto i demoni. Fa’ quel che vuoi, aggiungi i tormenti: io sono cristiano”. Dopo che il santo fu torturato per lungo tempo, il giudice gli disse: “Misero, venera i nostri dei, adora Marte, Apollo e Esculapio”. Il santo rispose: “Adoro il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, unico Dio, fuori di cui non vi è altro Dio e periscano gli dei. Io sacrifico a Dio me stesso e non mi resta altro da fare”. Calvisiano lo fece mettere ai più crudeli tormenti ed  Euplio fra quelli ripeteva: “Ti ringrazio mio Signore, Gesù Cristo; io per te patisco, tu soccorrimi”.  Pronunciava queste parole solo con le labbra, mentre il dolore dei tormenti gli faceva mancare la voce e le forze. Vedendo finalmente Calvisiano la costanza del santo, lesse la sentenza che lo condannava a perdere la testa. Allora fu appeso al collo di Euplio il libro dei Vangeli e mentre il santo andava alla morte un banditore precedendolo gridava: “E’ Euplio cristiano, nemico degli dei e degli imperatori”. Ma il santo non cessava nel cammino di ringraziare Gesù Cristo. Giunto al luogo del supplizio, posto in ginocchio, fece questa preghiera: “Signore mio, Gesù Cristo, ti ringrazio della forza che mi hai dato per confessare il tuo santo nome. Porta a compimento l’opera, perché i nemici restino confusi”. E rivolto verso il popolo che l’aveva seguito, disse: “Fratelli miei, amate Dio con tutto il cuore mentre egli non sa scordarsi di coloro che lo amano; se ne ricorda mentre vivono e se ne ricorda nella loro morte; e manda loro i suoi angeli per condurli alla patria celeste”. Dette queste parole, presentò il collo e fu decapitato  il 12 agosto. I cristiani presero il suo corpo, lo imbalsamarono e con onore lo seppellirono.

San Filea e san Filoromo
Tra i molti martiri dell’Egitto e della Tebaide sono degni di speciale lode i santi Filea e Filoromo per la loro nobiltà e per il credito che avevano nelle loro patrie, come narra Eusebio. Filoromo godeva una carica considerevole in Alessandria con cui rendeva pubblica giustizia. Filea aveva altresì amministrato le prime cariche della città di Imuis nell’Egitto. Egli era nato nel paganesimo ed aveva preso moglie e aveva più figli, che erano ancora pagani quando il santo diede la vita per Cristo. Egli si convertì in età già avanzata, ma il Signore lo riempì di  tanta virtù che meritò di essere fatto vescovo della sua patria. Abbiamo una sua lettera, che egli, essendo vescovo, scrisse al suo popolo mentre stava in prigione ed era vicino a consumare il suo martirio. In questa prigionia fece conoscere lo zelo che aveva per il suo gregge, anche se era vicino alla morte. Qui procurò di dar coraggio a quei fedeli di soffrire volentieri ogni pena per amore di Gesù Cristo, piuttosto che venir meno alla fede. Portava l’esempio di tanti che, tenendo gli occhi fissi in Dio, andavano con gioia incontro alla morte, sapendo che Gesù Cristo ben sapeva confortare i suoi servi sino a far loro conseguire la vita eterna. Per questo li esortava a confidare nei meriti di Gesù Cristo, tenendo sempre davanti agli occhi la sua passione e il premio eterno che egli promette a chi è costante nel confessarlo. Poco dopo che ebbe scritto  questa lettera fu condotto dinanzi a  Culciano, prefetto dell’Egitto, il quale avendo davanti Filea e Filoromo li esortò ad avere pietà di loro stessi ed anche delle loro mogli e dei figli. Si unirono a questi per convincerli molti dei loro parenti e amici di Alessandria. Tutti questi tentativi di  persuasione non indebolirono la loro costanza, cosicché stando Filea sul palco ed interrogato dal prefetto perché non volesse rientrare in se stesso e rinsavire disse: “Io non ho mai perduto il senno”. Dunque, riprese Culciano, sacrifica agli dei. Ma a questa richiesta Filea rispose sempre che egli non sacrificava a più dei ma ad un solo Dio. Replicò il prefetto che egli doveva sacrificare secondo la sua coscienza per non vedere il danno di sua moglie e dei suoi figli. Rispose Filea: “La coscienza mi obbliga a preferire Dio ad ogni cosa, dicendo la Scrittura: “Amerai  sopra tutte le cose il tuo Dio, che ti ha creato”. Quale Dio? disse Culciano. E il Santo stendendo le mani verso il cielo: “Quel Dio che ha creato il cielo e la terra e sussiste eternamente per tutti i secoli”. Culciano passò a chiedergli se Cristo era Dio. Rispose Filea: “Sì, certamente perché egli ha dato la vita ai morti e ha fatto molti altri miracoli. Ma come! disse Culciano, un dio è stato crocifisso? Si, replicò Filea, è stato crocifisso per la nostra salvezza. Egli per noi ha voluto soffrire la morte e tante ingiurie e tutte queste cose erano state predette nelle Sante Scritture. Se qualcuno vuol avere chiarimenti, si faccia avanti e conoscerà la verità. E poi gli disse che la grazia che da lui desiderava era che si servisse della sua autorità ed eseguisse gli ordini che aveva. Dunque, replicò Culciano, tu vuoi morire così senza ragione? E Filea: “Non senza ragione, ma per Dio e per la verità”. E Culciano gli disse: “Io voglio salvarti la vita per riguardo a tuo fratello. E Filea: “Ma io ti prego di eseguire quel che ti è stato comandato. Culciano: “Se io sapessi che sei povero non penserei a salvarti, ma poiché sei molto ricco e puoi nutrire molti voglio liberarti dalla morte; per questo ti esorto a sacrificare”. Rispose Filea: “Io non sacrifico”. Ma, aggiunse Culciano, vedi come tua moglie ti guarda? E Filea: “Gesù Cristo a cui servo è il nostro Salvatore. Come ha chiamato me, così può chiamare anche lei all’eredità della sua gloria”. Orsù, disse il prefetto, ti do tempo perché tu pensi meglio ai tuoi fatti. Rispose Filea: “Ho già pensato più volte a tutto ed ho  scelto di patire per Cristo”. Allora i suoi parenti gli si gettarono ai piedi a pregarlo che avesse compassione della moglie e dei suoi figli. Ma il santo non facendo conto delle loro  lacrime, con gli occhi rivolti a Dio diceva che non doveva far conto di altri parenti se non dei santi del paradiso. S. Filoromo, trovandosi  presente a questi pianti dei parenti di Filea ed a tante esortazioni del prefetto, alzò la voce e disse: “Perché senza frutto tentate di abbattere la perseveranza di questo uomo? Perché tanto vi affaticate per rendere infedele uno che vedete essere fedele al suo Dio? Non vedete che le vostre parole e le vostre lacrime non possono nulla con lui? Lacrime sparse per motivi terreni non possono piegare l’animo di chi tiene davanti agli occhi solo Dio”. Tutti i presenti adirati contro Filoromo chiesero che egli insieme con Filea fosse condannato allo stesso supplizio. Per questo il giudice volentieri comandò che entrambi fossero decapitati. Allora tutta la turba insieme con i martiri si incamminò al luogo della esecuzione. Ma nel cammino il fratello di Filea disse ad alta voce che Filea chiedeva l’appello. Per questo Culciano lo  interrogò se veramente avesse fatto appello. Ma Filea rispose: “Io non ho mai fatto appello; non ascoltate quello che dice questo miserabile. Io sono molto obbligato ai giudici perché per mezzo loro divento coerede di Gesù Cristo”. Ciò detto, Filea si avviò di nuovo al luogo del supplizio, dove  giunto con Filoromo alzò la voce ai cristiani e disse: “Figliuoli miei, chi di voi cerca veramente Dio, stia attento a guardarsi dai peccati, poiché il nemico va in giro cercando chi divorare. Non abbiamo ancora patito, ora cominciamo a patire e ad essere discepoli di Gesù Cristo. Siate attenti ad osservare i suoi precetti. Invochiamo sempre il creatore di tutte le cose al quale sia gloria in eterno”. Finite queste parole i ministri li decapitarono entrambi e li inviarono alla patria celeste e così consumarono il loro sacrificio questi due eroi.
Santa Dionigia vergine e altri compagni martiri
Nel terzo secolo furono presentati al proconsole dell’Asia, chiamato Ottimo, tre cristiani, Andrea, Paolo e Nicomaco. Da lui interrogati di qual paese fossero, Nicomaco, prima degli altri, rispose ad alta voce: “Io sono cristiano”. E voi altri cosa dite? disse il proconsole agli altri due. Risposero: “Anche noi siamo cristiani. Ottimo rivolto a Nicomaco gli ordinò che sacrificasse agli dei, come era comandato dal principe. Quegli rispose: “Ma tu già sai che un cristiano non può sacrificare ai demoni”. Il proconsole lo fece prendere e tormentare così crudelmente che Nicomaco era prossimo a spirare e vedendosi in tale stato il misero venne meno e disse: “Io non sono mai stato cristiano: ebbene sacrifico agli dei”. Presto fu fatto sciogliere l’infelice, ma in quello stesso momento fu invasato dal demonio e buttandosi a terra si troncò la lingua con i denti e morì. A questo spettacolo Santa Dionigia vergine di sedici anni, piangendo la disgrazia di Nicomaco, esclamò: “O miserabile che per non soffrire un altro po’ ti sei condannato ad una pena eterna!”. Il proconsole, udite queste parole, la fece tirare fuori dalla folla, e le domandò se era cristiana. Si, essa rispose, io sono cristiana e perciò piango quell’infelice che non seppe patire un altro po’ e guadagnarsi il paradiso ed ora piangerà eternamente”. Il proconsole adirato le disse: “Or via, tu devi sacrificare ai nostri dei, se non vuoi essere trattata in modo vergognoso e dopo ciò bruciata viva”. Dionigia rispose: “Il mio Dio è più grande di te; per questo non temo le tue minacce. Egli mi dà la forza di soffrire ogni tormento per suo amore”. Allora Ottimo l’abbandonò a due giovani i quali la condussero in una casa dove apparve un giovane risplendente di luce che la difendeva, per cui essi si gettarono ai piedi della santa pregandola di intercedere per essi. Fattosi giorno, il proconsole si fece presentare Andrea e Paolo che stavano in prigione e comandò loro che sacrificassero alla dea Diana. I due santi risposero: “Noi non conosciamo Diana o altri demoni da voi adorati; noi non adoriamo che il solo vero Dio”. A queste parole il popolo idolatra chiese di poterli uccidere e il proconsole li consegnò loro perché li lapidassero. E così fu fatto, avendoli a questo scopo legati per i piedi e trascinati fuori della città. Ma mentre erano lapidati quei santi, Dionigia, udendo il rumore, e fuggendo dalle mani delle guardie, corse dov’erano quei santi e si gettò sopra di essi dicendo: “Per vivere con voi in cielo voglio con voi morire qui in terra”. Il proconsole, sentendo ciò, comandò che le fosse tagliata la testa e così fu fatto.

San Fruttuoso e compagni
San Fruttuoso fu vescovo di Tarragona nella Spagna. Gli atti del martirio di San Fruttuoso e suoi compagni narrano che, essendo imperatori Valeriano e Gallieno nell’anno 259, per ordine di Emiliano, presidente della provincia, furono arrestati il vescovo Fruttuoso e due suoi diaconi, Augurio ed Eulogio. Il santo vescovo stava ritirato nella sua stanza quando vennero i soldati a prenderlo. Egli, udendo lo strepito che essi facevano, aprì la porta, ed uscì loro incontro in pianelle. I soldati gli dissero che il presidente lo chiamava insieme con i suoi diaconi ed egli rispose: “Eccomi pronto, andiamo, ma se me lo permettete mi calzerò”. Si calzò e furono presto condotti tutti e tre in prigione. Stettero qui sei giorni e poi furono introdotti all’udienza del presidente, che rivolto a Fruttuoso gli disse: “Hai tu inteso quello che hanno comandato gli imperatori?”. Rispose il santo: “Io non lo so, so bene che sono cristiano”. Soggiunse Emiliano: “Hanno comandato che siano onorati gli dei”. E Fruttuoso replicò: “Io onoro un solo Dio che ha fatto il cielo e la terra”. E quegli disse: “Ma sai tu che vi sono gli dei?”. Il santo rispose: “Io non lo so”. Ed Emiliano: “Lo saprai bene presto”. Poi soggiunse: “A chi mai renderanno gli uomini ossequio, se non adorano gli dei e le immagini degli imperatori?”. E voltandosi al diacono Augurio gli disse: “Non volere tu dare ascolto alle parole di Fruttuoso. Augurio rispose: “Io adoro un Dio onnipotente. Quindi Emiliano si rivolse ad Eulogio: “Forse anche tu veneri Fruttuoso?”. E quello: “No, io non venero Fruttuoso, ma venero lo stesso Dio di Fruttuoso”. Il presidente disse poi a Fruttuoso: “Sei tu  vescovo?”. Il santo rispose: “Si signore, io lo sono”.  Emiliano soggiunse: “No, di’ meglio, che lo sei stato, ma non lo sei più”. Quindi pronunziò contro tutti e tre la sentenza, condannandoli alle fiamme. Mentre  san Fruttuoso insieme con i suoi diaconi era condotto all’anfiteatro dove si doveva eseguire la sentenza, il popolo fu mosso a compassione del santo vescovo (poiché egli era amato non solo dai fedeli ma anche dagli idolatri). Lungo la strada gli presentarono una tazza di liquore soave per dargli vigore. Egli la rifiutò dicendo che non era ancora tempo di rompere il digiuno. Giunto  il santo all’anfiteatro, allegro e tranquillo, gli si fece avanti un suo lettore di nome Augustale e piangendo lo pregò di permettergli di togliergli i sandali. San Fruttuoso  disse: “No,  figliolo mio, ma che io mi scalzi da solo, mentre mi dà vigore la certezza delle divine promesse”. Toltosi i calzari, un altro fedele, presolo per mano, lo pregò di ricordarsi di lui,  raccomandandolo a Dio. E il santo rispose: “E’ necessario che io mi ricordi di tutta la Chiesa cattolica dall’Oriente all’Occidente”. Con queste parole, come osserva S. Agostino, volle significare che, pregando per tutta la Chiesa, pregava per ciascun fedele in particolare, come ciascun fedele partecipa delle preghiere che sono fatte dalla Chiesa. Stando poi il santo per entrare nell’anfiteatro e vedendosi vicino a conseguire la corona, alzò la voce e disse a tutti i cristiani che qui stavano: “Non dubitate, che non vi mancherà il pastore né mai verranno meno l’amore e la promessa del Signore. Quello che ora vedete essere sofferto da me non è che una leggera infermità che dura un’ora”. Avendo detto ciò entrò con i suoi compagni nelle fiamme, ma il Signore dispose che le fiamme non consumassero se non i soli legami con i quali i santi martiri stavano legati con le mani dietro le spalle. Essendo rimasti sciolti, si inginocchiarono in preghiera, alzarono le mani al cielo e supplicarono Dio che li  consumasse col fuoco, perché avesse compimento il loro sacrificio”. Il Signore li esaudì e spirando andarono a ricevere il premio del loro martirio. Dopo la loro morte volle Dio glorificare i suoi servi poiché manifestò la loro gloria a due cristiani della famiglia dello stesso presidente, chiamati Babila e Migdonio, i quali al momento del loro passaggio videro aprirsi il cielo e san Fruttuoso in compagnia dei suoi diaconi, che, in mezzo ad un grande splendore, salivano a prendere possesso delle loro corone. A quella vista essi chiamarono Emiliano perché venisse a vedere come erano ricevuti in cielo coloro che egli aveva condannato in quel giorno. Andò Emiliano ma non li vide, perché non era degno di vederli. Sopraggiunta poi la notte, i fedeli, afflitti per la morte del loro pastore, corsero all’anfiteatro per spegnere il fuoco che ancora ardeva e prendere le ossa dei santi martiri e ciascuno ne prese quante poteva. Il santo vescovo apparve e comandò loro di restituire ognuno la porzione presa delle ossa e di seppellirle nello stesso luogo. Oh beati martiri che a guisa d’oro sono stati provati col fuoco e poi coronati di una gloria eterna. Di là invitano noi a seguirli. S. Agostino, in un sermone fatto nella festa di quei santi, scrive: “Questi erano uomini di carne come noi, ed ebbero questa bella sorte. Tutti pertanto dobbiamo aspettare da Gesù Cristo la forza di vincere i nostri nemici, mentre egli supererà per noi tutte le difficoltà che a noi sembrano insuperabili per la nostra debolezza”.