3 AGRICOLA, VITALE, FILIPPO, IPPOLITO, IRENEO.SIMEONE, APPIANO, EDESIO, BASILIO, BIAGIIO, ARCADIO, AURELIO E NATALIA

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Dei santi Agricola e Vitale e di un altro san Vitale martire
Sant’ Agricola fu gentiluomo della città di Bologna e conduceva una vita molto cristiana quando infuriava la persecuzione di Diocleziano. Egli, per la bontà che usava, si era conciliato la stima e l’affetto di tutti, anche dei Gentili. Teneva esso al suo servizio un altro santo uomo chiamato Vitale, che lo serviva con grande fedeltà. E poiché ambedue amavano assai Gesù Cristo, scambievolmente si aiutavano nella pratica delle sante virtù e si animavano a dare la vita quando Dio così disponesse, per la santa fede. Ma toccò a Vitale di essere il primo ad essere martire e di andare avanti (come dice Sant’Ambrogio) a preparare il luogo al suo padrone in cielo. I nemici della fede, avendolo preso, per costringerlo a rinnegare Gesù Cristo lo torturarono in modo che non gli lasciarono alcun membro del corpo che non fosse piagato. Egli fu sempre costante a confessare il nome di Gesù Cristo. Questi, essendo Vitale vicino a consumare il suo sacrificio, mandò un angelo a mostrargli in una visione la corona che gli preparava in cielo. Per questo il santo prima di spirare nel suo supplizio fece questa preghiera: “Gesù, mio Salvatore e Dio, comanda che l’anima mia venga a te come desidero e riceva la corona che il tuo angelo mi ha mostrato”. E finita questa preghiera glorioso volò al cielo. I persecutori con i tormenti e con la morte di Vitale si lusingarono di indurre il suo padrone Agricola a rinnegare la fede. Cercando di convincerlo ad ubbidire agli editti imperiali con il sacrificare agli idoli, videro che le loro parole riuscivano tutte vane; poiché Agricola, invece di esser rimasto spaventato dagli aspri tormenti dati a Vitale e dalla sua morte, aveva preso maggior coraggio e desiderio d’essergli compagno nella corona con il dare la vita per Gesù Cristo. Per questo, disperando i nemici di rimuoverlo dalla fede, lo condannarono a morte. Ed ebbe in sorte di soffrire una morte simile a quella di Gesù Cristo, poiché lo fecero morire crocifisso, inchiodando le sua membra con molti chiodi sulla croce. I corpi di questi due santi martiri, insieme con gli strumenti del loro supplizio, furono sepolti in un cimitero dove giacquero sconosciuti sino al tempo in cui il Signore rivelò a Sant’ Ambrogio il luogo della loro sepoltura. Per questo, Sant’Ambrogio, passando nell’anno 393 per Bologna, ritrovò il loro prezioso deposito e con molto onore li trasferì in una chiesa. Prese per sè una parte del sangue dei santi martiri e della croce di sant’ Agricola che ritrovò nel sepolcro e li portò a Firenze, collocandoli nell’altare di una chiesa che egli poi consacrò in quella città. Ed in questa occasione il santo fece un sermone da cui si è ricavato il martirio qui scritto.

Di un altro san Vitale
Si aggiunge qui il trionfo di un altro san Vitale, di una nobile famiglia di Milano. Egli era cristiano con tutta la sua famiglia ed era di santi costumi. Aveva servito nell’esercito dell’imperatore e perciò si trovava amico del console Paolino. Confidando nel suo favore  si prendeva la libertà di assistere i cristiani perseguitati, soccorrendoli nei loro bisogni e visitandoli nelle carceri oppure nelle caverne dove quelli stavano nascosti. Paolino era grande nemico dei cristiani, ma non sapendo che Vitale fosse cristiano, lo invitò ad andare con lui a Ravenna, dove, essendo giunto, il santo seppe che un certo cristiano, chiamato Ursicino,  medico di professione,  sotto tortura per la fede, vacillava e correva il rischio di apostatare. Vitale, lasciando il console, corse al luogo dei tormenti e trovando Ursicino già quasi vicino a cedere, gli disse: E come, amico? Tu hai la corona tra le mani e dopo tante fatiche vuoi perderla? E per non soffrire questi brevi tormenti vuoi gettarti nei tormenti eterni? Tu guarisci i mali degli altri e poi vuoi condannarti ad una morte eterna? Ravviva la fede e confidando in Gesù Cristo compi da forte il tuo sacrificio! A questo conforto Ursicino si mantenne fermo e diede la vita per Gesù Cristo. Dopo ciò Vitale stesso diede sepoltura al suo corpo. Avvisato di ciò Paolino disse a Vitale: Come mai questo? Sei pazzo? Senza essere cristiano hai fatto quel che hai fatto? Subito rispose il santo e disse: “No, io sono cristiano e me ne vanto; e non sono pazzo: è pazzo chi adora come dèi uomini scellerati. Non vi è che un solo Dio: questo Dio noi adoriamo, e ci gloriamo di morire per suo amore.” Paolino amava il santo, ma, nonostante ciò, sdegnato ordinò che fosse posto in carcere come cristiano. San Vitale, vedendosi nella prigione unito agli altri cristiani, esultava di gioia, così che Paolino per lo sdegno gli fece slogare tutte le ossa sul cavalletto, e lacerare le carni con unghie di ferro. Ma il santo benchè si trovasse quasi moribondo, in mezzo a quei tormenti non cessava di predicare Gesù Cristo. Dalla qual cosa più irritato, il console lo fece gettare in una fossa, e facendolo poi coprire di sassi lo fece morire. Così il Santo compì il suo martirio il 27 aprile dell’anno 171. Nel punto stesso in cui spirò san Vitale, un sacerdote di Apollo, che aveva molto incitato il tiranno contro di lui, invasato dal demonio, gridava per la rabbia dicendo: Tu mi tormenti o Vitale, tu mi bruci. E dopo sette giorni si gettò in un fiume e morì annegato. Le reliquie del santo si conservano in Ravenna, in una gran chiesa fabbricata nel luogo del suo martirio. Nello stesso giorno dedicato ad onore del santo si fa anche memoria di Santa Valeria sua moglie, la quale, ritornando da Ravenna dopo la morte del marito, fu talmente maltrattata dagli idolatri per la fede durante il viaggio che, giunta a Milano, mezza morta, dopo due giorni rese l’anima a Dio; e anch’essa è onorata come martire.

Filippo vescovo di Eraclea e compagni martiri
Nella Tracia, dove metropoli della provincia  era la città di Eraclea, Filippo  fu eletto vescovo per lo splendore delle sue virtù. Egli ben corrispose alle aspettative del suo popolo, così che il popolo lo amava ed egli tutti amava del suo popolo. Ma fra gli altri amava particolarmente due suoi discepoli, Severo prete e Erme diacono, che poi ebbe compagni nel martirio, nella persecuzione sorta sotto Diocleziano. Durante questa  fu consigliato al santo di allontanarsi dalla città. Ma egli non volle partire, dicendo che voleva uniformarsi alle disposizioni di Dio, che sa bene ricompensare chi patisce per suo amore e perciò non doveva temere le minacce e i tormenti dei tiranni. Un giorno dell’anno 304, mentre il santo esortava nella chiesa il popolo alla pazienza, venne un soldato, il quale, per ordine del governatore chiamato Basso, fatto uscire il popolo, chiuse le porte della chiesa e le sigillò. Filippo allora gli disse: Credi tu che Dio abiti fra queste mura e non già nelle nostre anime? Non potendo poi Filippo entrare più nella Chiesa, non volle però abbandonarla, ma si fermò presso le porte di quella insieme con il suo popolo e qui provvide a separare i buoni dai cattivi, confortando i primi ad essere costanti nella fede, e i secondi a fare penitenza dei propri peccati. Basso, trovandoli così radunati in quel luogo, li fece arrestare tutti, e poi  domandò chi fosse il loro maestro. Filippo allora si fece avanti e rispose: Io sono colui del quale tu chiedi. E Basso disse: “Hai inteso la legge dell’imperatore che non si radunino i cristiani in nessun luogo, affinché tutti  sacrifichino agli dei o periscano?”. Quindi ordinò loro che gli consegnassero tutti i vasi d’oro e d’argento e tutte le scritture che trattavano della dottrina cristiana, altrimenti sarebbero stati sottoposti ai tormenti. Rispose san Filippo: “Per me io sono pronto a patire come vuoi in questo corpo già cadente per la vecchiaia; ma togliti dal pensiero di aver potere sopra il mio spirito. I vasi sacri prendili a tuo arbitrio, ma le Scritture divine tocca a me di non farle cadere nelle tue mani”. Irritato da questa risposta, Basso chiamò i carnefici e fece torturare crudelmente il santo e per lungo tempo. Il diacono Erme, essendo presente a quegli strazi del suo vescovo, disse al governatore che, quand’anche gli fosse riuscito di avere in mano tutte le Sacre Scritture, i buoni cristiani non avrebbero smesso di insegnare agli altri a seguire Gesù Cristo e a rendergli l’onore che si merita. A queste parole seguì una tempesta di battiture sopra il santo diacono. Quindi ordinò Basso che si prendessero i sacri vasi dal sacrario e che le Scritture possono bruciate e che Filippo e gli altri carcerati fossero condotti dai soldati nel foro al supplizio, per rallegrare gli infedeli con tale spettacolo e spaventare i cristiani. Giunto Filippo al foro ed informato che le Scritture erano state bruciate, fece un lungo discorso al popolo, in cui parlò del fuoco eterno minacciato da Dio agli empi. Ma nel mezzo del discorso venne un sacerdote degli idoli chiamato Catafronio e portò con sé alcune carni di vittime sacrificate ai demoni. Erme, vedendo ciò disse: Questa cena diabolica è stata portata per costringerci a gustarne e così contaminarci. Ma San Filippo lo esortò a non inquietarsi. Frattanto giunse al foro il governatore e comandò a Filippo che subito sacrificasse ai suoi dei. Rispose il santo: “Essendo io cristiano, come posso venerare le pietre? Sacrifica almeno all’imperatore, aggiunse Basso. E il santo replicò: “La mia religione mi ordina di ossequiare i principi, ma di non sacrificare se non a Dio.” Ma questa bella statua della Fortuna, disse il governatore, non merita che tu le offra una vittima?”. Rispose il santo: “Essa può attirarsi l’ossequio di voi che la adorate, ma io non posso adorarla”. Allora il santo alzò la voce e rimproverò la pazzia di coloro che veneravano come dei le statue, che, essendo tratte dalla terra, non meritavano che di essere calpestate come terra, non già adorate. Basso si rivolse ad Erme e gli comandò che almeno lui  sacrificasse a quei dei. Il santo risolutamente rispose che era cristiano e che non poteva farlo. Ma tu sarai dato alle fiamme, disse quello, se non sacrifichi. Erme rispose: “Tu mi minacci di queste fiamme che durano poco, perché non sai la forza delle fiamme eterne, nelle quali ardono i discepoli del diavolo”. Basso sdegnato comandò che i santi fossero condotti in carcere. Nel cammino gli insolenti, portando il santo vecchio Filippo, lo fecero cadere a terra più volte, ed egli senza turbarsi, con una faccia allegra, si rialzava. Finito frattanto il tempo del governo di Basso giunse ad Eraclea il successore Giustino, uomo più crudele di Basso. Questi, essendogli stato presentato Filippo, gli disse che, considerando la propria età, sacrificasse se non voleva far soffrire pene intollerabili anche ai giovani. Rispose il santo: “Voi altri per timore di una breve pena ubbidite agli uomini, quanto più noi dobbiamo obbedire a Dio, che punisce i malfattori con pene eterne! Tu potrai tormentarmi ma non  indurmi mai a sacrificare.”  Disse Giustino: “Io ti farò trascinare per i piedi per tutta la città”. Rispose il santo: “Piaccia a Dio che ciò si faccia”. La minaccia fu eseguita. Il santo non morì in quel tormento ma rimase tutto lacerato nel corpo e tra le braccia dei fratelli fu ricondotto in prigione. Dopo ciò il governatore si fece presentare il diacono Erme e lo esortò a sacrificare se voleva liberarsi dai tormenti già preparati. Rispose il santo: “Io non posso sacrificare e tradire la mia fede. Tu dunque, a tuo piacere, lacera pure, fa’ a pezzi il mio corpo”. Parli così, disse Giustino, perché non comprendi le pene che ti aspettano. Ben te ne pentirai quando le proverai. E il santo: “Per quanto saranno atroci le pene, Gesù Cristo, per amore del quale patisco, me le renderà leggere e soavi”. Giustino fece riportare i santi in prigione ove essi stettero a marcire per sette mesi, quindi li fece trasferire ad Adrianopoli, dove,  giunto anche lui, si fece di nuovo presentare Filippo e gli disse che aveva differito la condanna per dargli tempo di ravvedersi e sacrificare. Il santo rispose: “Io ti ho detto che sono cristiano e sempre dirò lo stesso. Io non sacrifico alle statue ma solo a quell’unico Dio al quale ho consacrato tutto me stesso.” Il giudice, adirato, lo fece spogliare e battere con tanta crudeltà che gli rimasero scoperte le ossa e le viscere. Ma il santo vecchio sopportò con tanta fortezza quella carneficina che ne restò ammirato lo stesso Giustino. Ma dopo tre giorni di nuovo fece chiamare san Filippo e gli disse: Dimmi, perché con tanta temerarietà rifiuti di obbedire agli imperatori? Il santo rispose: “Quello che mi muove non è la temerarietà, ma è l’amore che porto al mio Dio, che un giorno mi dovrà giudicare. Io ho sempre obbedito ai principi, ma ora si tratta di preferire la terra al cielo. Sono cristiano, non posso sacrificare ai tuoi dei”. Udito ciò Giustino si rivolse ad Erme e gli disse: “Dal momento che a costui per la vecchiaia è venuta a tedio la vita, almeno tu non la disprezzare; sacrifica e provvedi alla tua salvezza!”. Erme cominciò con intrepidezza a parlare contro l’empio culto degli idoli, ma Giustino sdegnato l’interruppe dicendo: “Tu mi parli come se sperassi di farmi cristiano”. E il santo replicò: “Io desidero che tali divengano non solo tu ma tutti quelli che mi odono”. Finalmente il tiranno, vedendo la costanza dei due santi, pronunciò questa sentenza: “Comandiamo che Filippo ed Erme, per aver disprezzato gli ordini imperiali, siano bruciati vivi”. Udita la sentenza, i santi con giubilo si avviarono al luogo del fuoco come due vittime consacrate al Signore. Ambedue stavano così sofferenti nei piedi (probabilmente a motivo dei ceppi ) che il santo vescovo dovette essere portato di peso al supplizio ed Erme lo seguiva, ma con grande stento e diceva a Filippo: “Affrettiamoci, padre, non  prendiamoci cura dei piedi dei quali presto non avremo più bisogno.” Giunti al luogo del martirio, secondo il costume del paese, i condannati alle fiamme furono calati in una fossa e coperti di terra sino alle ginocchia, affinché non si potessero muovere e così fu fatto. Erme, nello scendere nella fossa, per la gioia proruppe in un gran riso. Finalmente acceso il fuoco dagli addetti, i santi, finchè poterono,  non cessarono di rendere grazie a Dio della loro morte e consumarono il loro sacrificio dicendo: amen.
Severo, che era l’altro discepolo di San Filippo, nella prigione, ove era rimasto chiuso nel tempo che il suo santo vescovo aveva consumato nel fuoco il martirio, seppe della sua morte gloriosa. E stava afflitto di non aver potuto essergli compagno; per cui pregava il Signore di non giudicarlo indegno di dare anche lui la vita per la sua gloria. E fu esaudito, poiché il giorno seguente anch’esso ottenne la bramata corona.

S. Ippolito
S. Ippolito fu dapprima uno di quei cinque preti della Chiesa romana che aderirono allo scisma di Novaziano, il quale, sottraendosi all’ubbidienza di San Cornelio papa, osò farsi consacrare furtivamente vescovo di Roma. Ma Dio fece la grazia ad Ippolito di purificarlo dal suo peccato con il martirio che soffrì nell’anno 250 nella persecuzione di Decio. Egli stava già carcerato come cristiano e il prefetto di Roma, che doveva giudicarlo, stando ad Ostia  al porto si fece portare qui tutti i cristiani imprigionati. Fra questi vi era Ippolito, al quale nell’andare fu chiesto chi fosse il vero papa. Egli rispose: Fuggite l’indegno Novaziano, abbandonate lo scisma e tornate alla Chiesa cattolica. Ora io vedo le cose in altro modo e mi pento di quello che ho fatto. Giunto ad Ostia fu presentato al prefetto, il quale fece tormentare molti cristiani: infine li condannò tutti a morte. Rivolto al santo, di cui gli fu detto dai presenti che era il capo dei cristiani, gli chiese il suo nome. Avendogli il santo risposto che si chiamava Ippolito disse il tiranno: “Dunque faccia costui la morte di Ippolito e sia trascinato a coda di cavallo”. Volendo alludere al mitico Ippolito che i poeti figurarono caduto dal cocchio e, imbrigliatosi fra le redini dei cavalli, fu da quelli trascinato e fatto a pezzi. I ministri presero due cavalli indomiti, li accoppiarono e posero in mezzo ad essi una lunga fune alla quale attaccarono i piedi del martire e poi con urli e sferzate fecero partire i cavalli. Le ultime parole che si udirono uscire dalla bocca di S. Ippolito furono queste: “Signore, sia pur lacerato il mio corpo, purché sia salva l’anima mia”. I cavalli, correndo fra sassi e  sterpi, lasciarono la strada tinta di sangue e seminata delle membra del Santo, che furono poi raccolte con diligenza dai fedeli, i quali con spugne ne raccolsero anche il sangue. Le reliquie del santo, scrive Prudenzio, furono poi trasportate a Roma, dove fu molto venerato dai Romani.

S. Ireneo vescovo
Si crede che San Ireneo sia nato nella città di Sirmio. Quantunque  i suoi genitori probabilmente fossero Gentili, egli non di meno sin da fanciullo abbracciò la fede in Gesù Cristo. Avanzato in età, prese moglie, da cui ebbe molti figli che tutti lasciò in età molto tenera quando diede la vita per Gesù Cristo. Diede poi il santo tanti e tali esempi di virtù che anche nella sua età giovanile meritò di essere fatto vescovo di Sirmio. Così, combattendo contro i nemici della fede per difendere il popolo affidato alla sua cura, ebbe la sorte di conseguire la corona del martirio. Nell’anno 314 giunsero in Sirmio gli editti dell’imperatore Diocleziano contro i cristiani. Probo, governatore della Bassa Pannonia si affrettò a metterli in esecuzione. Cominciò ad infierire in primo luogo contro gli ecclesiastici e in modo particolare contro i vescovi, sperando che, abbattuti i pastori, facilmente restasse disperso il gregge di Gesù Cristo. Ireneo, pertanto, che a quel tempo era ancora giovane, presto fu preso dai soldati e presentato a Probo che gli disse: “Ubbidisci ai comandi imperiali e sacrifica agli dei. Rispose il santo: “Dice la Scrittura: chiunque sacrifica agli dei e non a Dio sarà sterminato. Soggiunse Probo: “I principi hanno comandato che voi cristiani o sacrifichiate o siate messi ai tormenti”. Ireneo rispose: “E a me è stato comandato di eleggere i tormenti piuttosto che negare Dio e sacrificare ai demoni”. Probo: “Sacrifica o ti farò tormentare”. E il santo: “Avrò piacere se lo farai; perché così sarò fatto partecipe della passione del mio Signore”. Comandò pertanto il presidente che fosse posto ai tormenti, nei quali Probo, vedendo il santo già molto straziato da quelli, gli chiese: “Cosa dici Ireneo? Sacrifica! E il santo: “Sacrifico con la mia confessione al mio Dio, al quale sempre ho sacrificato”. Mentre Ireneo era così tormentato, vennero suo padre, la moglie, i figli e tutti i suoi domestici ed amici a pregarlo che ubbidisse all’imperatore. I figli gli abbracciavano i piedi e gli dicevano: “Padre se non hai pietà di te, abbi almeno pietà di noi”. La moglie, piangendo, lo scongiurava di non abbandonarla. Gli amici lo esortavano a non voler morire nella sua età ancora fresca. Ma il santo, come forte scoglio in mezzo alle onde, avendo davanti agli occhi quella sentenza di Gesù Cristo che dice: “Chiunque mi rinnegherà davanti agli uomini, non sarà da me riconosciuto come mio alla presenza di mio Padre che sta nei cieli”, non rispose loro neppure una parola, anelando di conseguire il martirio che gli sovrastava. Allora Probo gli disse: “Ireneo, abbandona questa tua pazzia; provvedi alla tua giovane età e sacrifica”. Rispose il santo: “Io provvedo a me per tutta l’eternità se non sacrifico”. Alla fine fu deposto dai tormenti e condotto in carcere, dove per molti giorni soffrì altri supplizi. Dopo qualche tempo, Probo, sedendo in tribunale, si fece presentare di nuovo il santo vescovo e gli disse: “Sacrifica ormai Ireneo e liberati dalle pene che ti sovrastano”. Il santo rispose: “Fa’ pure quello che ti è comandato di fare e non aspettare da me che in ciò io ti obbedisca”. Sdegnato Probo lo fece battere in sua presenza e il santo in quelle battiture diceva: “Io sin dai miei primi anni adoro un dio che in tutte le cose mi assiste e mi conforta. Non posso adorare dèi fatti da mano di uomini. E Probo: “Liberati dalla morte: ti bastino i tormenti che finora hai sofferto”. Replicò Ireneo: “Io mi libererò dalla morte quando con le pene che mi fai soffrire conseguirò la vita eterna”. Gli domandò poi Probo se avesse moglie, figli e genitori. E Ireneo a tutte queste domande rispose di no: “Dico di no, perché Gesù Cristo ha dichiarato che chi ama il padre o la madre o la moglie o i figli più di me non è degno di me”. Probo riprese: “Sacrifica almeno per amore dei tuoi figli”. E il santo: “I miei figli hanno Dio, che può salvarli, come lo ho io. E Probo: “Non mi costringere o Ireneo a metterti di nuovo ai tormenti”. E il santo: “Fa’ quello che vuoi, ma presto vedrai quale costanza il mio Signore Gesù Cristo mi darà contro tutte le tue insidie”. Allora Probo pronunciò la sentenza con cui  condannò sant’ Ireneo a morire  precipitato nel fiume. Il santo, udendo tale sentenza, disse: “Io mi aspettavo, dopo tante minacce, che mi facessi soffrire molti tormenti e poi tagliare a pezzi. Ma tu non l’hai fatto. Ti prego di farlo, perché vediate come i cristiani per la fede nel loro Dio disprezzano la morte. Sdegnato Probo da tali parole comandò che gli fosse tagliata la testa e poi gettato nel fiume. Allora il santo, vedendosi già vicino alla morte, ringraziò Gesù Cristo di avergli dato la forza di cui aveva bisogno e perché con quella morte lo chiamava a far parte della sua gloria. Giunto ad un ponte detto di Diana, luogo del supplizio, si spogliò delle sue vesti, stese le mani al cielo e così pregò: “Signore mio Gesù Cristo, che ti sei degnato di morire per la salvezza del mondo, ti prego di far ricevere dagli angeli  il mio spirito, mentre io, per il tuo nome e per la Chiesa, tutto soffro volentieri; accoglimi per pietà nella tua gloria e conferma il mio gregge nella tua fede”. Dopo ciò dai ministri gli fu troncato il capo e il suo corpo fu gettato nel fiume Savo.

S. Simeone vescovo di Seleucia
Si sa dalle Storie Ecclesiastiche che nella Persia fu predicata la fede di Gesù Cristo dagli stessi apostoli, per cui nel tempo dell’imperatore Sapore (che fu verso la metà del quarto secolo) vi era in quel regno un gran numero di cristiani. Molto afflitti di ciò  i Magi, che erano i sacerdoti della religione persiana, avevano più volte tentato di far proibire quella cristiana. Ma al tempo di Sapore si unirono ai magi anche i Giudei e costrinsero l’imperatore a perseguitare i fedeli. Era allora arcivescovo di Seleucia san Simeone, uomo di grande virtù,  il quale, avendo grande cura del suo gregge, era per questo reputato come il più forte difensore della fede cristiana. Per mandarlo in rovina fecero credere a Sapore che egli aveva corrispondenza con l’Imperatore romano e che gli rivelava gli affari più importanti della Persia. Sapore diede credito a ciò e considerando Simeone come suo nemico si risolse di sterminare dal suo regno lui e tutti i cristiani. Cercò di privarli di tutti i loro beni, ma vedendo che quelli soffrivano tutto con pazienza, ordinò che tutti i sacerdoti e gli altri ministri della Chiesa, qualora non avessero abbandonato Gesù Cristo, fossero decapitati. Intanto comandò che fossero distrutte le chiese dei cristiani. Poi fece mettere in carcere il santo vescovo.  Fatto venire alla sua presenza, San Simeone, perché non sembrasse che egli domandava grazia per il delitto di aver difeso la religione cristiana, non volle prostrarsi secondo il costume di Persia, come già aveva fatto più volte prima. Sapore, offeso da ciò, gli chiese perché gli negasse l’onore che gli era dovuto. Il santo rispose: “Quando io le altre volte sono venuto alla tua presenza  non vi ero condotto per tradire il mio vero Dio. Perciò allora non rifiutavo di darti i soliti onori, ma ora non posso farlo, perché vengo a difendere l’onore di Dio e la mia religione”. L’imperatore lo esortò ad adorare il Sole, promettendogli grandi doni ed onori se ubbidiva e minacciando, se non ubbidiva, di farlo morire e di scacciare tutti i cristiani dal suo regno. S. Simeone rispose che non poteva adorare il Sole e tradire la sua religione. Per questo l’imperatore lo fece mettere in prigione, sperando che il carcere gli avrebbe fatto cambiare parere. Mentre il santo andava al carcere, un vecchio eunuco chiamato Ustazade, sopraintendente della casa reale, vedendo passare S. Simeone, che era condotto in prigione, si prostrò davanti a lui. Ma il santo, disprezzando quell’ossequio dell’eunuco e volgendo altrove la faccia, lo rimproverò perché, essendo egli cristiano, aveva adorato il Sole. A questo rimprovero l’eunuco si mise a piangere dirottamente e spogliandosi della veste bianca che portava ne prese una nera in segno di lutto. Così vestito si mise a sedere dinanzi alla reggia e struggendosi in lacrime diceva: “Misero me! Cosa mi devo aspettare da quel Dio che ho rinnegato, se Simeone mio amico mi tratta così aspramente a causa del mio errore e rivolge da me la sua faccia? Sapore, conosciuta l’afflizione dell’eunuco, fattolo venire a se volle da lui sapere se gli fosse accaduta qualche disgrazia. Quello rispose: “Ah, volesse Dio che mi fossero venute tutte le disgrazie, non quella che è la ragione del mio dolore! Io piango perché non sono morto prima e ancora vivo e vedo quel sole che ho adorato per non dispiacere a te. Io merito una doppia morte, una per aver tradito Gesù Cristo e l’altra per aver ingannato te”. E poi giurò che da allora in poi non avrebbe più tradito il suo Dio. A queste parole il re  entrato in furia, credendo che i cristiani gli avessero fatto perdere il cervello, giurò di farli tutti morire. Avendo compassione di quel povero vecchio, fece tutti gli sforzi per guadagnarlo. Ustadaze però disse che in avvenire non sarebbe mai stato così stolto da rendere alla creatura quel culto dovuto al solo Creatore. Vedendo dunque Sapore la sua costanza, ordinò che fosse decapitato. Mentre il vecchio andava alla morte si fece chiamare un altro eunuco suo amico e lo pregò di dire da parte sua a Sapore che in ricompensa di tutta la servitù che gli aveva prestato, in quel tempo del suo supplizio facesse dichiarare da un banditore che egli non moriva per qualche delitto, ma solo per essere cristiano e per aver rifiutato di rinnegare il suo Dio. E Sapore accondiscese a questa sua richiesta per atterrire i cristiani nel vedere che non la perdonava neppure a quel vecchio, che l’aveva così ben servito. Dopo ciò Sapore rivolse il pensiero a San Simeone e di nuovo tentò di guadagnarlo in tutti i modi. Vedendo tutto riuscire inutile, ordinò che fosse decapitato. Prima di eseguire la sentenza contro il santo, per intimorirlo, fece, davanti ai suoi occhi, tagliare la testa a cento cristiani. San Simeone invece di intimorirsi si mise a dare animo a quei fedeli, facendo loro comprendere quanto grande fosse la loro sorte nel dare la vita per Gesù Cristo, per acquistare la vita eterna. Decapitati che furono quei cento martiri fu tagliata la testa al santo, il giorno di venerdì Santo, in cui egli unì la sua morte a quella di Gesù Cristo. Insieme col santo furono decapitati anche due vecchi preti della Santa Chiesa, Anania e Abdecala. Era presente alla loro morte un certo Pusico, sopraintendente degli artefici del re. Questi, vedendo che Anania nel sistemarsi per ricevere il corpo tremava, gli disse: “Padre, serra gli occhi per un momento e presto vedrai la luce di Gesù Cristo”. Queste parole fecero credere che Pusico fosse cristiano. Fu subito preso e condotto alla presenza del re, al quale disse che anche lui era cristiano e si fece avanti per rinfacciargli la crudeltà che lui imperatore esercitava contro i cristiani. Sapore, offeso da tale rimprovero, lo fece subito morire in un modo nuovo e molto crudele, poiché gli fece strappare la lingua, non già per bocca ma per la collottola forata. Fece anche prendere e giustiziare una sua figliola vergine che si era consacrata a Dio. Tutti questi santi martiri morirono verso l’anno 344. Il loro martirio viene riferito da Sozomeno, autore contemporaneo, nella sua Storia Ecclesiastica.

San Appiano e San Edesio fratelli
San Appiano nacque nella Licia da una famiglia ragguardevole e ricca. I suoi genitori lo mandarono in Berito a studiare le lettere umane. In quella città, dove vi era una gioventù  molto corrotta, Appiano si mantenne sempre casto e morigerato. Ritornato poi a diciotto anni in patria e vedendosi in mezzo ad una famiglia tutta pagana abbandonò quella casa e si ritirò in Cesarea di Palestina, ove lo accolse in casa sua il famoso Eusebio di Cesarea, che fu poi vescovo di quella città. Sotto una tale maestro, Appiano si applicò allo studio delle Sacre Scritture e ad una vita austera, per cui meritò poi quella fine gloriosa che fece. In quel tempo, cioè nell’anno 306, l’imperatore Massimino diede inizio ad una formidabile guerra contro i cristiani, facendo mettere in nota tutte le persone delle famiglie per poi citarle e far morire chi rifiutasse di sacrificare agli dei. Appiano intanto si preparò al combattimento e sapendo che il preside faceva una solenne sacrificio agli idoli, il santo, spinto da uno speciale istinto dello Spirito Santo, andò in quel giorno al tempio e, mescolandosi tra le guardie che accompagnavano il preside, si accostò all’empio altare e mentre quello alzava la mano per versare del vino e sacrificare a  un idolo lo prese per il braccio, lo trattenne e con coraggio lo esortò a desistere da quella empietà, che è voltare le spalle al vero Dio per sacrificare ai simulacri e ai demoni. I soldati misero subito le mani addosso ad Appiano e poco mancò che non lo facessero a pezzi. Lo percossero così crudelmente che il santo restò pieno di lividi. Poi lo condussero in carcere, dove per ventiquattro ore lo tennero con i piedi stesi nel nervo. Già abbiamo spiegato innanzi che il nerbo erano due pezzi di legno tra i quali si stringevano le gambe dei martiri. Il giorno seguente fu presentato al preside, che non avendo potuto guadagnarlo né con promesse né con minacce, gli fece lacerare le coste con uncini di ferro sino a scoprirgli le ossa e le viscere. Quindi fu battuto con tanta violenza nella faccia che non poteva più essere riconosciuto. Il tiranno, vedendo che non aveva guadagnato nulla con cui supplizi, gli fece porre sopra i piedi dei panni di lino intinti nell’olio e voi vi fece appiccare il fuoco. Ognuno può intendere quanto  furono atroci i dolori che il santo patì in quel tormento, ma egli tutto soffrì con somma intrepidezza. Tre giorni dopo, trovandolo il preside armato con la stessa costanza, ordinò che fosse gettato nel mare. Narra Eusebio, testimone oculare, che quando il corpo del martire fu gettato in mare si alzò subito una grande tempesta, la quale pose il mare in tale agitazione che fece tremare tutta la città. Allora il mare depose il corpo del santo sul lido davanti le porte di Cesarea. San Appiano non aveva ancora ventinove anni quando  compì il suo martirio, che avvenne nell’anno 306 il 2 oppure il 5 aprile come vogliono altri. S. Elesio poi era fratello di San Appiano di sangue ed anche di spirito e aveva pure studiato la filosofia, che gli servì per staccarsi di più dal mondo e unirsi a Gesù Cristo. In quella persecuzione egli confessò più volte il santo nome di Gesù, soffrì  lunghe prigionie e, specialmente, il lavoro forzato nelle miniere della Palestina e in tutte quelle si comportò sempre da vero cristiano. Ma finalmente un giorno in Alessandria, vedendo il giudice che molto maltrattava i cristiani, sino a dare le sante vergini in mano ai giovani sfrenati, esso gli si presentò davanti e gli rimproverò le sue ingiustizie, a tal punto che (dice  Eusebio) lo coprì di confusione. Dopo questa azione generosa il santo fu molto straziato dai carnefici, i quali alla fine lo gettarono in mare come suo fratello e così anche lui consacrò la vita a Gesù Cristo.

San Arcadio
San Arcadio fu africano e si crede che abbia consumato il suo martirio in Cesarea di Mauritania. Ardeva ai suoi tempi la persecuzione, nella quale i cristiani erano crudelmente costretti a sacrificare agli idoli. Arcadio, per evitare il pericolo, fuggì dalla sua patria, e si nascose in un luogo dove non attendeva che a digiunare e a pregare. Intanto, poiché egli non compariva nelle funzioni pubbliche, furono spediti soldati a sorprenderlo nella sua propria casa; ma non trovandolo presero prigioniero un suo parente per obbligarlo a rivelare dove fosse Arcadio.  Arcadio, non potendo tollerare che un altro patisse per lui, si presentò da se stesso al governatore e gli disse che poteva liberare quel suo parente, dal momento che era venuto egli stesso a rendere conto di quanto era interrogato. Il governatore gli rispose che egli sarebbe rimasto libero da ogni castigo se avesse sacrificato agli dei. Il santo coraggiosamente rispose: “Ti inganni, se credi che le minacce della morte spaventino i servi di Dio. Essi dicono quel che diceva San Paolo: io vivo solo per Gesù Cristo e la morte per me è un guadagno. Pertanto inventate tutti i supplizi che potete ma non vi riuscirà di separarci dal nostro Dio”. Allora il tiranno pieno di furore, sembrandogli leggeri per lui gli altri tormenti ordinò che al martire fossero tagliati i membri del corpo, uno per uno, cominciando dalle prime giunture dei piedi. E fu subito eseguita la barbara carneficina, nella quale il santo martire altro non fece che benedire Dio. Poiché fu ridotto ad essere un tronco senza gambe e senza braccia, osservando le sue membra sparse per terra, disse: “O membra felici, che avete meritato di servire alla gloria del vostro Dio, io non vi ho mai tanto amate quanto vi amo ora che vi vedo separate dal mio corpo. Ora si che mi riconosco di essere tutto di Gesù Cristo, come ho sempre desiderato”. Poi, rivolto a coloro che gli stavano intorno e che erano idolatri. disse loro: “Sappiate che tutte queste pene si superano da chi tiene davanti agli occhi la vita eterna che Dio dona ai suoi servi. Riconoscete il mio Dio, che mi conforta in questi dolori ed abbandonate i vostri falsi dei, che non possono darvi aiuto nei vostri bisogni”. Chi  muore per il vero Dio acquista la vita. Ecco che io per questo breve supplizio me ne vado a vivere con lui eternamente, senza timore di perderlo più. E ciò dicendo rese serenamente l’anima al suo Redentore il 14 gennaio. Questo martirio riempì di confusione gli idolatri e suscitò un gran desiderio nei cristiani di dare la vita per Gesù Cristo. Essi poi raccolsero quelle sparse membra del martire e le seppellirono con onore.

San Aurelio, Natalia e compagni
Nella Spagna del nono secolo, i Mori, seguaci di Maometto, vi fecero una strage di martiri. Tra questi vi fu Aurelio, nato in Cordova, di nobile e ricca famiglia. Suo padre era maomettano e sua madre cristiana. Essendo rimasto egli orfano da fanciullo, fu allevato da una sua zia nella religione cristiana. I libri di Maometto,  che i Mori gli fecero leggere, gli fecero conoscere meglio la falsità di quella setta e ancor più lo resero convinto seguace di Gesù Cristo. Stimolato poi dai parenti, prese moglie, che fu Natalia, vergine cristiana e dedita alla pietà. Aurelio era parente di un cristiano chiamato Felice, il quale per debolezza aveva rinnegato Gesù Cristo. Di questo peccato si era poi pentito, ma non aveva il coraggio di farsi conoscere come cristiano, ragion per cui viveva da cristiano nascosto con  sua moglie. Queste due famiglie erano tra loro strettamente unite. Un giorno Aurelio vide nelle piazze, percosso con le verghe e portato in giro per la città, una mercante cristiano di nome Giovanni. Tornato a casa disse alla moglie: “Tu mi esorti a ritirarmi dal mondo; credo che sia giunta l’ora in cui Dio mi chiama a vita più perfetta. Per la qual cosa da oggi in poi viviamo come fratello e sorella, pensiamo solo a Dio e prepariamoci al martirio”. Natalia subito accettò il consiglio e da allora si diedero a condurre una vita santa di preghiera e mortificazione. Aurelio, fra  le altre opere di pietà, visitava i cristiani carcerati e Natalia le donne, che pure stavano in prigione per la fede. Tra quei confessori vi era un santo prete chiamato Eulogio, che scrisse poi la storia del loro martirio. Questi consigliò Aurelio di mettere le sue figlie in luogo sicuro e di vendere i propri beni per distribuirli ai poveri, lasciando però il mantenimento alle suddette figlie. Accadde poi in questo frangente che due vergini chiamate Maria e Flora, che erano già state visitate nel carcere da Natalia, patirono il martirio. Queste le apparvero poi in sogno vestite di bianco e risplendenti di luce. Natalia a tale vista disse loro: Avrò io la sorte di seguirvi per quella stessa via che vi ha condotte in cielo? Risposero: “Sì, anche a voi spetta il martirio, e tra poco avrete questa sorte”. Natalia narrò il tutto ad Aurelio e da allora in poi questi due santi consorti non pensarono che a prepararsi a morire per Gesù Cristo e distribuirono tutti i loro beni ai poveri, secondo il consiglio di Eulogio. In questo tempo giunse in Cordova un  monaco di Palestina di nome Giorgio, che aveva trascorso ventisette anni nel monastero di San Saba. Egli era stato mandato dall’abate di un altro monastero, di circa cinquecento monaci, in Africa a cercare elemosine; ma trovò quella provincia oppressa dai Mori. Per questo gli fu consigliato di passare in Spagna, dove essendo  giunto trovò pure la religione cristiana perseguitata dai Mori. Stando in dubbio di ciò che dovesse fare, andò a fare visita a un certo monastero di santi religiosi, che stava a Tabane, per raccomandarsi alle loro preghiere. Qui trovò Natalia, che al vederlo disse: Questo buon monaco sarà nostro compagno nel martirio. E così fu, perché il giorno seguente andò Natalia con il monaco Giorgio in casa sua a Cordova, dove trovarono Felice e sua moglie Liliosa, che con Aurelio parlavano del loro comune desiderio di morire per Gesù Cristo. Per questo, tutti, per impulso divino, in comune accordo, decisero di andare in chiesa per farsi conoscere come cristiani e conseguire il martirio come già l’ottennero. Nella chiesa non furono arrestati, ma al ritorno da quella furono interrogati da un ufficiale moro perché fossero andati in quella chiesa. Risposero: “I fedeli sono soliti visitare i sepolcri dei martiri e questo abbiamo fatto noi dal momento che tutti siamo cristiani”. L’ufficiale subito fece sapere la cosa al giudice della città e il giorno dopo vennero i soldati e giunti alla porta della casa gridarono: “Uscite di qua, miserabili, e venite alla morte, dal momento che avete in fastidio la vita”. Uscirono i due martiri con le loro mogli con giubilo; ed allora Giorgio, il monaco, vedendosi trascurato dai soldati, disse loro: E perché volete voi costringere i cristiani a seguire la vostra falsa religione? Per queste parole subito fu maltrattato dai soldati con pugni e calci e gettato a terra. Natalia gli disse: “Alzati, fratello, e andiamo”. Ed egli rispose: Intanto sorella ho guadagnato questo poco. Si rialzò mezzo morto e fu così presentato al giudice, il quale chiese a tutti perché corressero così ciecamente alla morte e fece loro grandi promesse se avessero rinunciato a Gesù Cristo. Essi d’accordo risposero: “Non ci servono queste promesse; noi disprezziamo questa vita presente, perché speriamo di averne una migliore; noi amiamo la nostra fede e detestiamo ogni altra religione. Il giudice li mandò in prigione. Avendoli poi fatti uscire dopo cinque giorni ed avendoli trovati fermi nella fede di Gesù Cristo, li condannò tutti a morte, all’infuori di Giorgio. Ma, dicendo Giorgio che Maometto era discepolo del demonio e che tutti i suoi seguaci erano dannati, per questo anche lui fu condannato a morte con gli altri. Mentre andavano al supplizio, Natalia incoraggiava il marito. Della qual cosa irritati, i soldati cominciarono a percuoterla con pugni e calci e così l’accompagnarono sino al luogo della esecuzione, dove furono tutti finalmente martirizzati il giorno 27 luglio nell’anno 852.


San Basilio prete
San Basilio era prete in Galazia nella città di Ancira, e al tempo dell’imperatore Costanzo difese fortemente la divinità del Verbo contro gli ariani e così il Santo distolse molte persone da quella eresia. Essendo morto Costanzo, gli successe nell’impero Giuliano Apostata, il quale si sforzò di rimettere in piedi l’idolatria, che allora stava quasi annientata. San Basilio si oppose  con tutte le sue forze contro questa empietà. Andava per tutti i luoghi di Ancira, esortando la gente a guardarsi da questo errore e a disprezzare le promesse di Giuliano, dicendo che l’esempio presto sarebbe venuto meno. Con ciò si attirò l’odio degli idolatri, che si unirono con gli ariani per perseguitarlo. Egli, intrepido nel difendere la fede di Gesù Cristo, un giorno vedendo alcuni Gentili che sacrificavano agli dei, gridando e gemendo, pregò Dio di confondere quei perfidi, perché nessun cristiano rimanesse da loro sedotto. Gli idolatri, udendo quella sua preghiera, si mossero a furore contro di lui ed uno di loro chiamato Macario gli pose le mani addosso e gli disse: “E chi sei tu, che disturbi il popolo e pretendi di distruggere il culto degli dei? Rispose Basilio: “Non sono io ma bensì il Dio del cielo, che con la sua virtù invisibile distruggerà la vostra falsa religione”. Quegli idolatri, accesi di maggior furore, lo presero e lo presentarono a Saturnino, governatore della provincia, dicendo: “Quest’uomo seduce il popolo e ha minacciato di gettare a terra gli altari dei nostri dei”. E Saturnino rivolto a lui disse: “Chi sei tu che dimostri tanto ardire?”. Rispose Basilio: “Io sono cristiano e di ciò mi vanto sopra ogni altra cosa”. Replicò Saturnino: “Se dunque sei cristiano, perché non operi da cristiano?”. E Basilio: “Hai ragione, un cristiano deve comparire tale in tutte le sue opere”. Saturnino cambiò discorso e riprese a dire: “Perché tu sollevi la gente e bestemmi contro l’imperatore come seguace di una falsa religione?”. E Basilio: “Io non bestemmio contro l’imperatore né contro la sua religione, ma dico che in cielo vi è un Signore che i cristiani riconoscono per unico loro Dio. Egli può distruggere in un momento tutto il vostro falso culto. Allora Saturnino gli chiese che cosa poteva egli dire contro la religione dell’imperatore. Basilio cominciò a rispondere, ma Saturnino lo interruppe e disse: “Senza tanti discorsi, bisogna obbedire all’imperatore”. E Basilio: “Io non ho mancato sinora di ubbidire all’imperatore del cielo”. Saturnino: “Chi è questo imperatore del cielo?”. E Basilio: “E’ colui che abita nei cieli e tutto vede, mentre il tuo imperatore comanda solo qui in terra ed è un uomo come gli altri, che presto cadrà nelle mani del grande re”. Il governatore, irritato da tali risposte, ordinò che Basilio fosse sospeso in aria e gli fossero lacerate le coste. San Basilio in quel tormento ringraziava Dio e, interrogato da Saturnino se voleva arrendersi, disse: “Io ho posto tutta la mia fiducia in colui che è il vero re e non vi è cosa alcuna che possa smuovermi”. Il tiranno, vedendo i carnefici stanchi di  tormentarlo, comandò che Basilio fosse condotto in prigione. Per la strada, un certo Felice, cattivo cristiano, lo consigliò di ubbidire all’imperatore. Rispose Basilio: “Vattene o empio: essendo tu avvolto nelle tenebre dei peccati come puoi conoscere la verità?”. Stava allora l’imperatore Giuliano a Pessinunte per esaltare la venerazione verso la dea Cibele, creduta madre degli dei. Qui Saturnino gli parlò di Basilio e sentendo l’ Apostata che Basilio era uomo di molto credito mandò due altri apostati, Elpidio e Pegasio, ad Ancira a vedere se avessero potuto guadagnare Basilio. Quando Pegasio andò a parlargli nella prigione il santo gli rinfacciò: “Traditore, perché hai rinunciato a Gesù Cristo e alla tua salvezza? Come, dopo essere stato lavato nelle acque del battesimo, ti imbratti ora nella idolatria? Come, dopo esserti cibato delle carni di Gesù Cristo, ora siedi alla mensa dei demoni? Eri maestro della verità ed ora sei diventato maestro di perdizione e così hai perduto il tesoro dell’anima tua. Che farai quando Dio verrà a giudicarti? E poi rivolgendosi a Dio disse: “Signore, degnati di liberarmi dai lacci del demonio. Pegasio, allora, confuso disse tutto ad Elpidio ed ambedue poi lo riferirono al governatore, il quale fece mettere di nuovo Basilio all’eculeo, ma il santo sull’ eculeo diceva: “Empio tu puoi far quanto vuoi che io non cambierò mai sentimento, mentre Gesù Cristo è con me e mi conforta”. Giunse poi ad Ancira l’imperatore, che, fattosi venire davanti Basilio, gli chiese il suo nome. Il santo rispose: “Io mi chiamo cristiano: questo è il mio primo nome, gli altri mi chiamano poi Basilio. Ora se io conserverò il nome di cristiano senza macchia, riceverò da Gesù Cristo nel giorno del giudizio una gloria eterna”. Giuliano riprese e disse: “Non ti ingannare! Tu credi in colui che fu fatto morire sotto Ponzio Pilato”. Rispose Basilio: “No, imperatore, io non mi inganno, tu ti inganni, che con la tua apostasia hai rinunciato al Paradiso. Io per me credo in Gesù Cristo, che tu hai rinnegato, mentre egli ti ha collocato in questo trono, da cui per altro presto ti sbalzerà perché tu riconosca la potenza di quel Dio che  hai disprezzato”. Replicò Giuliano: “Tu deliri,  pazzo che sei: non sarà come vorresti tu”. E Basilio intrepidamente soggiunse: “Tu ti sei scordato di Gesù Cristo e Gesù Cristo non si ricorderà più di te. Egli che è l’imperatore di tutti ti spoglierà dell’autorità che hai e ti farà spirare l’anima in mezzo ai dolori e il tuo corpo resterà insepolto. E ciò fra poco ben si avvererà”. Giuliano, infuriato a tali parole disse: “Io avevo pensato di lasciarti andare libero, ma essendo tu giunto a mancarmi di rispetto sino ad ingiuriarmi, per questo comando che ogni giorno ti siano strappati dal corpo  brani di carne”. Il barbaro comando fu posto subito in esecuzione dal conte Frumentino che ebbe l’incarico. E il santo tutto soffriva con fortezza e, vedendosi del tutto lacerato, un giorno chiese di parlare all’imperatore. Il conte credette che Basilio vinto dal dolore volesse arrendersi e sacrificare agli dei. Per questo ne diede subito notizia a Giuliano, il quale ordinò che gli fosse presentato il santo nel tempio di Esculapio. Stando pertanto Basilio nel tempio disse all’imperatore che era presente: “Signore, dove sono gli indovini che sono soliti starti a lato? Non ti hanno essi predetto per quale motivo io sono venuto a te?”. Rispose Giuliano: “Penso che tu sia rientrato in te stesso e voglia venerare la maestà degli dei. Replicò Basilio: “No, io sono venuto per farti intendere che i tuoi dei non sono altro che statue cieche e sorde, le quali portano all’inferno chi crede in loro. E allora prendendo uno dei brani della sua carne lo gettò in faccia all’imperatore dicendo: “Prendi, o Giuliano, giacché ti piacciono questi cibi. Per me la morte è guadagno e Gesù è la mia vita e fortezza: in Lui credo e per amore di Lui volentieri io patisco”. Quanta fu la gloria di Basilio presso i cristiani con tale confessione e costanza, altrettanta fu la rabbia di Frumentino nel vedersi deluso nella sua speranza. Ordinò ai carnefici che prendessero Basilio e lo sferzassero sino a scoprirgli con i ferri le ossa e anche le interiora. E il santo intanto rivolto a Dio diceva: “Sii benedetto o Signore che dai fortezza ai deboli che in te sperano”. Deh, guardami e dammi la grazia di compiere fedelmente il mio sacrificio, cosicché  sia fatto degno del tuo regno eterno. L’imperatore, il giorno seguente, si partì da Ancira senza aver voluto ammettere alla sua presenza Frumentino, il quale si fece di nuovo presentare Basilio e gli disse: “O uomo, il più pazzo fra tutti gli uomini, vuoi arrenderti all’imperatore o vuoi finire i tuoi giorni miseramente fra i tormenti?”. E Basilio rispose: “E non ti ricordi in quale stato ieri hai ridotto il mio corpo che cavava le lacrime ad ognuno che lo guardava per la carneficina che ne hai fatto? Ed ora è piaciuto a Gesù Cristo di renderlo sano come qui lo vedi. Fallo sapere al tuo imperatore, perché intenda la potenza di quel dio che egli ha lasciato per farsi schiavo del demonio. Anche Dio lascerà  lui e lo farà morire nella sua tirannia”. Replicò Frumentino:  “Pazzo, tu farnetichi, ma se non sacrifichi io ti farò forare tutto il corpo con punte di ferro infuocato sino alle viscere”. E il santo disse: “Io non ho avuto paura come sai delle minacce dell’imperatore; ora pensa se possono spaventarmi le tue parole”. Quantunque vedesse già Frumentino che i tormenti non potevano vincere Basilio, tuttavia fece arroventare quelle punte di ferro e conficcargliele nella schiena. E il santo nel soffrire questo ultimo acerbo tormento rivolto a Dio disse: “Ti ringrazio, Signore, che hai tratto dall’inferno l’anima mia. Conserva in me il tuo spirito, così che, superati i tormenti, io termini la mia vita e sia fatto erede del riposo eterno per le promesse fatte da Gesù Cristo. Ti prego di ricevere in pace l’anima mia, confessando io sino alla fine il nome di te che vivi nei secoli dei secoli amen”. E finita questa preghiera il santo, preso come da un dolce sonno in mezzo alle trafitture di quelle punte roventi, spirò serenamente il 28 giugno dell’anno 326.

San Biagio vescovo
San Biagio era di Sebaste città della Armenia. Nella sua gioventù si applicò allo studio della filosofia e vi fece grandi progressi. Si applicò anche alla scienza della medicina ed anche vi riuscì. Ma poiché egli si era soprattutto applicato alla scienza dei santi, cioè del divino amore,  spinto dalla carità verso i poveri, andava spesso a soccorrerli nelle loro infermità. Essendo poi morto il vescovo di Sebaste ed essendo insieme palesi dappertutto i santi costumi e la dottrina di Biagio, tutti i cittadini lo elessero per loro pastore e padre. Egli accettò la carica del vescovado per non opporsi alla divina volontà, che apparve troppo chiara nella sua elezione. Nell’esercizio del governo della sua chiesa non perse l’amore che egli sin da giovane aveva sempre avuto per la solitudine. Per questo si ritirò sopra un monte, vicino alla città chiamato Argeo, e si pose ad abitare qui dentro una caverna. Stando il santo in questo luogo, il Signore volle onorarlo con molti prodigi, per manifestare agli altri la sua santità. Perciò venivano le genti da diverse parti a chiedergli soccorso per le loro infermità, così del corpo come dell’anima. Anche le fiere  andavano  nella sua grotta per riceverne aiuto nelle loro necessità. Esse con un nuovo prodigio erano così discrete che quando trovavano il santo a pregare non lo molestavano, ma pazienti e mansuete aspettavano che egli avesse finito e non se ne tornavano se prima non avessero ricevuto la sua benedizione. Verso l’anno 315, Agricola, governatore di Cappadocia e della Armenia minore, essendo venuto a Sebaste, mandato da Licinio imperatore per dare morte a tutti i cristiani, giunto che fu alla città, subito ordinò che tutti i cristiani, che stavano per amore della fede nelle prigioni, senza eccezione fossero esposti alle fiere. Per questo mandò alla foresta vicina a prendervi delle fiere per eseguire il suo barbaro disegno. Andarono dunque le genti per raccogliere queste fiere. Giunti che furono al monte Argeo trovarono una moltitudine di tali bestie selvagge che stavano pigiate all’entrata della caverna ed in mezzo a loro stava San Biagio, che in silenzio pregava . Stupiti a quella vista riferirono il tutto ad Agricola e quegli, benché ammirato del fatto, nondimeno ordinò che gli fosse condotto Biagio. Andarono i soldati e gli intimarono l’ordine del governatore. Allora egli con viso giulivo disse: “Andiamo, andiamo a dare il sangue per Gesù Cristo”. E rivolto a coloro che gli stavano intorno confessò che era gran tempo che egli sospirava il martirio e che appunto in quella notte  Dio gli aveva fatto sapere che si degnava di accettare il sacrificio della sua vita. Sparsa poi la voce tra i cittadini che per ordine del governatore si portava il loro santo vescovo a Sebaste, si riempirono le strade di persone e tutti con lacrime di tenerezza gli chiedevano la benedizione. Vi fu in modo speciale una donna, che, piangendo, gli porse ai piedi un suo figliolo, il quale stava già esalando l’anima, soffocato da una spina che gli si era messa di traverso in gola. Essa piena di fiducia lo pregava di liberare il figlio dalla morte. San Biagio, intenerito dalle lacrime di quella madre afflitta, si mise in preghiera e, come scrive lo storico,  pregò il Signore che, non solo  quel fanciullo, ma  tutti  coloro che per l’avvenire si fossero a lui rivolti per ottenere la guarigione di tale infermità restassero consolati. Appena egli terminò la preghiera il fanciullo guarì. E quindi ebbe origine la devozione comune dei popoli verso questo santo per i mali della gola. Giunto poi San Biagio alla città e presentato al governatore, gli fu da lui ordinato che subito sacrificasse agli dei immortali. Rispose il santo: “Vi è un solo Dio immortale ed è quello che io adoro”. Agricola, sdegnato da tale risposta, lo fece a questo punto così crudelmente e lungamente flagellare che il santo fu creduto non poter più vivere. Comparendo egli ancora sereno e allegro dopo quel gran supplizio, fu mandato in prigione, ove continuò a fare tanti miracoli che il governatore lo fece di nuovo lacerare orribilmente con uncini di ferro. Il sangue scorreva a rivi dalle membra di Biagio. Certe donne devote ebbero la devozione di raccogliere quel sangue e così fu presto premiata la loro pietà. Esse furono prese con due loro bambine e condotte al governatore, il quale comandò loro di sacrificare agli dei sotto pena della vita. Quelle sante donne chiesero degli idoli. Alcuni credettero per sacrificare agli dei; ma esse subito, appena poterono averli nelle mani, li gettarono nel lago e dopo ciò furono subito decapitate con le loro bambine. Agricola pieno di rabbia e di confusione si rivolse contro San Biagio e non contento di tanti strazi che gli aveva fatto patire, aggiunge un altro autore, lo fece mettere sull’ eculeo. Con pettini di ferro gli fece straziare le carni e poi su quelle carni lacerate  fece mettere una corazza infuocata. Ma alla fine, disperando di poterlo vincere, ordinò che fosse buttato nel lago. Il santo si fece il segno della croce e camminando su quelle acque si pose a sedere in mezzo al lago e invitò gli altri a fare lo stesso, se credevano che i loro dei erano potenti a salvarli. Alcuni temerari tentarono di farlo, ma subito restarono affogati. Al contrario si sentì che il santo fu invitato in quel tempo da una voce celeste ad uscire dal lago e ad andare a ricevere il martirio. E così avvenne poiché egli,  giunto a terra, fu per ordine del governatore subito decapitato. Ciò accadde nell’anno 319.