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Lettera ai Romani cap1

 

                                             Introduzione

“Il fatto che, rispetto alle altre lettere dell’Apostolo Paolo, quella scritta ai Romani sia ritenuta più difficile a capirsi, a me sembra dovuto a due motivi: uno, perché Paolo adopera dei periodi talvolta confusi e poco espliciti; l’altro, perché affronta in essa moltissime questioni e specialmente quelle sulle cui base gli eretici sono soliti sostenere che la causa delle azioni di ciascuno non deve essere attribuita all’intenzione, ma alla diversità di natura; e partendo da poche espressioni di questa lettera tentano di sconvolgere il senso di tutta la Scrittura, che insegna la libertà di arbitrio concessa da Dio all’uomo. Perciò noi, elevando innanzitutto la nostra preghiera a Dio “ che insegna all’uomo la scienza”, che dà “per mezzo dello Spirito la parola di sapienza” e che “illumina ogni uomo che viene in questo mondo”, perché si compiaccia di farci degni di comprendere le parabole e le espressioni oscure e i detti dei sapienti e gli enigmi, arriveremo così finalmente all’esordio del commento alla lettera di Paolo ai Romani, premettendo ciò che gli studiosi sono soliti osservare e cioè che l’apostolo in questa lettera sembra sia stato più perfetto che nelle altre...” ( Origene )

 

Questa breve introduzione di Origene al suo famoso commento ben ci dice la difficoltà che la chiesa incontra da sempre ogni volta che cerca di condurre un’esegesi chiara e sistematica delle parole dell’Apostolo. Molto si è scritto e molto si scriverà al riguardo.

Nell’opera si sono cimentate le menti più belle ed illuminate della chiesa: da Origene, a Tommaso d’Aquino, fino a Lutero e a Barth, per citare i nomi più famosi.

La nostra primitiva intenzione era quella di ripercorrere insieme ad essi la storia di un’esegesi.

La massa enorme del lavoro, ed il conseguente   appesantimento del prodotto finale, ci ha fatto optare per una soluzione più semplice e per una lettura più personale, che non ignorando e nulla scartando di quanto scritto, risulti alla fine di più facile comprensione, alla portata di tutti e non solo degli studiosi. 

La prima grande difficoltà che si incontra nell’esegesi della Lettera è data proprio dalla traduzione. Paolo salta spesso verbi ed articoli, dando molto per scontato e sottinteso… E questo mette subito in “crisi” chi vuol attenersi ad un’interpretazione rigida e fedele del testo. Il linguaggio paolino inoltre fa largo uso del paradosso, costringendo il lettore ad andare oltre per  intendere ciò che è nascosto sotto il velo della forma.

Ancor di più, la ferrea logica di un discorso è continuamente interrotta da un altro, per essere a sua volta ripresa più avanti, e non una sola volta.

Difficile pertanto un commento che non sia per certi aspetti ripetitivo e non si dimostri insistente su certi argomenti, sulla scia tracciata dall’Apostolo stesso.

Quando si gusta un cibo è la sostanza che conta, la forma assai meno. Nessuna paziente attesa e perseveranza nella lettura può esserci in chi non ha fame della Parola di Dio e non sa apprezzarne il sapore.

La forma è assai poco invitante, ma nonostante questo l’ appetito è saziato ed anche il gusto ne esce appagato.

Scriveva Gerolamo “Non si vive di legumi, ma di pane”.  Non c’è altro pane che dia la vita se non quello che è Parola di Dio: in qualsiasi forma, diversamente trattato, salato e digerito, è sempre l’unico e medesimo pane.

A tutti gli amanti del Signore dedichiamo questa breve lettura del testo paolino. Qualcuno potrà trovare in essa elementi di novità e di provocazione.

Non è nel nostro intento creare una nuova teologia, in contrasto con quella cattolica. Siamo partiti dalla tradizione non per creare ed affermare una qualsiasi divisione o diversità, ma per evidenziare l’infinita ricchezza della Parola, il cui significato trascende sempre ed in ogni caso l’intelligenza umana.

Come lo scriba istruito nelle cose del regno dei cieli, di cui parla Gesù, noi abbiamo cercato di attingere cose nuove e cose vecchie, ad edificazione e consolazione di tutti quelli che cercano il Signore come l’unico bene e la perla preziosa, in confronto alla quale tutto il resto è nulla e degno pertanto di essere perduto. La traduzione è tratta dall’edizione San Paolo a cura di Alberto Bigarelli.

 

 

 

                     Lettera ai  Romani

 

                                       Cap. 1   

 

1,1 Paolo servo di Cristo Gesù, chiamato apostolo, separato per il vangelo di Dio,2 che fu preannunziato per mezzo dei suoi profeti nelle Sacre Scritture, 3 riguardo al Figlio suo, nato dalla discendenza di Davide secondo la carne,4 stabilito Figlio di Dio in potenza secondo lo Spirito di santità dalla resurrezione dei morti: Gesù Cristo nostro Signore,5 per mezzo del quale ricevemmo la grazia ed il mandato per portare l’obbedienza della fede fra tutte le genti, per il  suo nome, 6 tra le quali siete anche voi, chiamati di Gesù Cristo,7 a tutti coloro che sono in Roma amati di Dio, chiamati santi, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.

8 Anzitutto quindi rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo per tutti voi, poiché la vostra fede è annunciata nel mondo intero. 9 Infatti mi è testimone Dio, al quale servo nel mio spirito nel vangelo del Figlio suo, 10 come incessantemente faccio ricordo di voi sempre nelle mie preghiere, pregando se forse ora finalmente riuscirò nella volontà di Dio a venire presso di voi.11 Desidero infatti vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale, perché voi siate fortificati.12 Questo poi è per essere consolato insieme con voi per mezzo della fede degli uni e degli altri, di voi e di me.13 Ora non voglio che voi ignoriate o fratelli che molte volte mi proposi di venire da voi e fui impedito fino a qui, affinché qualche frutto abbia anche tra voi come anche tra i restanti gentili.

14 Ai Greci e ai barbari, ai sapienti e agli stolti sono debitore,15  c’è così da parte mia la prontezza ad annunciare il vangelo anche a voi che siete in Roma.

16 Non mi vergogno infatti del vangelo. Infatti è potenza di Dio per la salvezza per ogni credente, per il Giudeo prima e per il Greco. 17 La giustizia di Dio infatti in questo viene rivelata: da fede a fede, come è scritto: Ora il giusto vivrà di fede.

18 Si rivela infatti l’ira di Dio dal cielo su ogni empietà ed ingiustizia degli uomini che trattengono la verità nell’ ingiustizia, 19 perché il conoscibile di Dio è manifesto tra loro. Dio infatti ad essi si è manifestato.

20 Infatti le cose invisibili di lui dalla creazione del mondo per mezzo delle opere essendo percepite sono osservate: la sua eterna potenza e divinità, così da essere essi inescusabili, 21 poiché conoscendo Dio non come Dio resero gloria o resero grazie, ma diventarono vuoti nei loro ragionamenti e fu oscurato il loro cuore insensato. 22 Ritenendo di essere sapienti divennero stolti e 23 cambiarono la gloria dell’incorruttibile Dio in immagine ad effigie corruttibile di uomo e di volatili e di quadrupedi e di rettili.

24 Perciò Dio li consegnò nelle brame dei loro cuori all’impudicizia così da disonorare i loro corpi fra loro: 25 essi che cambiarono la verità di Dio in menzogna ed adorarono e servirono la creatura anziché il creatore, il quale è benedetto nei secoli. 26 Per questo Dio li consegnò a una passione di vergogna, infatti le loro femmine cambiarono l’uso naturale in quello contro natura, 27 similmente anche i maschi avendo lasciato l’uso naturale della femmina si accesero nella loro brama gli uni verso gli altri, maschi con maschi operando turpitudine e ricevendo in se stessi il salario che conveniva del loro traviamento

28 E poiché non stimarono di avere conoscenza di Dio, Dio li consegnò ad una mente riprovevole per fare le cose non convenienti, 29 ripieni di ogni ingiustizia, perversità, avidità, cattiveria, pieni di invidia, di omicidio, di contesa, d’inganno, di malignità, di mormorazione, 30 calunniatori, odiatori di Dio, insolenti, tracotanti, smargiassi, inventori di mali, disobbedienti ai genitori, 31 ottusi, perfidi, insensibili, senza pietà, 32 che, conoscendo il decreto di Dio, che sono degni di morte coloro che fanno tali cose, non solo fanno queste cose, ma anche approvano quelli che le fanno.

 

1,1 Paolo servo di Cristo Gesù, chiamato apostolo, separato per il vangelo di Dio,

Nessuno si fa portatore di un messaggio altrui senza prima presentarsi. Giova dire innanzitutto il proprio nome, in quale rapporto siamo con colui che ci manda e quale ministero svolgiamo per lui, per concludere nella proclamazione e nell’esaltazione della Sua bontà, per la grazia e la pace che riversa nei nostri cuori.

Paolo è dunque colui che scrive, servo la sua dignità ed il suo stato, Cristo il suo Signore.

Nessun servo parla ed opera per se stesso, ma solo per compiacere al suo padrone. Ogni servo di Dio è consapevole della dignità del proprio stato, ma anche di ogni obbligo che porta con sé.

E questo soprattutto quando non si nasce servi di Dio, ma tali si diventa dopo essere stati affrancati dal Maligno. Non c’è padrone che non abbia un disegno ed un progetto su coloro che Egli si è acquistato, ed è vero servo colui che in tutto si fa conforme alle aspettative del suo Signore.

Il primo problema che dobbiamo risolvere è proprio in questo appellativo di servo di Cristo Gesù che Paolo dà a se stesso. Altra è la dignità di un servo, altra quella di un amico, altra ancora quella di un figlio. Dove è mai la nostra adozione a figli di Dio, se ancora siamo considerati servi?

E perché mai Gesù ha detto ai suoi discepoli: “Non vi ho chiamato servi, ma amici?” L’adempimento della salvezza è forse un di meno  rispetto alla promessa? O  si è accorciato il  braccio del Signore? Niente di tutto questo! Paolo esordisce in maniera paradossale e provocatoria, premettendo da subito il motivo conduttore del suo discorso. Non c’è vera adozione a figlio, se non per colui che si riconosce servo di Cristo. E non si diventa servi di Cristo, se non in quanto da Lui riscattati dalla schiavitù del Satana.

Altro è essere figlio di diritto, altro è essere figlio per una grazia ricevuta. Per farci suoi Cristo ha dovuto pagare con la sua vita il prezzo del riscatto.

Ma tutto questo è per noi  soltanto nella consapevolezza che servi inutili siamo e che nulla è a noi dovuto, ma tutto è donato. “ Chi si umilia sarà esaltato, e chi si esalta sarà umiliato”. Quanto più si è vicini a Dio, tanto più bisogna stare sottomessi, per non cadere nell’illusione di una bontà e di una libertà che non ci appartengono in proprio, ma sono semplicemente date e create in noi dal Signore.

chiamato apostolo...

Non c’è chiamata che non venga da un altro e non c’è vera sequela se non quella che è conforme alla chiamata. Se la parola servo indica lo stato e la dignità di Paolo, con apostolo si dice la sua vocazione. Ogni servo ha una sua chiamata,  così come è deciso dal suo Signore.

separato per il vangelo di Dio

Tutti coloro che servono l’unico Signore hanno pari dignità e pari condizione, ma sono destinati ad un servizio diverso. Così nella sua famiglia, che è la chiesa, Dio deve fare separazioni e divisioni di ruoli: ogni ruolo è accompagnato da un carisma e da una particolare benedizione. In virtù di questo, Paolo è stato trovato nel novero degli apostoli; segregato per il vangelo, cioè messo da parte, liberato da ogni altro ufficio, perché abbondi sulla sua bocca la parola della sapienza divina, in essa istruito ed in essa illuminato. E tutto questo viene da Dio e non dall’uomo.

Non è vero apostolo se non colui che è mandato da un altro e non è dovuto l’ascolto se non a colui che è mandato da Dio.

2 che fu preannunziato per mezzo dei suoi profeti nelle Sacre Scritture

Dopo essersi presentato come servo di Cristo e apostolo del suo vangelo, Paolo spende due parole su questo vangelo. Perché non si pensi a chissà quale novità,  al di fuori della tradizione e di ciò che Dio ha fatto di sé conoscere.

E’ giustificata la diffidenza per un annuncio che presuma di ogni novità, senza offrire alcuna garanzia di verità. Nessuna novità per la vita eterna può essere annunciata in tutta chiarezza, senza un qualche preavviso e senza che i cuori siano stati preparati. Presentando il suo vangelo, Paolo vuol prevenire ogni lecito dubbio. Non è un colpo di testa dell’ultima ora, ma semplicemente la manifestazione piena e definitiva di quanto già promesso da Dio, per mezzo dei suoi profeti nelle Scritture sante.

E’ liberato dal confronto chi non crede alle Scritture: Paolo non vuole con lui contendere. E’ messo al corrente della novità chi vive della parola di Dio, perché si è adempiuta ogni promessa.

3 riguardo al Figlio suo, nato dalla discendenza di Davide secondo la carne

Il Figlio di Dio, per quel che riguarda la sua natura umana, è stato fatto dal seme di Davide. E’ generato nel tempo colui che prima non esisteva, se non nel progetto eterno di Dio. Ma in quanto alla sua natura divina, il Figlio da sempre è presso il Padre. Non c’è ragione che non abbia in sé la propria parola e non c’è Logos eterno se non nell’eterna generazione del Figlio da parte del Padre.

4 stabilito Figlio di Dio in potenza secondo lo Spirito di santità dalla resurrezione dei morti: Gesù Cristo nostro Signore,

 Gesù  è stabilito Figlio di Dio in potenza dall’eternità, ma per il Padre e per il Suo Spirito; per noi, solo dalla resurrezione dei morti. Soltanto dopo di essa ed in virtù di essa noi possiamo conoscere quale potere o potenza sia in Cristo Gesù,  non solo di risorgere dai morti, ma di far risorgere noi stessi dalla morte. Forse Paolo vuol escludere un qualche potere del Figlio sull’uomo, prima della Sua venuta in Israele? Niente affatto! Perché il Padre tutto ha messo nelle mani del Figlio. Ma non sempre chi ha potere lo manifesta in ogni tempo in tutta la sua pienezza. Quale potenza più grande di Colui che è resuscitato dai morti, secondo lo Spirito di santità? E quale manifestazione più grande di questa potenza se non in coloro che egli conduce dalla morte alla vita?

“ Nella risurrezione il nuovo mondo dello Spirito Santo viene in contatto col vecchio mondo della carne… Nella misura in cui Gesù si rivela e viene scoperto come il Messia, egli è già prima del giorno di Pasqua “insediato come Figliuolo di Dio” così come lo è dopo il giorno di Pasqua. Il significato di Gesù è appunto questo: insediare il Figliuolo dell’uomo come Figlio di Dio… In quanto egli era egli è; ma in quanto egli è, quello che egli era appare trascorso. Nessun connubio, nessuna confusione tra Dio e l’uomo, nessuna ascesa dell’uomo nel divino e nessuna infusione di Dio nella essenza umana, si compiono qui, ma quello che in Gesù Cristo tocca l’uomo, in quanto non lo tocca, è il Regno di Dio, creatore e redentore. Esso è diventato attuale. Esso si è avvicinato a noi. Questo Gesù Cristo è il “nostro Signore”. Per mezzo della sua presenza nel mondo e nella nostra vita, noi siamo negati come uomini e fondati in Dio, guardando a lui siamo fermati e posti in movimento, come coloro che aspettano e si affrettano. Egli sta, come il Signore, al disopra di Paolo e dei Romani: perciò Dio, nella lettera ai Romani, non è una vana parola. ( Barth )

5 per mezzo del quale ricevemmo la grazia ed il mandato per portare l’obbedienza della fede fra tutte le genti, per il suo nome, 6 tra le quali siete anche voi, chiamati di Gesù Cristo,7 a tutti coloro che sono in Roma amati da Dio, chiamati santi, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.

Non c’è vera grazia se non quella del Figlio e nessun mandato ha valore se non quello che viene da Cristo. Se la grazia passa attraverso la morte di Gesù, il mandato passa attraverso la Sua grazia. Nessuno può chiamarsi apostolo se non in quanto mandato da Dio. E non  è mandato se non colui che è stato graziato, per l’ obbedienza della fede.. Si è graziati non per una qualsiasi obbedienza, ma soltanto per quella che viene dalla fede, e si è mandati per riportare tutti all’unica fede… per il suo nome, perché in nessun altro nome vi è salvezza. 

“Da Gesù Cristo, la grazia e l’apostolato” di Paolo. Grazia è il fatto inconcepibile che Dio si compiace in un uomo, e che un uomo può rallegrarsi in Dio. Soltanto quando è riconosciuta come inconcepibile, la grazia è grazia. Appunto perciò vi è grazia soltanto nel riflesso della risurrezione, come dono di Cristo, che copre la distanza tra Dio e l’uomo, nell’atto stesso che l’allarga. Ma non appena Dio conosce l’uomo da lontano ed è conosciuto dall’uomo nella sua inscrutabile altezza, l’uomo viene a trovarsi inevitabilmente, verso i suoi compagni in umanità, nei rapporti di un “messaggero”. “Sono costretto. Guai a me se non annunciassi la buona novella.” ( 1 Cor. 9,16) La differenza tra Paolo e gli altri cristiani può essere soltanto di un più e di un meno. Ovunque è la grazia di Cristo, l’uomo partecipa, sia pure con la più grande ritrosia e scepsi, all’annuncio della svolta dei tempi e di tutte le cose e della risurrezione…

In quanto sono chiamati alla santità, non appartengono a se stessi né al vecchio mondo che passa, ma a colui che li ha chiamati. Anche per essi il Figliuolo dell’uomo è insediato come Figlio di Dio, mediante la potenza della risurrezione. Anch’essi sono, qui ed ora, prigionieri della conoscenza della grande miseria e della grande speranza, anch’essi sono, a modo loro, prescelti ed isolati per Dio… Anch’essi partono dalla nuova premessa “grazia e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo”. Possa questa premessa accadere sempre di nuovo! Possa la loro pace essere il loro turbamento ed il loro turbamento essere la loro pace! Questo è il principio e la fine e il contenuto della lettera ai Roman”i. ( Barth )

…tra le quali siete anche voi, chiamati di Gesù Cristo, 7 a tutti coloro che sono in Roma amati di Dio, chiamati santi, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.

Qualcuno si è dimenticato della sua chiamata? Forte è il richiamo di Paolo. Non invano siamo detti cristiani… perché fatti oggetto dell’amore di Cristo, che nessuno trascura e nessuno abbandona.

chiamati di Gesù Cristo. Non c’è sposa che non porti il nome dello sposo. E non è sposato se non colui che è separato da tutti gli altri per un diverso rapporto d’amore. chiamati santi Non si è detti di Gesù Cristo se non in quanto si è chiamati ad una separazione e ad una diversità da tutti coloro che di Cristo non sono. Per uno sposo santo ci deve essere una sposa santa. Voglia il cielo che non sia una semplice parola…., ma grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.

L’unico vero sposo porta con sé “ogni ben di Dio”, perché la nostra gioia sia piena ed il nostro cuore dimori nella sua pace.

Quale introduzione più bella e più illuminata per una lettera ai fratelli ? Ci dia consolazione la consapevolezza di esseri amati da Dio, ci colmi di grazia il matrimonio con il suo Figlio, ci dia eterna pace la comunione con Il Padre ed il Figlio nel loro Spirito.

8Anzitutto quindi rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo per tutti voi, poiché la vostra fede è annunciata nel mondo intero.

La gioia più grande per un apostolo è sapere che l’annuncio ha dato i suoi frutti e che l’eco della fede arriva lontano e passa di bocca in bocca, fino ai confini del mondo. E di questo si deve rendere grazie a Dio, che per mezzo di Gesù Cristo si è reso manifesto ai molti. L’annuncio del Vangelo non ha bisogno di pianificazione alcuna; passa attraverso la bocca di pochi, ma arriva alle orecchie di tutti. Tanto grande è lo stupore che la fede in Cristo porta con sé. Ed è singolare un rapporto d’amore vissuto in maniera esclusiva con il proprio Dio, che al contempo cerchi e si rallegri per una dilatazione ed un allargamento all’infinito del suo cerchio. L’amore umano è esclusivo soltanto perché esclude chi non è nel novero dei due, l’amore di Dio è esclusivo soltanto perché inclusivo di tutta l’umanità. Non solo ama il Signore al di sopra di tutto e di tutti, ma al contempo tutti vuol rendere compartecipi del proprio Bene. Tanto è grande l’amore del Signore che ce n’è per ogni uomo ed ogni uomo invita al banchetto nuziale. I beni e le ricchezze terrene conoscono un limite ed una fine:  bisogna custodirli gelosamente e tenerli nascosti perché altri non ne abbiano parte. I beni del cielo non hanno misura e non hanno termine: arricchiscono  tutti  e creano un vincolo che è per la vita eterna.

“La risurrezione ha dimostrato la sua potenza: anche in Roma vi sono dei cristiani. Essi non lo sono diventati per opera di Paolo. Ma chiunque sia colui che ha portato loro la chiamata di Cristo, essi sono chiamati. Motivo sufficiente per ringraziare: la pietra è stata tolta dal porta del Sepolcro, la Parola circola, Gesù vive, egli è anche nella capitale del mondo… Non è per la pietà religiosa dei cristiani romani, o per altre doti umanamente evidenti che Paolo ringrazia il suo Dio, ma semplicemente per il loro esserci come cristiani. Le qualità particolari, o le azioni singolari sono meno importanti del fatto che la bandiera è piantata, il nome del Signore è pronunciato e confessato, il Regno di Dio è atteso ed annunciato. In ciò consiste la fede, la fedeltà dell’uomo che ricambia la fedeltà di Dio. Dove questo fatto si verifica, la crisi iniziata dalla risurrezione di Gesù è in corso: qui si rivela ch’egli è insediato come figlio di Dio; qui il servo del Signore ha motivo di ringraziare. E poiché le porte, in Roma, sono aperte al Signore, sono aperte anche a lui, al servo. ( Barth )

Da Origene “Ma neppure l’espressione “al mio Dio” deve essere interpretata con trascuratezza. Infatti tale espressione non può essere pronunciata se non da santi, di cui egli è detto Dio, come è detto Dio di Abrahamo, di Isacco e di Giacobbe … ( Origene )

9 Infatti mi è testimone Dio, al quale servo nel mio spirito nel vangelo del Figlio suo, 10 come incessantemente faccio ricordo di voi sempre nelle mie preghiere, pregando se forse ora finalmente riuscirò nella volontà di Dio a venire presso di voi.11 Desidero infatti vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale, perché voi siate fortificati.12 Questo poi è per essere consolato insieme con voi per mezzo della fede degli uni e degli altri, di voi e di me.13 Ora non voglio che voi ignoriate o fratelli che molte volte mi proposi di venire da voi e fui impedito fino a qui, affinché qualche frutto abbia anche tra voi come anche tra i restanti gentili

Chi ha sempre il Signore nel cuore, nel cuore ha sempre i fratelli di fede. Rende lode incessantemente a Dio, ma nel contempo lo supplica per i bisogni propri ed altrui. Ogni amore terreno ha i suoi testimoni, l’amore di Dio è pago della sola testimonianza dello Spirito Santo. Nulla importa se gli uomini non vedono nel nostro cuore: un altro testimonia in noi, per noi: lo Spirito di verità che ci è dato in Cristo Gesù. Basta a Paolo la testimonianza del Signore per sentirsi accreditato presso i fratelli che sono in Roma. L’Apostolo da tempo desidera vederli, per comunicare loro qualche dono spirituale. E’ qualcosa di diverso e molto di più del bisogno umano di parola: è la sovrabbondante grazia dell’amore divino che ci spinge ogni giorno a cercare il volto dei fratelli, dopo che nel Figlio abbiamo visto il volto del Padre. Perché la fede dell’uno è fortificata dalla presenza dell’altro. Altro è la parola che ci arriva da lontano, altro è la parola viva che è da noi udita allorché esce dalla bocca del fratello.  Grande è in Paolo il desiderio di fare visita alla comunità che è in Roma, ma tutto questo deve essere vagliato dal Signore, per essere trovato conforme alla sua volontà. Anche il sentimento più puro e più santo va rimesso nelle mani del Signore. Le scelte affrettate e precipitose non vengono mai da Dio, anche se appaiono buone e sante. Ora, finalmente, sembra che sia volontà di Dio che Paolo incontri i fratelli di Roma. Altre volte ed in altri tempi questo proposito non è stato approvato dal Signore e ha trovato un impedimento da parte Sua. Non per questo l’Apostolo si è scoraggiato, ma ha accettato serenamente la volontà di Dio, ben sapendo che una propria iniziativa non avrebbe portato frutti. E’ benedetto e dà frutto soltanto ciò che è volontà del Signore; piaccia o non piaccia al nostro cuore. E chi non si lascia prendere dai sentimenti forti e non vorrebbe in qualche modo appagarli? Non c’è fuoco purificatore che non passi attraverso il tempo della paziente attesa e della consapevole rinuncia a tutto quello che ci è più caro. Nessuno si scoraggi: Se il Signore ci proibisce oggi gli affetti più buoni ed innocenti è soltanto perché vuol ridarceli più grandi e più puri. Dopo la consolazione dello Spirito Santo avremo anche la consolazione dei fratelli.

“Coloro che si conoscono in Dio, si capisce che desiderino conoscersi anche di persona, se è concesso. Ma sarà concesso? E’ necessario che lo sia? Per nulla affatto: questo desiderio non ha nulla a che fare col Regno di Dio. La volontà di Dio deve compiersi prima di ogni cosa; forse in seguito, vi si potrà aggiungere l’adempimento dei desideri umani, forse anche no . Ciò che deve avvenire, in connessione con quello che Dio vuole, avverrà… Quel desiderio ha un buon fondamento. Gli uomini che si incontrano sulla via di Dio, hanno qualche cosa da comunicarsi a vicenda. L’uno può essere qualcosa per l’altro, non certo in quanto vuole essere qualcosa per lui, non dunque per una sua ricchezza interiore, non per quello che egli è, ma per quello che egli non è, per la sua povertà, per il suo gemere e sperare, per il suo attendere e tendere, per tutto quello che nel suo essere rinvia a qualcosa di diverso, che è oltre il suo orizzonte e oltre la sua forza... Lo Spirito dà grazia per mezzo di lui, appunto, appunto perché non tiene a farsi valere positivamente. E in questo, colui che comunica, riceve, e riceve quanto più comunica, e colui che riceve, comunica quanto più riceve... Il desiderio di bussare così insieme, alle porte del Regno dei cieli, di essere così mossi insieme dallo Spirito, può ben sorgere in noi; mentre è certo che la compagnia in sé è qualcosa di vuoto e insignificante… ( Barth )

“Vediamo poi cosa significa l’espressione: “A cui servo nel mio spirito”. “Servire nello spirito” mi sembra che sia simile - anzi indichi qualcosa in più – ad “adorare nello spirito”, come anche il Signore stesso diceva alla donna samaritana: “Viene l’ora, ed è adesso, quando i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità”. Paolo però non solo adora in spirito, ma anche serve fedelmente nello spirito. Infatti uno può adorare anche senza affetto; invece il servire con fedeltà è proprio di colui che è vincolato dall’affetto. Dunque l’apostolo serve fedelmente a Dio, non nel corpo e neppure nell’anima, ma nella parte migliore di se stesso, cioè nello spirito. Infatti, scrivendo ai Tessalonicesi, egli indica  come nell’uomo vi siano queste tre componenti quando dice: “Affinché si conservi integro il vostro corpo e l’anima e lo spirito nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo”. E Daniele dice: “Lodate il Signore o spiriti ed anime dei giusti”. Pertanto l’apostolo dà la preferenza dovunque allo spirito e ripudia la carne o ciò che è della carne. Anzi, anche della legge stessa loda lo spirito, mentre disprezza la lettera come carne quando dice: ”La lettera uccide, lo spirito invece vivifica”… La Legge è spirituale; chi dunque comprende che la legge è spirituale, questi serve a Dio con lo spirito: Onde anche altrove dice: “Se infatti vivrete secondo la carne, morirete”, se vivrete cioè secondo la lettera che uccide; “Se invece mortificherete con lo spirito le azioni della carne, vivrete”. Bisogna certo ricercare se anche degli antichi padri, patriarchi o profeti, i quali essi pure furono perfetti, si debba ritenere che abbiano servito a Dio nello spirito, dal momento che anche “Abrahamo desiderò vedere il giorno del Signore e lo vide e ne fu lieto”, e “Mosè ed Elia apparvero nella gloria “parlando insieme con Gesù sul monte. In ciò si dimostra che la legge e i profeti concordano con i vangeli e rifulgono nella medesima gloria propria della visione e comprensione spirituale”. ( Origene )

14 Ai Greci e ai barbari, ai sapienti e agli stolti sono debitore,15  c’è così da parte mia la prontezza ad annunciare il vangelo anche a voi che siete in Roma.

Chi ha ricevuto doni da distribuire agli uomini si sente in debito non soltanto verso Colui che glieli ha dati, ma anche verso coloro a cui deve darli. Paolo dopo aver reso grazie al Signore, tutti vuol far

compartecipi del Vangelo che gli è stato rivelato. A cominciare da coloro che ne hanno più bisogno, da quelli che hanno il nome di Greci e di sapienti, per concludere con coloro che sono considerati barbari e stolti. Non c’è uomo più insipiente di quello che si considera sapiente. A lui si deve innanzitutto la parola di verità, perché abbandoni ogni inganno ed ogni illusione. Per costruire un nuovo edificio, bisogna prima abbattere il vecchio e, certamente, quanto più grande e solida è la vecchia costruzione, tanto più difficile e problematica ne è la demolizione. E’ più facile costruire su di un terreno povero, ma vergine. Il cuore dei barbari e degli stolti è privo di quelle sovrastrutture che ostacolano l’opera della fede. La loro salvezza non ha quell’urgenza che è richiesta per una mente ben costruita e ben strutturata. Ai Giudei e ai Greci innanzitutto è dovuto l’annuncio del Vangelo, non in quanto i migliori degli uomini, ma i peggiori agli occhi di Dio, in quanto presuntuosi di una diversità e di una sapienza che operano in proprio e non attingono al  Creatore. Se ci può essere qualche preferenza agli occhi del Signore, nessuna preferenza da parte dell’apostolo, semplicemente l’urgenza di un messaggio per coloro che per ragioni diverse si credono i primi.

16 Non mi vergogno infatti del vangelo. Infatti è potenza di Dio per la salvezza per ogni credente, per il Giudeo prima e per il Greco. 17 La giustizia di Dio infatti in questo viene rivelata: da fede a fede, come è scritto: Ora il giusto vivrà di fede.

Si prova vergogna davanti agli uomini per ciò che non è gradito ai loro occhi e alla loro intelligenza. Qualsiasi novità di vita è accolta con una certa diffidenza ed ostilità. Il mondo è pieno di ciarlatani che hanno la bocca piena di lusinghe e di promesse e anche l’apostolo di Cristo può passare per uno dei tanti. Quando poi entra in ballo la religione… c’è veramente di tutto e molti provano fastidio e ripulsa per le stravaganze e le assurdità che vengono sfornate in continuazione. Se il rapporto con gli uomini non è certo incoraggiante, l’apostolo trova l’ardire dell’annuncio  in una retta coscienza che è approvata e confermata dal Signore.  Dagli uomini può venirci la vergogna, da Dio sicuramente ci viene ogni gloria. Tanto basta perché Paolo annunci il Vangelo a tutti,  non solo ai fratelli ebrei, ma anche ai pagani che sono in Roma. Non ci può essere annuncio della salvezza se non da parte di chi si sente un salvato e soltanto per chi desidera essere salvato. Cerchi la salvezza da una vita che è morte? Hai capito che  non puoi farcela da solo senza l’aiuto di Dio? Eccoti il suo Vangelo! Se tu non puoi salire in cielo per prendere consigli…  il cielo è disceso in terra, per dirti tutto quello che devi sapere e per farti conoscere tutto ciò che si deve conoscere. Se non sei nel novero di quelli che credono nella salvezza, non c’è nulla che possa interessarti e che tu possa comprendere. L’annuncio del Vangelo non viene fatto in maniera indiscriminata a tutti gli uomini, ma soltanto a tutti coloro che cercano e vogliono la vita eterna. Non c’è spazio per gli scettici e per i cuori tiepidi. Bisogna crederci e non si crede se non in quello che si desidera fortemente. La via della salvezza è innanzitutto la via della potenza. A nulla giova conoscere un cammino di salvezza se nessuno garantisce che si possa percorrere. Con poche parole Paolo ha già presentato il suo vangelo. Non è un semplice annuncio di salvezza per coloro che la cercano, ma è l’annuncio di una salvezza che è resa possibile… non dall’uomo, ma da Dio stesso. Certo le vie della potenza divina possono essere altre: vi è anche la voce della coscienza.  Nel Vangelo non vi è qualcos’altro, ma qualcosa di più. La Parola si è fatta carne ed è venuta ad abitare in mezzo a noi. Nella coscienza dell’uomo non ogni parola è voce di Dio, nel Vangelo di Cristo non c’è parola che non sia voce del Signore. E tu vorresti continuare a percorrere le vie della tua coscienza?  Se la via della salvezza è semplicemente data ad ogni uomo e non da esso costruita, nessuno può scegliere quella che più gli aggrada. Si deve cogliere ogni pienezza del proprio tempo e la pienezza dei tempi. Ma non c’è pienezza che vada oltre il Vangelo. Riflettano coloro che credono in un sincretismo religioso e mettono tutte le fedi sullo stesso piano. La salvezza non è da noi costruita, ma semplicemente a noi offerta. Chi è interessato ad un’offerta deve prenderla al volo, quando viene fatta e così come viene fatta. Si contratta e si discute su ciò che ha un prezzo, non su ciò che viene dato gratuitamente. Tante domande e tanti processi a Dio ed alle sue vie vengono dal Maligno e dalla volontà di non salvezza.

“L’Evangelo non ha bisogno di cercare né di fuggire il conflitto delle religioni e delle visioni del mondo…Esso non è una verità accanto ad altre verità, esso pone in questione tutte le verità. Esso è il cardine, non la porta. Chi lo comprende in quanto impegnato nella lotta per il tutto, per l’esistenza, è liberato da ogni lotta. Non vi è apologetica, non vi è preoccupazione per la vittoria dell’Evangelo. In quanto è la negazione e la fondazione di ogni dato, esso è la vittoria che piega il mondo. Esso non ha bisogno di essere patrocinato e sostenuto, anzi, difende e sostiene coloro che lo ascoltano e lo annunciano.

L’Evangelo della risurrezione è “potenza di Dio”. Esso è la sua “virtus” ( Volgata ), la rivelazione e la conoscenza della sua importanza, la dimostrazione della sua eccellenza sopra tutti gli dei. Esso è l’azione, il miracolo dei miracoli, in cui Dio si dà a conoscere come quello che è, cioè come il Dio sconosciuto che abita in una luce inaccessibile, il Santo, il Creatore, il Redentore. “Quello che voi avete adorato senza conoscerlo, io ve l’annuncio!” ( Atti 17,23 ).

Tutte le divinità che rimangono al di qua della linea segnata dalla risurrezione, che abitano in templi fatti d’opera di mano, e che sono serviti da mani d’uomini, tutte le divinità che hanno “bisogno di qualcuno” cioè dell’uomo che pensa di conoscerle ( Atti 17:24-25), non sono Dio. Dio è il Dio sconosciuto…

Pura ed eccelsa sta la forza di Dio, non accanto e non “sopranaturalmente” sopra, ma al di là di tutte le forze condizionate- condizionanti, né deve essere scambiata con esse né messa in linea con esse, né senza estrema cautela può essere confrontata con esse…

Se tutto quello che è cristiano non venisse riferito all’Evangelo, non sarebbe altro che un prodotto secondario umano, un pericoloso residuo religioso, un deplorevole equivoco…

Se mirasse a questo, se ponesse al posto di Cristo il cristianesimo, se pervenisse a un trattato di pace o anche solo ad un modus vivendi con la realtà del mondo in sé rivolgentesi al di qua della linea della risurrezione, non avrebbe più niente da fare con la potenza di Dio. Il cosiddetto Evangelo, in questo caso non sarebbe fuori concorso, ma sarebbe gravemente impegnato nella ressa delle religioni del mondo e delle visioni del mondo. Poiché nel soddisfare i bisogni religiosi, nel produrre efficaci illusioni sulla nostra conoscenza di Dio e particolarmente sulla nostra vita con lui, il mondo se ne intende certo meglio di un cristianesimo che si fraintende..

La presunzione religiosa deve sparire, se deve subentrare ad essa la conoscenza che viene da Dio. Quando circolano monete false, anche le buone sono sospette. L’Evangelo offre la possibilità di questa conoscenza ultima. Ma perché divenga realtà, essa deve mettere fuori corso tutte le concezioni penultime. L’Evangelo parla di Dio come è, esso intende Lui stesso, Lui solo. Esso parla del Creatore che diventa il nostro Salvatore e del Salvatore che è il nostro Creatore. Esso tende a rinnovarci in tutto e per tutto. Esso ci annuncia la trasformazione della nostra creaturalità in libertà, la remissione dei nostri peccati, la vittoria della vita sulla morte, il rinvenimento di tutto ciò che è perduto. Esso è il grido di allarme, il segnale d’incendio di un mondo nuovo che viene…

Il prigioniero diventa una sentinella, che confinata al suo posto, come quello nella sua cella, attende il grigiore dell’alba. “Qui me ne sto in vedetta, e salgo sulla torre a scrutare, affinché io venga a sapere quello che egli mi dirà, e quello che risponderà al mio lamento. Allora il Signore mi rispose e disse: Scrivi la rivelazione e incidila sopra una tavola, affinché la si possa leggere chiaramente”. La rivelazione aspetta ancora il suo tempo, ma s’affretta verso la fine, e non ingannerà: Se tarda, aspettala, perché per certo verrà e non mancherà” ( Habacuc 2:1-3). L’Evangelo richiede “fede”. Soltanto per colui che crede, esso è “potenza di Dio per la salvezza”. La sua verità non si comunica dunque né si discerne direttamente. Cristo è stabilito figliuolo di Dio (1:4) “secondo lo Spirito”. Lo spirito è la negazione della diretta immediatezza. Se Cristo è vero Dio, deve essere nell’inconoscibile. La conoscibilità diretta è la caratteristica degli idoli” ( Kierkegaard )…

L’Evangelo non si spiega né si raccomanda, non domanda il permesso e non entra in trattative, non minaccia e non promette. Esso non si concede dove non trova ascolta per se stesso. “La fede si rivolge alle cose invisibili. Affinché vi sia occasione per la fede, tutto ciò che deve essere creduto deve essere nascosto. Ma è nascosto nel modo più profondo, quando è proprio opposto all’apparenza, ai sensi e all’esperienza. Quando dunque Dio vivifica, lo fa uccidendo; quando giustifica, lo fa rendendoci colpevoli; quando ci conduce in cielo, lo fa trascinandoci nell’inferno” ( Lutero ). L’Evangelo è soltanto credibile, esso può soltanto essere creduto. La sua serietà consiste in questo, che si offre come una alternativa: per colui che non è capace di sopportare la contraddizione e di attendere nella contraddizione, è motivo di scandalo; per colui che sa di non poter evitare la contraddizione, è oggetto di fede. La fede è questo: il rispetto dell’incognito divino, l’amore di Dio nella coscienza della differenza qualitativa tra Dio e l’Uomo, Dio e il mondo, l’affermazione della resurrezione come rovesciamento del mondo…

Ma questa scoperta è, in tutto e in ogni attimo, pura scelta tra lo scandalo e la fede. E quando si viene alla fede, il calore del sentimento, la forza della convinzione, l’elevatezza dei principi e della morale, sono sempre soltanto segni concomitanti dell’avvenimento vero e proprio, appartenenti all’al di qua, e perciò in sé privi di importanza…. Appunto per questo la fede non è mai identica con la pietà religiosa, fosse anche la più pura e la più delicata. E se anche la pietà è in qualche misura un indizio della presenza della fede, lo è in quanto è la negazione di altre positività mondane e anzitutto di se stessa. La fede vive di se stessa perché vive di Dio. Questo è il “Centrum Paulinum” ( Bengel )…

Ognuno deve credere e può credere. Nei riguardi dell’Evangelo “il Giudeo come il Greco” ha un diritto di voto. Esso pone in questione l’esserci e l’esserci così del mondo, e perciò si rivolge direttamente ad ogni uomo…. Anche se il “Giudeo”, l’uomo religioso, l’uomo di Chiesa è chiamato “prima” al voto, perché egli, per così dire sta di casa in quel margine del nostro mondo, ove la linea di intersezione del piano di nuova dimensione ( 1:4 ) dovrebbe propriamente essere veduta, questo vantaggio iniziale non costituisce un privilegio. La domanda: “Religioso o non religioso?” non è più essenzialmente un problema, per non parlare dell’altra: Ecclesiastico o mondano?” La possibilità di udire l’Evangelo è universale come la responsabilità del fatto che venga udito, e come la promessa data a coloro che lo odono. Poiché quello che in esso si svela è il grande, universale mistero della “giustizia di Dio” gravante su ogni uomo di qualsiasi statura morale. La conformità di Dio con se stesso, estremamente problematica nel mondo intero, tra i Giudei e tra i Greci, viene in luce e si rivela gloriosa in Cristo…

Ma in Cristo parla Dio, come è, e convince di menzogna il non-Dio di questo mondo. Egli afferma se stesso, in quanto nega noi come siamo e il mondo com’è. Egli si fa conoscere come Dio, al di là della nostra decezione, al di là del tempo, delle cose e degli uomini, come il liberatore dei prigionieri, e appunto per questo come il significato di tutto quello che esiste, come il Creatore. Egli si presenta a noi nell’atto stesso in cui pone e mantiene le distanze tra noi e lui. Egli ci fa grazia nell’atto in cui dà inizio alla nostra crisi e ci trae in giudizio. Egli ci garantisce la realtà della nostra salvazione, in quanto in Cristo vuole essere Dio ed essere riconosciuto come Dio. Egli ci “giustifica” nell’atto in cui giustifica se stesso. “Dalla fedeltà” si rivela la giustizia di Dio, dalla sua fedeltà verso di noi. Il vero Dio non ha dimenticato l’uomo. Il Creatore non ha abbandonato la creazione.

 “Alla fede” si svela quello che Dio per fedeltà rivela. Ne viene data comunicazione a coloro che hanno rinunciato ad una comunicazione diretta. A coloro che osano avvicinarsi a lui, Dio parla come egli è… Gli affaticati e gli aggravati sono ristorati. Coloro che consentono sinceramente a porsi in vedetta, riconoscono in quella posizione, che ad essi è dato aspettare, che devono e possono aspettare la fedeltà di Dio… Per essi si adempie la promessa: “Il giusto vivrà per fedeltà!” ( Habacuc 2:4). Il giusto è il prigioniero diventato sentinella, il guardiano alla soglia della realtà divina. Non vi è altra giustizia che quella dell’uomo, che si presenta al tribunale di Dio, dell’uomo che trema e spera. Egli vivrà: egli è un candidato alla vera vita poiché ha riconosciuto la nullità di questa vita, ed in questa vita non è mai senza un riflesso della vera vita, nel transitorio non è mai senza la prospettiva del permanente. La grande impossibilità gli ha annunciato la fine ed il fine delle piccole impossibilità. Egli vivrà per la fedeltà di Dio. Si dica: per la fedeltà di Dio o per la fede dell’uomo, la cosa non cambia. Già la tradizione di questa parola profetica tende a svolgersi in queste due direzioni. La fedeltà di Dio è in questo, che egli ci viene incontro e ci segue in modo così inevitabile col suo “No” come il totalmente Altro, come il Santo. E la fede dell’uomo è il timore reverenziale di chi acconsente a questo “No”, la volontà del vuoto, l’appassionato permanere nella negazione. Dove la fedeltà di Dio incontra la fede dell’uomo, ivi si rivela la sua giustizia. Ivi il giusto vivrà. Questo è il tema dell’Epistola ai Romani. ( Barth)

17 La giustizia di Dio in questo viene rivelata: da fede a fede, come è scritto: Ora il giusto vivrà di fede.

Dopo aver detto che il Vangelo è potenza di Dio per la salvezza di chi crede, Paolo aggiunge che in esso viene rivelata la giustizia di Dio, da fede a fede. Che Dio sia giusto in sé e per sé è fuori discussione e poco ci interessa. Quel che ci tocca da vicino e sulla pelle è la sua giustizia nei nostri confronti. E’ giusto chi rende all’altro ciò che gli è dovuto. Se crediamo che Dio è giusto in questo senso, non si vede che cosa debba essere rivelato prima del giorno del giudizio. Ma è proprio la diversità della sua giustizia  che rende necessaria, in anticipo ed in tempo opportuno, una vera e propria rivelazione. Non per testimonianza dell’uomo, ma per la testimonianza che Dio dà di se stesso per bocca del Figlio.

E’ escluso innanzitutto che nel Vangelo si possa manifestare ed esaltare una qualche giustizia dell’uomo. La nostra giustizia non è neppure presa in considerazione, perché di fatto non esiste. Una volta che è stato ben definito il campo d’indagine va pure precisato che la giustizia divina non si può comprendere se non nel momento in cui si fa conoscere. Non è una congettura o una conquista della ragione: è una realtà che si fa manifesta e si rivela all’uomo, perché nascosta ai suoi occhi. Il Vangelo quindi dà luce ai nostri occhi perché possiamo vedere e comprendere la giustizia di Dio, ma soltanto nella misura in cui ci lasciamo da essa attirare e coinvolgere verso una novità di vita che è prima di tutto novità della nostra mente. Se la giustizia è propria ed esclusiva di Dio, la fede è propria ed esclusiva dell’uomo. Non c’è punto d’incontro tra l’uomo e Dio se non quando la sua giustizia incontra la nostra fede. Qualsiasi altra strada per andare al Signore, se pur lusinghiera, è falsa ed ingannevole. Un po’ di fede bisogna pur averla, anche se piccola, come un granello di senapa.

18 Si rivela infatti l’ira di Dio dal cielo su ogni empietà ed ingiustizia degli uomini che trattengono la verità nell’ ingiustizia,19 perché il conoscibile di Dio è manifesto tra loro. Dio infatti ad essi si è manifestato.

Se la giustizia di Dio si rivela pienamente soltanto nel Vangelo e interessa la vita nuova, la verità, che è Dio, è già data con la vita vecchia. Non c’è bisogno di rivelazione alcuna, 19 perché il conoscibile di Dio è manifesto tra loro. Dio infatti ad essi si è manifestato. Prima dell’annuncio del Vangelo ci possono essere attenuanti alla colpa per l’uomo che non crede alla giustizia divina, così come deve essere creduta. E come credere in ciò che ancora non si conosce e non si è reso pienamente manifesto? Nessuna attenuante per l’uomo che non crede nell’esistenza di Dio, perché a tutti è rivelata, dall’inizio del tempo. Il Vangelo dunque da un lato rivela la giustizia divina verso tutti quello che credono in Dio, dall’altro rivela la Sua ira contro coloro che neppure credono all’ esistenza del Creatore. E’ l’ incredulità la radice di quella empietà e di quella ingiustizia, che trattengono, cioè tengono legata, la verità che è Dio impedendole di farsi manifesta. Nel Vangelo e con il Vangelo c’è il vaglio della nostra fede in Dio; in quanto all’incredulità è condannata in partenza. Nessuna forza di salvezza e di cambiamento troveranno nella Parola di Dio, coloro che non credono nel suo nome. Il Vangelo di Cristo non è dato perché crediamo all’esistenza di Dio; per questo basta il vangelo del creato, ma è annunciato perché, credendo nell’esistenza di Dio, noi crediamo pure alla sua giustizia, così come si è storicamente rivelata col Cristo.

“L’invisibilità di Dio può essere contemplata”. Noi abbiamo dimenticato questo e dobbiamo lasciarcelo dire. Non corrisponde allo stato necessario delle cose tra Dio e noi, che la nostra immodestia, spensieratezza, intrepidezza di fronte a lui sia così naturale. La sapienza platonica ha da gran tempo riconosciuto come l’origine di ogni dato, quello che non è dato. La più sobria sapienza della vita ha da lungo tempo stabilito che il timore dell’Eterno è il principio della conoscenza. Occhi aperti, incorruttibili come quelli del poeta di Giobbe e dell’Ecclesiaste, hanno da lungo tempo ritrovato nello specchio del visibile, il suo archeologo, l’invisibile, la non investigabile altezza di Dio. E’ sempre percepibile la voce dell’Eterno che parla nella tempesta ( Giobbe 3,8)… Che cosa sono dunque le “opere” di Dio nella loro assoluta enigmaticità se non puri interrogativi, ai quali non vi è nessuna risposta diretta, a cui Dio solo, soltanto Dio è la risposta?… La linea di intersezione tra il tempo e l’eternità , tra il mondo presente ed il mondo futuro scorre effettivamente attraverso tutta la storia, è da “lungo tempo annunciata”, e avrebbe sempre potuto essere veduta… “Cosicché essi non hanno nessuna scusa” , quando non lo vedono e non lo odono; poiché essi hanno occhi che vedono ed orecchi che odono. La loro empietà è inescusabile, perché le opere di Dio, “contemplate razionalmente” parlano della sua eterna potenza”… Se abbiamo incapsulato la verità di Dio e provocato la sua ira, non è perché non avessimo altra possibilità. “Dio non è lontano da ciascuno di noi, poiché in Lui viviamo, ci muoviamo e siamo ( Atti 17:27-28). Barth

20 Infatti le cose invisibili di lui dalla creazione del mondo per mezzo delle opere essendo percepite sono osservate: la sua eterna potenza e divinità, così da essere essi inescusabili,21 poiché conoscendo Dio non come Dio resero gli gloria o resero grazie, ma diventarono vuoti nei loro ragionamenti e fu oscurato il loro cuore insensato. 22 Ritenendo di essere sapienti divennero stolti e 23 cambiarono la gloria dell’incorruttibile Dio in immagine ad effigie corruttibile di uomo e volatili e quadrupedi e di rettili.

Il discorso di Paolo mette in evidenza come l’esistenza di Dio sia di per sé palese a tutti gli esseri razionali. Dovremmo di conseguenza pensare che tutti gli uomini dotati di razionalità non possono non credere in Dio. Maggiore è la nostra razionalità, maggiore è la nostra fede. In realtà le cose non vanno in questo modo: al contrario l’empietà si annida più spesso nell’uomo intellettualmente dotato e la fede trova la sua espressione più autentica nelle persone semplici e di scarsa intelligenza. E’ quindi escluso che il problema della nostra fede sia innanzitutto di ordine razionale e non si può affrontarlo innanzitutto dal punto di vista della ragione. Sbagliano coloro che si affannano a cercare e a dimostrare la razionalità del nostro credere, come se fosse di fondamentale importanza e fosse di qualche aiuto nel confronto con coloro che si manifestano atei con la loro stessa parola. Non è questo l’intento di Paolo, di voler cioè avventurarsi in una diatriba con chi non crede, contrapponendo ad un ateismo irrazionale una fede razionale. Paolo vuol semplicemente dire che ad ogni uomo è data l’intelligenza per comprendere l’esistenza di Dio; non con una razionalità complessa ed articolata riservata a pochi, ma grazie al dono di una razionalità semplice, che coglie l’esistenza di Dio in modo immediato. Tale ragione è data a tutti, anche ai subnormali.

Altro è essere creatura dotata di pensiero, altro è la capacità di sviluppo formale del pensiero. C’è un pensiero di per sé formalmente povero, c’è un pensiero che è in grado di arricchirsi e di accrescersi in virtù di una forma che è pur sempre dono di Dio, ma che non è data a tutti in uguale misura. Non si approda alla fede semplicemente attraverso un uso corretto della ragione. E’ troppo poco e le persone intelligenti ne risulterebbero avvantaggiate. Che il cristiano usi poi correttamente la propria ragione, questo è un altro discorso! Nessuno crede semplicemente perché segue i dettami della ragione. E che ne sarebbe di chi possiede poca o addirittura scarsa razionalità? Ci troveremmo di fronte ad una umanità inferiore, non degna di essere presa in considerazione, e che entra nella nostra vita per sbaglio. Con facilità e volentieri ci si libera dal confronto con un malato di mente. Mette in crisi il nostro essere razionale e voglia il cielo che non ne subisca danno la nostra stessa fede. In realtà una ragione che non sa accettare il confronto con una razionalità povera, se pur manifesta la propria fede in Cristo, tradisce un uso sbagliato del dono di Dio. Né vale rifugiarsi in un confronto esasperato con i dotti e i sapienti di questo mondo, per tacitare la propria coscienza e per giustificare la nostra fuga da una ragione che innanzitutto è povera e semplice. Perché è proprio questa ragione formalmente povera che è data a tutti, che a tutti dice: Dio esiste. Ed è a questa ragione che è chiesto innanzitutto di dar lode a Dio, in qualsiasi tempo della storia e in qualsiasi vita. Il momento di riflessione non rappresenta affatto il momento della crescita, ma il momento in cui la ragione,  abbandonata la via luminosa del dono di Dio, dato a tutti gratuitamente e senza distinzione, ripiega su se stessa, per contemplare non il Creatore, ma  la propria somiglianza con il Creatore.

21...conoscendo Dio” scrive l’apostolo, creati cioè con la conoscenza del loro Creatore , e non certo per i loro meriti o sacrifici, dal momento che tale conoscenza non è innanzitutto un fatto, ma semplicemente un dato, “non come Dio gli resero gloria o resero grazie, ma diventarono vuoti nei loro ragionamenti e fu oscurato il loro cuore insensato. Se hanno un merito questi uomini è proprio quello di aver svuotato con i loro ragionamenti quella pienezza che gratuitamente a tutti è data. Per ritrovarsi alla fine con il cuore, cioè con lo spirito, oscurato da Dio, perché fattosi insensato. Nessun cuore è insensato se non quello che abdica al proprio ruolo di guida e di luce, per lasciarsi guidare dalla luce della propria ragione. Ringraziamo il  Signore per coloro che innanzitutto credono, anche se non conoscono le ragioni della propria fede. Ma che dire a coloro che non credono in Cristo, con un ateismo non razionalmente infondato, ma razionalmente costruito? Ha senso discutere con loro e cercare di riportare una razionalità corrotta ad una razionalità integra, usando semplicemente gli strumenti della stessa ragione?  E’ tempo perso ed un’offesa al Signore, perché la ragione di Dio non ha bisogno di essere difesa dalle nostre ragioni, se pur giuste e sante. Non è possibile un ritorno a Dio, se innanzitutto non si dà lode a Dio. E non ha senso parlare di Dio con coloro che prima vogliono capire e comprendere. Non c’è nulla da capire che già non ci sia stato dato, perché possiamo e dobbiamo rendere gloria a Dio. Riflettano coloro che amano confrontarsi con i dotti e i sapienti di questo mondo, magari nelle stesse università per difendere le ragioni della  fede. Tradiscono la loro fiducia in Dio e nella Sua parola, danno al mondo un’immagine sbagliata del cristianesimo, perdono nella loro capacità di comunicare con i piccoli e i semplici. Non si arriva alla fede attraverso la ragione, ma solo attraverso il rendimento di grazie al Creatore dei cieli e della terra. Meglio moltiplicare la lode al Signore, piuttosto che moltiplicare i nostri pensieri sul Signore.

Non la ricerca di un ragionamento vero né di una mente assennata portano a Dio, ma solo il rendimento di grazie e la lode all’artefice della vita. Non si possono dire parole di luce là dove è stata rifiutata la luce, né portare la sapienza là dove è stata scelta la stoltezza. Non esiste un problema della conoscenza di Dio che non sia nell’ottica e nello spirito di ciò che ci è già dato, a partire dalle sue forme più immediate ed intuitive. Ciò che innanzitutto si deve dire è che innanzitutto si deve dar lode a Dio, così come a tutti e ad ognuno si fa conoscere. Solo in questo modo possiamo entrare in quel cammino che procede da conoscenza a conoscenza fino alla visione eterna di Dio. Se non c’è questa disponibilità è tempo perso e facciamo un pessimo servizio al Signore. Vano è il ragionamento che si autofonda come verità, non riconoscendo  il proprio essere fondato; non porta alla vita eterna ma alla perdizione. Insensata è la mente che cerca la luce in se stessa e non in Colui che è la luce: è destinata alle tenebre eterne. E i frutti della vanità e delle tenebre sono a tutti ben noti.

22 Ritenendo di essere sapienti divennero stolti e 23 cambiarono la gloria dell’incorruttibile Dio in immagine ad effigie corruttibile di uomo e di volatili e di quadrupedi e di rettili.

Le radici dell’ateismo sono nella  presunzione di una  sapienza che, invece di riconoscere il proprio essere fondato e di aprirsi verso la luce del proprio fondamento, si rinchiude in se stessa, autofondandosi come verità. Ritenendo di essere sapienti: Non davano lode alla Sapienza divina, ma proclamavano la propria sapienza. Chi dice di essere sapiente non dice parole sapienti, ma manifesta a tutti la propria insipienza. Sapiente è l’uomo che apre la propria mente e il proprio cuore a Dio e non proferisce parola se non nella Parola e per la Parola.

Se il problema del nostro rapporto con Dio non è innanzitutto di ordine razionale, non è neppure di ordine morale. Non è detto che una coscienza che segue i principi della morale necessariamente porti alla fede in Cristo Gesù. Come vi è una parola che è data a tutti che non si riconosce nel Verbo divino, così vi è una conoscenza del bene e del male che non si apre al dono della grazia divina e che non attinge mai al Bene eterno, ma semplicemente rincorre se stessa in un processo di autocreazione e autoaffermazione. Può arrivare a compiere qualcosa di buono, non arriva a cogliere Colui che è  Bene. E’ del tutto ingiustificata una cristiana reverenza  per coloro che hanno dedicato la loro vita alla speculazione filosofica o alla lotta per una giustizia terrena. Se pur appaiono belli agli occhi del mondo, non piacciono a Dio, perché non danno lode al suo nome. E non si deve credere che sia innocente una mancanza di fede che si ammanta di una rigida moralità. E’ opera del demonio: non va amata né esaltata, ma deve essere smascherata, senza dubbi ed esitazioni.

Perché inescusabile è l’uomo che non crede in Dio Creatore. Non innalza statue di marmo per onorare gli dei? Peggio ancora: innalza se stesso come Dio. L’eccezione conferma la regola. Chi rifiuta le manifestazioni dell’ateismo comune è reo di un ateismo ancor più grande. Non gli basta di affermare se stesso come dio, ma pone il proprio dio al di sopra di tutti gli altri. L’uomo che innanzitutto non riconosce il proprio essere creato e non ricerca il proprio Creatore si crea degli idoli a propria immagine e somiglianza, per esaltare se stesso, anche nelle forme dell’animale. L’ateismo ha manifestazioni diverse, ma un'unica radice. Vi è un ateismo di bassa levatura, che innalza idoli con le sembianze dell’animale, e neppure riconosce la natura qualitativamente diversa dell’uomo. Vi è un ateismo che identifica l’uomo con Dio e lo rappresenta a propria immagine e somiglianza. Non comprende di essere creato ad immagine di Dio, ma crea un Dio a propria immagine e somiglianza. Ancora peggiore l’ateismo dei filosofi e di certi “liberi pensatori”, che rifiutano e ridicolizzano la religiosità comune, a cominciare dagli dei fatti di pietra, in nome di una imprecisata verità che non si può conoscere, ma soltanto immaginare. Sono capaci di impegno etico e civile, fino all’eroismo. Si proclamano non credenti, ma nello stesso tempo non indifferenti al problema dell’esistenza di Dio. Sono i peggiori e i più subdoli. Tutto contestano e niente abbracciano, perché non si credono semplicemente dio, ma un dio superiore a qualsiasi altro. Si può obiettare che i pagani in quanto credevano negli dei, non possono considerarsi atei. Ma è proprio perché ci si rivolge verso una direttrice sbagliata che si diventa atei, e non semplicemente per una incolpevole ignoranza dei tempi, ma per un deplorevole e colpevole rifiuto di quella luce che a tutti è innanzitutto data, per cui tutti siamo tenuti a dar lode a Dio creatore dell’universo.

Bisogna comprendere l’eterna attualità della storia nel nostro essere in Dio e per Dio. Si affannino altri a investigare e a giustificare una storia fatta da tempi e situazioni diverse. Noi proclamiamo la nostra fede in Cristo Salvatore. Perché non c’è storia se non innanzitutto in Lui e per Lui. Certo altro è credere in Dio Creatore, altro è conoscere Dio Creatore. E a questo punto è di fondamentale importanza la Parola rivelata. Ma come annunciare il vangelo di Cristo a chi afferma di non credere in Dio? L’unica medicina è il silenzio e la preghiera a Dio Padre.

L’ateismo non è mai innocente, ma colpevole rifiuto di un rapporto con Dio, che non va innanzitutto costruito, ma accolto, così come a tutti è dato in una forma che è strutturale alla creatura razionale. E’ la superbia che ci allontana da Dio e ci fa suoi nemici. Superbo è l’uomo che si rinchiude nel proprio essere ad immagine di Dio e con ciò fa di se stesso dio. Parla di Dio, ma solo per mettere in discussione la Sua parola, si impegna eticamente, ma solo per esaltare la propria giustizia e non la Sua.

“Assurdamente fondato su se stesso, l’uomo sta di fronte alle forze del mondo imperanti senza significato. Poiché la nostra vita riceve significato in questo mondo soltanto dalla sua relazione col vero Dio. Ma questa relazione non può essere ristabilita, finché il nostro pensiero ed il nostro cuore ( nella “visione razionale”) non sono spezzati dal ricordo dell’eternità. Non esiste vera relazione col vero Dio che quella che si incontra sulla via percorsa da Giobbe. Finché questa rottura non si verifica, il pensiero è vuoto, formale, soltanto critico, sterile, incapace di dominare la molteplicità dei fenomeni, di concepire il singolo in connessione con il tutto; il pensiero che non è stato spezzato rinuncia alla sua reale relazione con le cose. E inversamente il cuore che non è stato spezzato, la sensibilità non vigilata da una visuale ultima, si sottrae alla signoria del pensiero: oscura, cieca, acritica, in balia del caso, rappresenta una essenza per sé. Senza cuore, concetto senza intuizione e perciò vuoto è diventato il pensiero; senza pensiero, intuizione senza concetto e perciò cieco è diventato il cuore… Questa è la causa della notte nella quale andiamo vagando, la causa dell’ira di Dio, che è rivelata sopra di noi. ( Barth).

“Essi hanno scambiato la gloria dell’incorruttibile Iddio con l’immagine del corruttibile”, cioè hanno perduto il senso di quello che vi è di specifico in Dio: il pensiero del crepaccio di ghiacciaio, della regione polare, della zona desertica, che deve essere attraversata, se il passo dal corruttibile all’incorruttibile deve essere veramente compiuto… L’esperienza religiosa, a qualunque grado di altezza si compia, non appena è qualche cosa di più che spazio vuoto, non appena intende essere contenuto, possesso e godimento di Dio, è la sfrontata ed inetta usurpazione di ciò che può essere e diventare vero, soltanto a partire dal Dio sconosciuto. Nella sua storicità, materialità e concretezza, essa è sempre un tradimento verso Dio. Essa è la nascita del non-dio, dell’idolo. Poiché in mezzo a quella nebbia si dimentica che ogni cosa caduca è bensì una similitudine, ma anche soltanto una similitudine. La gloria dell’incorruttibile Dio viene scambiata con l’immagine (Salmo 106:20) di essenze corruttibili. Una qualsiasi delle relazioni dell’uomo con gli oggetti del suo timore o del suo desiderio, con uno strumento utile della sua esistenza, con un prodotto del suo pensiero o della sua attività o con un fenomeno impressionante della natura o della storia, viene assunta come importante in sé, così importante, come se anche questa relazione non dovesse essere spezzata dal suo ultimo riferimento al Creatore, allo Sconosciuto la cui gloria non può non può essere confusa con la gloria conosciuta di una immagine, per quanto bella e pura, perché questo non è comparabile a Lui… E dovunque quella qualificata distanza tra l’uomo e l’Ultimo, che è il suo fondamento, è trascurata e disprezzata, ivi deve prodursi il feticismo, che fa l’esperienza viva di Dio negli “uccelli e quadrupedi e vermi” e finalmente e anzitutto nella “figura dell’uomo corruttibile”, ( La personalità, il fanciullo, la donna ) o nelle sue creazioni, raffigurazioni, estrinsecazioni spirituali-materiali ( famiglia, popolo, stato, chiesa, patria ecc. )- e fa getto di Dio che abita al di là di ogni oggetto concreto. Così è creato il non-dio, così sono eretti gli idoli. ( Barth )

24 Perciò Dio li consegnò, nelle brame dei loro cuori, all’impudicizia, così da disonorare i loro corpi fra loro: 25 essi che cambiarono la verità di Dio in menzogna ed adorarono e servirono la creatura anziché il creatore, il quale è benedetto nei secoli.

26 Per questo Dio li consegnò a passione di vergogna, infatti le loro femmine cambiarono l’uso naturale in quello contro natura, 27 similmente anche i maschi avendo lasciato l’uso naturale della femmina si accesero nella loro brama gli uni verso gli altri, maschi con maschi, operando turpitudine e ricevendo in se stessi il salario che conveniva del loro traviamento

28 E poiché non stimarono di avere conoscenza di Dio, Dio li consegnò ad una mente riprovevole per fare le cose non convenienti, 29 ripieni di ogni ingiustizia, perversità, avidità, cattiveria, pieni di invidia, di omicidio, di contesa, d’inganno, di malignità, di mormorazione, 30 calunniatori, odiatori di Dio, insolenti, tracotanti, smargiassi, inventori di mali, disobbedienti ai genitori, 31 ottusi, perfidi, insensibili, senza pietà, 32 che, conoscendo il decreto di Dio, che sono degni di morte coloro che fanno tali cose, non solo fanno tali cose, ma anche approvano quelli che le fanno.

Il cuore che non brama solo Dio si riempie di  altre brame; allarga i suoi tentacoli in ogni direzione: tutto vuol sperimentare e alla fine tutto distrugge.

La stoltezza di coloro che rifiutano Dio non può rimanere nascosta . Essi non solo disonorano la propria anima, perdendosi nelle loro vane cupidigie, ma anche il proprio corpo. Il peccato ci rende brutti nel corpo e nell’anima e ci allontana sempre di più dallo Spirito di Dio. E questo va detto di tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni popolo, compresi i primitivi. E’ un errore pensare che l’idea di  un Dio Creatore sia un prodotto della storia e non una realtà strutturale dell’uomo. Appare come realtà ultima semplicemente perché  nulla sappiamo del prima. Dei primitivi ci rimangono resti che attestano una religiosità più semplice ed ingenua rispetto a quella dei tempi moderni. Ma in base a che cosa si può escludere che l’idea di un Dio Creatore  accompagni ogni vita dai suoi primi albori? E chi può dire che la voce di Dio non sia intesa da sempre da tutti coloro che vogliono ascoltarla? Il rapporto con la verità è solo del singolo e per il singolo. La conoscenza  delle religioni dei popoli ci dice tutt’al più quale sia stata la cultura e la mentalità di massa, non entra nel rapporto tra Dio e l’individuo. E’ questo un mistero chiuso negli arcani segreti dell’amore celeste. Solo la Bibbia ci svela una vita divina, che innanzitutto è nell’individuo e per l’individuo. La Sacra Scrittura attesta l’originale ed universale peccato dell’uomo, ma anche l’originale ed universale misericordia di Dio , che da sempre accompagna l’umanità. Da Adamo in poi la grazia del Signore si stende su coloro che lo temono. Certo essi rappresentano l’eccezione, ma ciò non attesta l’eccezionalità dell’amore divino, semplicemente la durezza del cuore umano, che raramente si apre al Creatore e al suo dono. La storia dell’umanità va letta e capita in un’ottica diversa, che non è semplicemente quella di una comprensione e di una conoscenza delle diverse culture, quanto nell’intelligenza di una diversità che fin dai primordi si manifesta in pochi uomini. E in questo è di fondamentale importanza la lettura e la meditazione della Bibbia. Perché solo la Bibbia ci aiuta ad entrare nel mistero di una vita aperta a Dio e al suo dono. Certo la Bibbia tutto non dice, ma dice tutto quanto è necessario per la salvezza. Molto si affannano gli uomini nello studio delle civiltà e si illudono di uscirne arricchiti. In realtà cresce soltanto la conoscenza del peccato dell’uomo, non si accresce la capacità e la volontà di bene. Bisogna cogliere la storia in una diversità che non è conosciuta dall’uomo, ma soltanto da Dio.

C’è una storia scritta dagli uomini ed incisa sulla pietra e c’è una storia nascosta dei cuori, conosciuta solo da Dio. Per conoscere una storia diversa bisogna mettersi alla sequela di un maestro diverso, non leggere i soliti libri, ma il libro di Dio. Non cercare la vastità della cultura, ma la sua profondità! C’è chi ha letto tanto e crede di sapere tanto, in realtà nulla conosce di ciò che è utile alla vita. Abbandona o uomo insensato la lettura di libri vacui, chiuditi nel silenzio della tua stanza e leggi e medita la parola del Signore. Non c’è altra fonte ed altra via per attingere alla Sapienza. Non lasciarti prendere dalla tentazione di un confronto con la storia scritta dall’uomo, né per confermare né per contraddire le Sacre Scritture. Hai imboccato la strada della diversità: una diversità tracciata da Dio che va compresa soltanto in Lui e per Lui. Gli uomini ti diranno che chiudendoti al mondo sei un arrogante ed un presuntuoso, ma è proprio ciò che è gradito a Dio: l’arroganza di chi non crede più nell’uomo, e la presunzione di chi confida solo nel Signore. Impara dal popolo eletto che leggeva e conosceva un solo libro. Soffri il confronto culturale? Sei benedetto dal Signore. Non lasciarti prendere dalla tentazione di altre letture per un miglior rapporto con gli uomini e per una maggiore capacità di comunicazione. Sprechi inutilmente le tue energie e il tuo tempo e metti in pericolo la tua stessa fede. Una conoscenza approfondita della storia, così come è stata scritta dagli uomini, mette in crisi una lettura superficiale della Bibbia. Viceversa una conoscenza profonda della Scrittura mette in crisi la storia scritta dall’uomo, ne evidenzia la vacuità e l’inutilità. Coloro che molto leggono e molto studiano, all’infuori della parola di Dio, non solo perdono in sapienza, ma perdono anche nella capacità di comunicare con tutti gli uomini che cercano la salvezza. E cos’altro è il dono delle lingue se non la capacità di comunicare le cose di Dio anche a coloro che ci appaiono diversi? Non gli altri devono imparare a comunicare con te, ma tu devi saper parlare agli altri. Questa sapienza viene solo dall’alto: percorre vie proprie e diverse da quelle tracciate dall’uomo. Ogni giorno si accresce  nella sua profondità, ma anche nella sua capacità di espressione e comunicazione verso gli ultimi e i più piccoli. L’intellettuale, pieno di cultura mondana, emargina ed è emarginato anche  dai simili, il profeta di Dio entra nel cuore di tutti.

“ cambiarono la verità di Dio in menzogna “

La menzogna è una nostra creazione: non esiste se non come prodotto della disobbedienza a Dio. Giustamente dice l’apostolo “cambiarono la verità in menzogna”, perché nessuna menzogna ci viene proposta dal Signore, se non quella che è frutto del nostro peccato.

Alla radice della  vita c’è un fondamentale cambiamento nel rapporto con la verità. Rincorrendo la propria parola gli uomini hanno perso la verità che è Dio .

…e adorarono e servirono la creatura: hanno messo il proprio essere creato al primo posto. Per questo invece di seguire il loro Signore rincorrono se stessi e sono servi della propria falsità e nullità. Benedicono colui che vive nel tempo e per un tempo, non danno lode al Creatore che è benedetto nei secoli.

26Per questo Dio li consegnò a passione di vergogna, infatti le loro femmine cambiarono l’uso naturale in quello contro natura, 27similmente anche i maschi avendo lasciato l’uso naturale della femmina si accesero nella loro brama gli uni verso gli altri, maschi con maschi operando turpitudine e ricevendo in se stessi il salario che conveniva del loro traviamento.

L’uomo è fatto per la gloria di Dio e nella gloria di Dio trova la propria esaltazione e la propria gioia. Abbandonata la strada gloriosa dell’obbedienza alla parola di Dio, l’uomo diventa schiavo delle passioni, cioè di tutte le sofferenze che conseguono alla perdita del Signore. Se la passione è frutto della perdita di Dio, essa non si manifesta nell’uomo se non in relazione a ciò che nel suo cuore ha preso il posto del Creatore.

Cambia la passione soltanto in rapporto a ciò che è fatto oggetto del cuore, non cambia la passione in rapporto a ciò che la genera e la sostiene. Così la fine di una passione altro non è che l’inizio di un’altra passione. Allorché il cuore ha perso ciò in cui aveva preso dimora, cerca casa altrove. Di brama in brama, consuma ogni sorta di empietà e di scelleratezza. Mentre Adamo era stato chiamato a crescere di conoscenza in conoscenza, fino all’eterna visione del Creatore, dopo il peccato si fa sempre più piccolo, di passione in passione fino alla completa rovina di ciò che lo fa simile a Dio. Chi distrugge il rapporto con il Creatore non può non distruggere alla fine anche il rapporto con la creazione. Cerca la felicità in una direzione sbagliata, appagando le passioni e non rigettandole dal proprio cuore. Dopo aver distrutto ogni cosa creata, distrugge anche il suo rapporto con la donna: quello che c’è di più grande e di più bello, per cui è detto “ad immagine di Dio”. La sodomia è l’ultima ed estrema consumazione del rapporto uomo-donna. Dapprima si deturpa il rapporto con l’altro sesso, alla fine si deturpa il rapporto con il proprio sesso.

“La naturalità altera e ribelle non è pura.. All’empio baratto di Dio col mondo, poiché significa un dar libero corso alla natura, corrisponde lo scambio dell’indispensabile, dell’inevitabile con la sua caricatura demoniaca, che sta sostanzialmente sulla stessa linea. Quello che già di per sé stesso è discutibile, scivola verso l’assurdo. La libido diventa tutto, la vita diventa eroicità senza limiti. Poiché la frontiera tra “il normale” ed il perverso si apre, quando non vi è tra Dio e l’uomo una frontiera chiusa, un’ultima barriera ed una inesorabile inibizione”. ( Barth)

e ricevendo in se stessi il salario che conveniva del loro traviamento.

Salario di chi procede sulla retta via è la conoscenza del Creatore, salario di chi si lascia traviare dal Maligno è l’ignoranza di Dio ed una conoscenza falsa e corrotta di tutto ciò che è creato.

28E poiché non stimarono di avere conoscenza di Dio, Dio li consegnò a mente riprovevole per fare le cose non convenienti, 29ripieni di ogni ingiustizia, perversità, avidità, cattiveria, pieni di invidia, di omicidio, di contesa, d’inganno, di malignità, di mormorazione, 30calunniatori, odiatori di Dio, insolenti, tracotanti, smargiassi, inventori di mali, disobbedienti ai genitori, 31ottusi, perfidi, insensibili, senza pietà, 32che conoscendo il decreto di Dio, che sono degni di morte coloro che fanno tali cose, non solo fanno queste cose, ma anche approvano quelli che le fanno.

La mente dell’uomo è fatta per la conoscenza di Dio, ma allorché stima un nulla tale conoscenza è abbandonata dalla luce del Signore e da Lui riprovata.

E’ così che nell’uomo entra il peccato in tutte le sue forme ed in tutta la sua gravità. E non a caso Paolo usa il tempo passato per indicare ciò che ha portato al peccato, mentre usa il presente per indicare lo stato del peccato. 28E poiché non stimarono di avere conoscenza di Dio, Dio li consegnò a mente riprovevole per fare le cose non convenienti . Tutto questo è posto in un passato remoto, allorché eravamo in Eden, mentre i frutti del peccato sono al presente, nell’attualità della nostra vita, prodotto di una mente riprovevole e in quanto tale riprovata da Dio. Il peccato entra nel mondo per colpa dell’uomo, contro la volontà del Signore. Una volontà violata, nulla può fare all’inizio che prendere atto del tradimento che è stato consumato alle sue spalle. Ci abbandona ad una mente perversa che fa cose non convenienti, cioè contro il proprio bene, dopo che ha abbandonato l’unico Bene. L’elenco di Paolo è lungo e dettagliato e manifesta il proposito di nulla tralasciare e di nulla nascondere.

Nulla di conveniente si trova in ciò che è operato dall’uomo. La pienezza della santità cede il posto alla pienezza del peccato. Ripieni di ogni… , pieni di… e chi più ne ha più ne metta. A Dio appartiene ogni pienezza di bene, all’uomo ogni pienezza di male.

E, quel che è peggio, non solo l’uomo commette peccato, ma ama il peccato e giustifica chi lo compie, a cominciare da se stesso.

32che conoscendo il decreto di Dio, che sono degni di morte coloro che fanno tali cose, non solo fanno queste cose, ma anche approvano quelli che le fanno.

Alla radice del peccato non è l’ignoranza del bene, ma l’amore per il male che è disobbedienza alla legge di Dio. L’uomo che entra nell’esistenza, non semplicemente è già peccatore, ma è contento di esserlo e pensa di trovare la propria felicità andando contro la volontà di Dio. Se Dio vuol educarci al bene e riportarci al suo amore, l’intento nostro è quello di confortarci e di istruirci in ogni male. Nulla di buono può venirci dall’uomo, se non l’incitamento e l’istigazione al male. Così il fratello mette a morte il fratello ed i padri condannano i figli alla dannazione, dopo aver rifiutato la parola di Dio. Ma chi ha giudicato la Parola, sarà giudicato dalla stessa Parola.

Diventata irragionevole la ragione stessa, rimangono prive di base aurea anche le idee del dovere e della solidarietà umana. Un mondo pieno di arbitrio personale e di iniquità sociale si spalanca – non soltanto nella Roma dei Cesari. La vera natura della nostra esistenza ribelle e inconvertita si manifesta. La nostra empietà ed insubordinazione è sotto l’ira di Dio… Questa è la sapienza della notte, che si riconosce da sé per follia. Essa è follia, perché si attiene imperturbabilmente ad una considerazione bidimensionale delle cose umane che è continuamente confutata dai fatti. Essa vede dove conduce la via inconvertita dell’uomo, essa non è all’oscuro sul significato della sua direzione e del suo fine. Essa vede la causa e conosce l’effetto ma non ardisce fermarsi. Lo strano lamento sulla caducità della esistenza terrena, e l’accusa altrettanto poco comprensibile sopra questo fondamento, contro la peccaminosità dell’uomo, accompagnano sempre la via dell’uomo che sta dimenticando il suo Creatore: ma la conclusione è sempre che essi fissano lo sguardo sopra questo terreno ed affermano, vogliono, promuovono e approvano tutto quello che hanno costruito sopra di esso – e lo difendono contro ogni protesta fondamentale. Perché dunque è così difficile ricordarsi del Dimenticato, quando l’effetto di questa dimenticanza, la fine del nostro vagolare nella notte, la morte, è così manifesto?” ( Barth )

 

 

 

 

Lettera ai Romani cap2

 

 

 

                                        Cap.2

 

1 Perciò sei inescusabile, o uomo chiunque, giudicante; infatti mentre giudichi l’altro, condanni te stesso, infatti tu, il giudicante, fai le stesse cose.

2 Sappiamo ora che il giudizio di Dio è secondo verità su quelli che fanno tali cose.

3 Pensi poi questo, o uomo che giudichi quelli che fanno tali cose e che fai le stesse cose, che tu sfuggirai al giudizio di Dio?

4 O disprezzi la ricchezza della sua benevolenza e della tolleranza e della pazienza, ignorando che la bontà di Dio ti guida a conversione? 5 Ma secondo la tua durezza e di un cuore non convertito metti in serbo per te stesso ira nel giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio 6 che contraccambierà a ciascuno secondo le sue opere.

7 A coloro che secondo perseveranza di opera buona cercano gloria e onore ed incorruttibilità, vita eterna, 8 invece ai disobbedienti alla verità per ambizione, obbedienti all’ingiustizia, ira e sdegno. 

9 Tribolazione e angustia su ogni anima di uomo operante il male, Giudeo sia prima che Greco: 10 gloria invece e onore e pace a ognuno operante il bene, Giudeo sia prima che Greco: 11 infatti non c’è preferenza di persone presso Dio. 12 Quanti infatti senza legge peccarono, senza legge anche periranno e quanti nella legge peccarono, per mezzo della legge saranno giudicati. 13 Non sono infatti giusti presso Dio gli uditori della legge, ma i facitori della legge saranno giustificati.

14 Quando infatti i gentili che non hanno la legge, per natura fanno le opere della legge,  questi, legge non avendo, a se stessi sono legge. 15 Costoro dimostrano che l’opera della legge è scritta nei loro cuori, rendendo testimonianza di loro la coscienza e i pensieri accusanti o anche scusanti gli uni gli altri, 16 nel giorno in cui  Dio giudica le cose nascoste degli uomini secondo il mio vangelo per mezzo di Cristo Gesù.

17 Ma se tu porti il nome di Giudeo e ti appoggi sulla legge e ti glori in Dio  18 e ne conosci la volontà e discerni le cose eccellenti, essendo ammaestrato dalla legge, 19 sei convinto poi di essere te stesso guida dei ciechi, luce di coloro che sono nella tenebra,

20 educatore degli irragionevoli, maestro degli infanti, avente la rappresentazione della conoscenza e della verità nella legge.

21 Tu dunque, l’ammaestrante l’altro, non istruisci te stesso? Tu, il predicante di non rubare, rubi? 22 Tu, il dicente di non commettere adulterio, commetti adulterio? Tu, l’avente in abominio gli idoli, saccheggi i templi? 23 Tu che nella legge ti glori, per mezzo della trasgressione della Legge, disonori Dio. 24 Infatti il nome di Dio attraverso voi è bestemmiato tra le genti come è scritto

25 La circoncisione infatti certamente giova qualora tu pratichi la legge; qualora invece tu sia trasgressore della legge, la tua circoncisione è diventata  incirconcisione . 26 Se pertanto l’incirconcisione osserva le prescrizioni della legge, non sarà considerata la sua incirconcisione come circoncisione? 27 E la incirconcisione per natura adempiente la legge giudica te  trasgressore della legge per mezzo della lettera e della circoncisione. 28 Infatti non il manifestamente Giudeo tale è, né la manifestamente circoncisione nella carne tale è, 29 ma quello in segreto è Giudeo, e la circoncisione è del cuore  nello spirito, non nella lettera, del quale la lode non è da uomini, ma da Dio.

 

 

 

1 Perciò inescusabile sei, o uomo chiunque, giudicante; mentre infatti giudichi l’altro, condanni te stesso, infatti tu il giudicante fai le stesse cose.

Allorché uno spirito di giudizio  ha preso radice nel cuore dell’uomo, non si ferma al solo Dio, ma si allarga a tutte le creature, per vedere se sono buone. Mentre lo sguardo di Dio  infonde  la bontà del Creatore, lo sguardo dell’uomo fa cattivi i suoi simili, perché trasporta in essi la propria malvagità. Il Signore scruta e giudica per dare la vita, lo sguardo dell’uomo scruta e giudica per portare la morte. Ed è paradossale che il giudizio sul peccatore venga dallo stesso uomo che fa il peccato ed approva quelli che lo compiono. Paolo vuol dimostrare che l’eccezione conferma la regola. Anche quando l’uomo sembra respingere il peccato, in realtà lo afferma. Lo giudica e lo rifiuta negli altri, in maniera sporadica ed occasionale, senza intelligenza alcuna,  lo approva in se stesso, come consuetudine e regola di vita; perché in realtà compie le medesimi azioni che  condanna nel prossimo. Nessun peccato è in attesa di giudizio se non il nostro. Diversamente siamo nell’inganno e nella falsità più grande. Come l’uomo non è in grado di giudicare il peccato altrui e neppure gli è richiesto, così non è in grado di giudicare se stesso, se non lasciandosi giudicare dalla Parola di Dio. Non c’è peccato, nostro o altrui, che non ci riporti alla radice di ogni peccato. E non comprende la radice del peccato chi ne porta i frutti, ma soltanto Colui che li raccoglie e li rigetta per innestare sull’albero cattivo un albero buono. Prima di conoscere la giustizia di Dio, bisogna conoscere e riconoscere l’ingiustizia dell’uomo. Non come ci è dato da uno sterile ed infruttuoso confronto di noi stessi con noi stessi, ma come ci è dato dal confronto con il nostro Creatore, nell’ascolto della Sua Parola che è obbedienza alla Sua volontà. Il Vangelo da un lato manifesta la giustizia di Dio per coloro che ascoltano, dall’altro  rende noto un giudizio secondo verità per coloro che sono sordi al buon annuncio. Per questo continua Paolo…

2 Sappiamo infatti che il giudizio di Dio è secondo verità su quelli che fanno tali cose.

Coloro che compiono azioni malvagie, ignorando Dio, non sono giudicati secondo  giustizia. E come possono essere giudicati da quella giustizia che non vogliono conoscere? Il giudizio su di loro è unicamente secondo verità, perché la verità che viene da Dio è palesemente nota a tutti, mentre la sua giustizia è nascosta ed attende di essere rivelata. L’ateismo esclude alla radice qualsiasi possibilità di intervento divino e giustifica agli occhi di tutti ( sappiamo infatti ) un giudizio di condanna eterna secondo verità. Ateo non è solo l’uomo che dice di non credere all’esistenza di Dio, ateo è ogni uomo che si sottrae al giudizio della Sua parola. Cosa ti giova essere convinto dell’esistenza di Dio, se non ti lasci da Lui guidare ed illuminare, nell’ascolto della Sua voce?

3 Pensi poi questo o uomo che giudichi quelli che fanno tali cose e che fai le stesse cose che tu sfuggirai al giudizio di Dio?

Il giudizio dell’uomo sull’uomo non può in alcun modo prevenire quello divino e neppure può essere una scappatoia per evitarlo su di sé. Perché è un dato di fatto che anche quando condanniamo il peccato negli altri, noi stessi lo facciamo. Invece di giudicare il prossimo meglio lasciarsi giudicare dal Signore e comprendere quale sia un giudizio che non vuole essere semplicemente secondo verità, ma ancor più ed ancor prima secondo giustizia.

La giustizia di Dio da un lato respinge il giudizio sul fratello, dall’altro chiede ed esige il giudizio su se stessi.

Se il giudizio divino fosse conforme a quello dell’uomo, nessuno si salverebbe. Perché chi condanna il male dell’altro lo commette lui pure. Nessuno può chiamarsi fuori da una condizione di peccato, se non per inganno del Satana. Nel momento stesso in cui giudichiamo gli altri, dimentichiamo che il loro peccato è il nostro peccato e che, in definitiva, noi non siamo migliori, perché facciamo le stesse azioni. In una maniera più blanda e velata agli occhi nostri, ma tale da meritare lo stesso giudizio da parte di Dio. Perché tutti siamo sotto il potere del Maligno e niente sfugge agli occhi del Signore. Chi giudica gli altri è vittima di un duplice inganno: da una parte presume di una giustizia che non gli appartiene, dall’altra pensa stoltamente di poter in qualche modo sfuggire al giudizio di Dio: quel giudizio che non si ferma alle apparenze esteriori, ma penetra le profondità del cuore, fino ad affermare che nessuno è giusto se non colui che è fatto tale dal Cristo. Il discorso di Paolo delinea sempre di più l’immagine di un uomo peccatore, fino alla dichiarazione chiara ed esplicita dell’universalità del peccato umano. Il peccato si manifesta in forma e in misura diversa, ma nessuno è esente da colpa e nessuno è degno della vita eterna, se non per grazia e dono del Signore. L’unico giudizio sul peccatore appartiene a colui che è senza peccato e nessuno è senza peccato se non il Cristo di Dio.  A noi è dato giudicare ciò che è male, ma non è concesso il giudizio su colui che fa il male, perché giudicando e condannando gli altri giudichiamo e condanniamo noi stessi. Questo in definitiva è l’inganno dell’uomo della Legge: credere in una diversità che gli appartiene in proprio, mentre è semplicemente fatta e donata da Dio.

Il giudizio di Dio non è  per i soli atei, entra anche nel cuore di coloro che credono di credere, per vagliare l’autenticità della loro fede. Perché se è vero che i peccati li facciamo tutti e secondo verità tutti meritiamo la condanna, è altrettanto vero che, per coloro che credono, vi è un giudizio secondo giustizia. Ma bisogna comprendere il senso della giustizia divina e di una salvezza data gratuitamente, senza fraintendere e senza banalizzare, come potrebbero fare alcuni.

4 O la ricchezza della sua benevolenza e della tolleranza e della pazienza disprezzi ignorando che la bontà di Dio ti guida a conversione? 5 Ma secondo la tua durezza e di un cuore non convertito metti in serbo per te stesso ira nel giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio 6 che contraccambierà a ciascuno secondo le sue opere. 7 A coloro che secondo perseveranza di opera buona cercano gloria e onore vita eterna, 8 ai disobbedienti alla verità per ambizione, obbedienti invece all’ingiustizia, ira e sdegno. 

“Quello che si deve dire degli uomini in generale, si deve dunque dire anche degli uomini di Dio. Essi non sono, come uomini, diversi dagli altri uomini. Non vi è una peculiare storia di Dio come particella, come quantità nella storia generale. Ogni storia della religione e della Chiesa, si svolge in tutto e per tutto nel mondo. La cosiddetta storia sacra è soltanto la crisi permanente di ogni storia, non una storia nella storia, o accanto alla storia. Non esistono santi mescolati a profani. Appunto in quanto essi vogliono esserlo, non lo sono. Appunto la loro critica, protesta, accusa, finchè la scagliano contro il mondo, invece di sottoporvisi anch’essi, li pone inevitabilmente in linea col mondo. Questa accusa rimane all’interno del mondo, viene dalla distretta, non dal soccorso, è una parola intorno alla vita, non la vita stessa, una luce artificiale nella notte, non il levare del sole né l’inizio del giorno… Trascinato o traente, tutto ciò che è umano nuota con la corrente, sulla quale sembra galleggiare o alla quale sembra addirittura resistere. Cristo non dimora in alcun senso tra i giusti. Dio solo deve aver ragione. La tragicità di tutti gli uomini di Dio sta in questo, che combattendo per il diritto di Dio, devono mettersi nel torto. Ma così deve essere, poiché gli uomini non devono occupare il posto che è di Dio”. ( Barth )

Sull’uomo pende il giudizio di Dio: non saremo solo giudicati, ma siamo già giudicati. Spetta a noi scegliere tra un giudizio che è semplicemente secondo verità ed un giudizio che già da ora vuol essere secondo giustizia.

Nessuna parola di condanna da parte di Dio che non sia prima parola di salvezza . Ma non dobbiamo disprezzare la ricchezza della sua benevolenza e della tolleranza e della pazienza. Bisogna saper cogliere nel profondo del nostro cuore la voce del Signore, così come parla a tutti e da sempre attraverso la coscienza ed ancor più come parla ai molti attraverso il Vangelo di Cristo. Per questo Paolo scrive che non si vergogna di annunciare il Vangelo: prova vergogna ed è titubante chi porta una brutta notizia; non arrossisce e non esita chi porta una buona notizia. Niente di nuovo in un giudizio di Dio secondo verità; tutto di nuovo in un giudizio secondo giustizia. Ma bisogna intendere il senso di questa novità. Il Vangelo di Cristo non crea una nuova giustizia di Dio, semplicemente manifesta ciò che è da sempre: proclama ai quattro venti ciò che finora è stato rivelato soltanto a coloro che hanno orecchi di ascolto. Novità non è la misericordia divina: essa è eterna; novità è l’annuncio della misericordia divina così come si è manifestata in Cristo. Non c’è uomo che non sia oggetto dell’amore di Dio, ma è un amore nascosto in Cristo.  Ciò che era nascosto si è ora chiaramente rivelato in Gesù, con la sua morte e resurrezione. La venuta del Salvatore non è la linea di demarcazione della storia tra un prima di dannazione ed un dopo di salvezza. Il sacrificio di Cristo è sempre attuale nella sua chiesa e per la sua chiesa, semplicemente si manifesta e si fa conoscere in tutta la sua pienezza di grazia  in un tempo e per un tempo. E’ questo il pensiero portante della lettera ai Romani, il resto è soltanto una sua ulteriore chiarificazione ed esplicazione. Possiamo dunque concludere che la misericordia divina è ora da tutti intesa semplicemente perché a tutti gridata e non semplicemente sussurrata? Niente affatto. Chi è sordo in qualsiasi caso non intende. Bisogna innanzitutto avere orecchi di ascolto. Ma per coloro che ascoltano ora tutto è sicuramente più chiaro e la via della salvezza appare più luminosa e più sicura. Se in Cristo la parola di Dio grida più forte, bisogna però che l’uomo si dia una bella lavata di orecchie. Un annuncio nuovo deve trovare una nuova volontà di ascolto. Non intende la voce di Dio colui che non intende dapprima la propria voce. Prima di confrontarsi con la parola del Signore l’uomo deve verificare la propria capacità di ascolto e scegliere il proprio punto di ascolto. E non può farlo indipendentemente da colui che parla, ma soltanto in sintonia con colui che parla, procedendo da ascolto in ascolto, lasciandosi ogni giorno rinnovare dal Signore per  contenerlo e portarlo sempre di più nel proprio cuore. La salvezza è in un cammino che procede da fede a fede, ma  bisogna essere pronti e preparati e prendere la strada giusta per non affannarsi invano ed essere portati fuori e lontano. Chi ascolta una parola deve cominciare con la parola, senza nulla tralasciare e nulla anticipare. “Pentitevi e credete al buon annuncio”: così esordisce la parola di Cristo. Il Vangelo di Paolo non è qualcosa d’altro, è sulla stessa lunghezza d’onda. L’Apostolo non fa semplicemente parlare Cristo, ma spiega e ci illumina riguardo alla parola di Cristo. Se Gesù ci chiama innanzitutto al pentimento, prima di comprendere il come bisogna comprendere il perché. Non confessa il proprio peccato colui che prima non è convinto di peccato. Non si trova la radice della propria salvezza, se prima non si trova e non si comprende la radice della propria perdizione. Altrimenti la confessione di peccato è parola vuota, priva di grazia santificante. Una confessione finta, trova una grazia finta.

Bisogna trovare la strada giusta, in una giusta consapevolezza di peccato. Il discorso di Paolo non è da poco e non va preso alla leggera: non c’è vera salvezza se non in una vera e sincera consapevolezza di peccato. Non ci stupisca e non ci meravigli la complicante insistenza di Paolo riguardo al nostro peccato. Se Paolo complica “troppo” è soltanto perché l’uomo semplifica “troppo”; e con ciò vanifica la grazia di Dio. Non a caso si danno interpretazioni diverse e contrastanti: non è semplicemente una questione filosofica o teologica è ancor prima una questione di salvezza. Non ogni coscienza di peccato è vera coscienza di peccato, ma solo quella che nasce dall’ascolto della parola di Dio. Non basta essere convinti che nel mondo è il peccato. E’ vera coscienza di peccato quella che confessa il proprio peccato, è falsa coscienza di peccato quella che confessa il peccato degli altri.  L’una si umilia e si lascia giudicare, l’altra si esalta e si fa giudice.

Il giudizio di condanna da parte dell’uomo per coloro che operano il male è ingiustificato, dal momento che tutti compiamo le medesime azioni, in maniera e in misura diversa, ma qualitativamente omogenea rispetto al nostro essere da Adamo ed in Adamo. Non è semplicemente un modo sbagliato di vedere noi stessi in confronto agli altri, ma innanzitutto un modo sbagliato di vedere Dio nei confronti dell’uomo. Perché se è un dato di fatto il nostro peccato ,  ancor più è un dato di fatto l’amore del Signore verso ognuno di noi. Disprezzo dell’uomo dunque, ma ancor di più disprezzo e rifiuto della bontà, della tolleranza e della pazienza di Dio Salvatore. Non si può considerare il peccato senza al contempo considerare la misericordia divina.  Non si nega dunque e neppure si ignora il peccato, semplicemente si afferma l’amore di Dio e con ciò  la necessità di un ravvedimento riguardo alla nostra vita: non semplicemente riguardo a questa o quell’azione, ma riguardo alla totalità e alla fondamentale unità del nostro rapporto con Dio. Perché ogni peccato piccolo o grande che sia, in qualsiasi luogo o momento venga commesso, attesta la nostra malvagità e la nostra estraneità rispetto all’amore divino. Che cosa dunque ci unisce universalmente gli uni agli altri in confronto a Dio e non semplicemente in negativo così come appare con evidenza, ma ancor più in positivo, così come dovremmo mettere in evidenza ? Una consapevolezza di peccato che ci spinge al pentimento e ad una volontaria umiliazione dell’uno verso l’altro e di tutti verso Dio. Così il giudizio di condanna nei riguardi del fratello cede il posto alla confessione del proprio peccato e il disprezzo dell’amore divino alla gioia, che viene dalla consapevolezza del perdono. Non continuare a misurare i tuoi e gli altrui peccati: non farai molta strada verso la via della salvezza. Chiedi perdono al Signore per te e per tutti gli uomini ed entra nella novità di vita che è data  da Gesù Salvatore. C’è un disprezzo ed un rifiuto dell’amore divino, ma nel contempo vi è anche una “fede” nell’amore di Dio che è falsa e sbagliata, perché prende in considerazione chi è Lui senza al contempo considerare chi siamo noi, non porta al pentimento e neppure alla liberazione dal peccato, ma sancisce definitivamente il nostro perdurare nel peccato e con ciò ci rende degni di riprovazione eterna. Accettazione dunque dell’amore divino e confessione del proprio peccato, ma per entrare in una vita nuova. Guai a coloro che parlano della misericordia divina per giustificare le proprie colpe e per rimanere nell’ombra della morte. Beati coloro che esaltano l’amore di Dio nella confessione del proprio peccato e vengano liberati dalla potenza del Maligno.

“Dove Dio parla ed è conosciuto, non si può parlare di un essere e avere e godere dell’uomo. Chi è eletto da Dio non dirà mai che egli ha eletto Dio. Il fatto che il timore e la pietà davanti a Dio trovino posto in un uomo, la possibilità della fede si può intendere soltanto come una impossibilità, come l’inspiegabile “ricchezza della sua bontà” ( Come ho io meritato questo che sono cieco eppure vedo? ), come inspiegabile “pazienza” della sua ira ( Come accade proprio a me, di fare eccezione tra mille? ), come inspiegabile “longanimità” di Dio verso di me ( Che cosa dunque può Dio aspettare da me, per avere data proprio a me questa inaudita possibilità? ) Nulla, proprio nulla si può addurre come fondamento e spiegazione di questo “io” e “me”; è del tutto campato in aria, è il puro, assoluto, verticale miracolo… “La bontà di Dio vuol condurti a penitenza”. Quello che diviene vero nell’uomo dal punto di vista di Dio e di lui solo, non può diventare altro che nuova invocazione a Dio, nuova esigenza di conversione, di timore e umiltà, nuovo invito a far getto di ogni sicurezza, ad abbandonare ogni vanto, a dare nuovamente la gloria a Dio, al Dio sconosciuto, come se non fosse ancora mai avvenuto nulla. Ogni pretesa, ogni diritto di proprietà che ne sia dedotto è fraintendimento della elezione, fraintendimento della vocazione ricevuta, fraintendimento di Dio. Ogni affermazione positiva di una situazione di eccezione rende colui che ha intravisto qualcosa di Dio uguale a colui, che non ha ancora osservato nulla. “Non osservi tu che la bontà di Dio vuol trarti a ravvedimento?” Non sai tu che questa è l’unica possibile e reale osservazione? ( Barth)

Ma secondo la tua durezza  e di un cuore non convertito metti in serbo per te stesso ira nel giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio che contraccambierà a ciascuno secondo le sue opere:

Duro è il cuore dell’uomo che non sente e non vuole sentire i richiami del Signore, né si lascia istruire ed illuminare dalla sua parola, ma si chiude in una presunzione di giustizia che non conosce ravvedimento né possibilità alcuna di cambiamento, neppure per grazia di Dio. Il cuore non convertito accumula su di sé  l’ira di Dio, fino a rendere vana la Sua infinita pazienza e a giustificare un giudizio di definitiva condanna. L’infinita pazienza divina trova il suo limite di fronte ad una pervicace ostinazione nel peccato e nel rifiuto della salvezza: indurimento del cuore che si manifesta nel tempo e per un tempo, ma che agli occhi di Dio appare altrettanto infinito cioè senza fine, al pari della sua misericordia. Ed è proprio questa infinita durezza del cuore che è degna di dannazione eterna. Infinita perché non conosce limite e misura nel suo essere contro Dio, infinita perché non ha fine nel tempo ovvero in quell’eternità che solo Dio comprende e conosce. Si può ragionevolmente pensare che il giorno del giudizio cada per ogni uomo quando la sua scelta per o contro Dio assume agli occhi del Signore un significato ed un valore eterni, al punto da rendere ingiustificata ogni ulteriore attesa. Si muore presto perché già degni di dannazione o di vita eterna. E’ plausibile la diffusa convinzione che i buoni muoiano prima dei malvagi, perché il Signore li vuole presto con sé, per risparmiare loro il travaglio della vita, ma ci sembra altrettanto plausibile la morte precoce del malvagio, quando Dio non vede possibilità alcuna di ravvedimento. Perché il senso della vita non è dato dalla sua durata e da tutto ciò che l’accompagna ma da un sì e da un no che appaiono irrevocabili agli occhi del Signore.

Quanto detto può sembrare in contrasto con l’affermazione di Paolo per cui Cristo “renderà a ciascuno secondo le sue opere”, quasi a sottolineare una priorità del fare la volontà di Dio rispetto all’essere trovato conforme alla volontà di Dio. L’operare dell’uomo non deve essere valutato dal punto di vista quantitativo nell’ottica della Legge, ma qualitativo nell’ottica della fede, e non bisogna confondere i frutti della fede con la sua purezza. C’è una fede che si esprime e si manifesta nel tempo e per un tempo  e c’è una fede che si iscrive nell’eternità di Dio, in un tempo che Lui solo conosce. Cosa possiamo dire delle morti premature e precoci? Nulla; ma ci conforta la consapevolezza che Dio vede nei cuori degli uomini prima ancora che essi possano operare. La salvezza viene dunque dalla fede e non dalle opere. Ma è pur vero che se c’è una fede manifesta solo a Dio, indipendentemente dalle opere, c’è anche una fede che si rende manifesta all’uomo nel suo essere conforme al precetto di Dio. C’è una fede senza opere,  salda ed incrollabile che non conosce il tempo dell’operare, perché non le è dato, e c’è  una fede non persistente che ha il suo tempo e con ciò anche le sue opere e la necessità di essere provata e confermata.  Altro è camminare nella fede, altro è dimorare nella fede.

Nella mentalità e nella cultura cattolica è convinzione diffusa, e non da ieri, ma fin dai primordi del cristianesimo, che la morte prematura dell’uomo sia giustificata dalla prescienza divina, la quale vede le nostre azioni  prima ancora che le compiamo. In questo modo anche chi muore prima ancora di poter operare è giudicato dalle sue opere, non da quelle che ha fatto, ma da quelle che avrebbe fatto, qualora ne avesse avuto il tempo. Si tratta di un’ipotesi assai fantasiosa e deviata rispetto al senso della fede, in quanto ignora e non comprende la gratuità della salvezza che non è acquisita in virtù dei nostri meriti ma unicamente per grazia divina. Non siamo accetti a Dio per le nostre opere buone, ma semplicemente perché vogliamo in noi il Suo essere al posto del nostro essere, traviato e fuorviato dal peccato. Certo l’albero si riconosce dai frutti e non è buono se non l’albero che produce frutti buoni. Ma vi è anche l’albero che, pur essendo buono, non fa in tempo a produrre frutti. Ed è l’albero buono che è gradito a Dio, il suo essere fondato ed innestato nell’albero della vita. L’uomo può giudicare  soltanto per le opere, ma Dio ha altri occhi e ben altra conoscenza: vede la bontà dell’albero fin dall’origine. Con ciò non si vuole affermare che esistano uomini naturalmente buoni, ma semplicemente che esistono uomini che dicono il loro sì a Dio molto presto, quando la vita ha una forma molto semplice, e non c’è bisogno che entrino in un’esistenza complessa. Certo noi amiamo e privilegiamo un’esistenza che si manifesta in forme ricche e cresciute, ma soltanto perché complesso e complicato è il nostro cuore. Non arriviamo a maturità se non percorrendo la strada inversa che è quella di un’umiliazione e di una semplificazione del nostro io.

 “Ed ora può accadere il miracolo, che Egli ricompensa “coloro che cercano la sua gloria, onore ed incorruttibilità, con vita eterna”, che dunque a quello che nella limitatezza umana si attua storicamente e psicologicamente come timore ed umiltà davanti a Dio, come ricerca di Dio stesso e di Dio solo, corrisponda un’effettiva scoperta di Dio. Può accadere che il vaso della fede, con tutta la sua patente insignificanza, abbia il contenuto della vita eterna. Può accadere che la “perseveranza” dell’attendere e del tendere umano sia il contrassegno dell’ “opera buona” che si compie in un uomo e per mezzo di esso. Può accadere che quello che uno fa in questo mondo in tutta la debolezza della “carne”, sotto tutti i sintomi della più alta problematicità, sia il bene, e porti già in sé la gloria, l’onore e la pace del mondo veniente. Ma questa possibilità non si può umanamente né realizzare né anche solo rappresentare come reale. Essa esiste, quando esiste, in tutto e per tutto soltanto come possibilità procedente da Dio. Di fronte ad essa il Giudeo ed il Greco, l’uomo di Dio e l’uomo del mondo si ricollocano sopra una stessa linea: entrambi sono partecipi della promessa, e soltanto della promessa. La realizzazione di tale possibilità non sarà mai, in nessuna forma, in grado di distinguersi vantaggiosamente come giustizia umana da altre giustizie o ingiustizie umane. Il credente, l’esecutore dell’opera buona non farà mai valere questa sua opera come un suo possesso contro il non-possesso di altri. Egli non dirà mai: io faccio!, ma sempre: Dio fa! Non dirà mai: Dio ha ricompensato!, ma sempre: Dio ricompenserà! Il timore e l’umiltà davanti a Dio non vorranno mai essere altro che spazio vuoto, indigenza e speranza. Poiché a Dio appartiene e rimane la gloria, che l’uomo venera e ricerca in questo mondo. Ma può anche accadere l’altro, l’orribile miracolo: che”a coloro che seguono l’insubordinazione, siano riservate ira ed indignazione”; che ad un timore, a una umiltà a vista umana indiscutibile, non corrisponda la scoperta del vero Dio, ma una scoperta del non-Dio; l’attesa dello svelarsi dello sdegno divino. Può accadere che Dio “paghi” con ira e indignazione l’opera dell’uomo, che ciò che si presenta notoriamente come esaltazione profetica sia nel suo cospetto “animo servile”: ” il modo di pensare e la concezione della vita del salariato, che suole fare il suo lavoro soltanto per amore del guadagno, senza l’abnegazione del proprietario” ( Zahn ). Una ubbidienza molto brillante alla verità può essere suprema disubbidienza, una tangibile umiltà niente altro che insubordinazione. Ciò che l’uomo fa con “buona intenzione”, può essere un’opera di malvagità e essere profondamente immerso nell’ombra del giudizio. La giustizia umana, in qualsiasi forma, non è mai al sicuro contro la possibilità di essere senza valore agli occhi del compratore divino, e di non essere acquistata… Il giudice non si lascerà mai togliere il diritto di giudicare anche i giusti. Egli giudica, egli stesso, egli solo. ( Barth )

9 Tribolazione e angustia su ogni anima di uomo operante il male, Giudeo sia prima che Greco: 10 gloria invece e onore e pace a ognuno operante il bene, Giudeo sia prima che Greco: 11 infatti non c’è preferenza di persone presso Dio. 12 Quanti infatti senza legge peccarono, senza legge anche periranno e quanti nella legge peccarono, per mezzo della legge saranno giudicati. 13 Non sono infatti gli uditori della legge giusti presso Dio, ma i facitori della legge saranno giustificati.

Nessuno è dimenticato da Dio. Il Signore visita ogni uomo, nel tempo della grazia, ma anche nel tempo del giudizio. Ognuno in definitiva avrà da Dio quello che ha voluto avere. Gloria, onore, pace e vita eterna per coloro che perseverano nelle opere buone. Intendi rettamente: opere buone sono soltanto quelle fatte in Cristo e per Cristo. E non può essere altrimenti perché nessuna perseveranza sarà trovata nell’uomo se non quella donata e creata da Gesù. Ira, sdegno, tribolazione ed angoscia sono riservati a coloro che non credono nel Salvatore. Nessuno è condannato semplicemente perché fa dei peccati; per questi c’è la misericordia divina. Paolo sta parlando degli uomini che,  ribelli a Dio, non si lasciano da Lui correggere e sono diffidenti nei confronti del suo Cristo. Non ogni opera buona è meritevole di vita eterna, ma solo quella che dà prova di essere perseverante; e non è perseverante se non ciò che ha trovato il suo  fondamento. Non ogni opera malvagia è degna di dannazione, ma solo quella che si annida in un cuore ribelle e disobbediente al Padre, sordo ai suoi richiami e diffidente verso ogni offerta di pace e di riconciliazione, anche quando è fatta dal Figlio.

Nessun uomo può sottrarsi al confronto con la legge: vuoi la legge naturale, vuoi la Legge  mosaica o quella di Cristo. Vero è che ci sono uomini che si mettono al di sopra di qualsiasi legge e nulla considerano se non il proprio interesse e tornaconto e nient’altro scopo perseguono nella vita se non il soddisfacimento delle passioni della carne. Peccano senza riconoscere il giudizio che viene dalla trasgressione della legge e proprio per questo non ci sarà per loro alcun tribunale divino: nessuno li accuserà davanti a Dio, ma nello stesso tempo niente e nessuno potrà difenderli. Passeranno immediatamente nella dannazione eterna. Periranno di propria mano e per propria scelta. Non c’è uomo più tristo ed infelice di colui che non vedrà il volto del Padre neppure nel giorno del giudizio: alla sua morte sarà subito inghiottito dall’abisso.

Miglior sorte tocca a coloro che hanno accettato nella loro vita il giudizio che viene dalla legge. Certo, non basta riconoscere la legge, bisogna anche osservarla. Ciascuno sarà giudicato secondo la legge che ha avuto da Dio. Il giudizio sarà più severo per coloro che hanno conosciuto la Legge di Mosè e ancor di più la Legge che è in Cristo. Il giudizio sarà conforme alla misura del dono di Dio, così come è detto: “molto sarà richiesto a colui che molto ha ricevuto…”.

“Infatti davanti a Dio non sono giusti quanti ascoltano la legge; ma saranno giustificati gli operatori della Legge”.

C’è l’uomo che non ascolta la legge e vive come se non ci fosse, e c’è l’uomo che ascolta in un modo sbagliato. Molti si illudono di una propria giustizia, e di una propria fedeltà,  che non è gradita a Dio. La legge va accettata così com’è, nella sua integrità e purezza, come viene dal Signore, senza ripensamenti o adattamenti. C’è un rapporto con la legge che non mira all’obbedienza, ma semplicemente vuol creare una coscienza di giustizia, mediante un autoesame ed un’autocritica che evita e sfugge il confronto con Dio. Tale ascolto non mira a soddisfare il Signore, ma a soddisfare se se stessi, e crea nei cuori una presunzione di giustizia falsa ed ingannevole. L’uomo non ripudia la legge, ma la adatta alle proprie capacità e necessità, escludendo qualsiasi intervento divino e il travaglio che la fede porta con sé. Operatori della legge sono dunque coloro che ascoltano la voce di Dio, con cuore puro e sincero e proprio per questo vengono “giustificati” cioè riconosciuti giusti dal Cristo perché da Lui fatti tali. Ci sembra che in questo passo sia adombrato un mistero molto grande: l’universale chiamata alla santità che viene da Cristo e che è solo in Cristo. Perché qualsiasi uomo che si rapporti alla legge in modo retto, conoscerà la potenza di risurrezione che è in Gesù . Non sarà semplicemente riconosciuto giusto, ma prima ancora sarà fatto da Lui  giusto.

14 Quando infatti i gentili non aventi la legge, per natura fanno le opere della legge,  questi legge non aventi a se stessi sono legge. 15 Costoro dimostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori, rendendo testimonianza di loro la coscienza e  i pensieri accusanti o anche scusanti gli uni gli altri, 16 nel giorno in cui Dio giudica le cose nascoste degli uomini secondo il mio vangelo per mezzo di Cristo Gesù.

E’ fuori discussione che il giudizio sarà fatto secondo il Vangelo e ad opera di Gesù. Ma allora cosa dire di coloro che non hanno conosciuto il Vangelo? Non c’è per loro salvezza? La risposta di Paolo è altrettanto chiara e precisa. Quando i gentili, ovvero coloro che non sono Israele, fanno per natura quello che prescrive la legge, dimostrano con ciò che la legge di Dio è stata incisa non semplicemente su tavole di pietra, ma prima ancora nei cuori degli uomini. Ma a questo punto dobbiamo chiederci che senso abbia la Legge mosaica e lo stesso annuncio del Vangelo, se è possibile un giudizio per la vita eterna, indipendentemente dalla rivelazione. Nella rivelazione noi dobbiamo distinguere ciò che è fatto da ciò che è detto. Dal punto di vista dell’agire la rivelazione appare indiscutibilmente necessaria, in quanto porta al sacrificio di Cristo, come condizione sine qua non per la nostra salvezza. Dal punto di vista del dire e del far conoscere, la Parola rivelata porta luce e maggior consapevolezza di verità nelle nostre tenebre. E’ una grazia molto grande che indica la via maestra e spiana un cammino sicuro per tutti coloro che cercano Dio. Certo non è l’unica via, ma è l’unica sicuramente vera. Per gli uomini che si sono messi in cammino per ritornare al loro Signore non è indifferente sapere dove andare e come andare. C’è già una strada? Chi l’ha tracciata? E’ meglio andare da soli o insieme con altri? E ancora: è possibile imboccare una strada sbagliata? Quali sono le insidie del Maligno? Nessuna risposta certa è data all’uomo, se non nella Bibbia ed attraverso la Bibbia. In Essa e soltanto in essa è la storia della salvezza, scritta non da mano di uomo , ma dalla stessa mano di Dio. Non è indifferente, anzi è assolutamente determinante il modo in cui l’uomo si rapporta al discorso della rivelazione. Ma non bisogna ignorare il punto di vista né quello di ascolto, che cosa l’uomo può vedere ed intendere. Perché la vita di ogni uomo cade in tempi diversi rispetto alla piena manifestazione del Figlio.  Il giudizio non può essere se non a livello individuale, secondo una logica ed un criterio, che Dio solo conosce, in quanto autore di ogni vita. A nulla ci giova mettere a confronto uomini e situazioni diverse: ognuno deve innanzitutto confrontarsi con il Signore e con ciò che di Dio gli è noto ed è stato reso noto. Quello che innanzitutto va detto a nostra consolazione è che la salvezza di Cristo è data a  gli uomini di ogni tempo e cultura. Il modo è scritto negli arcani segreti del Padre: a noi basti la certezza dell’amore divino e la garanzia di un giudizio che è secondo verità e giustizia. Non c’è ansia e non c’è angoscia in rapporto a Dio, se non per l’uomo che non fa la Sua volontà, nell’ascolto della Sua voce. E’ la coscienza stessa che accusa o difende: non la coscienza chiusa in se stessa ma quella che guarda a Dio ed accoglie il suo rimprovero e gode della sua approvazione, nell’obbedienza alla sua volontà: alla luce del giorno in cui Dio giudica le cose nascoste degli uomini secondo il mio vangelo per mezzo di  Cristo Gesù.

Il giudizio di Dio ha un significato storico, ma anche metastorico. È storico perché cade in tempi diversi per ognuno di noi, è metastorico in quanto è illuminato da una luce eterna: quella del Vangelo di Cristo Gesù ( alla luce del giorno ). E’ in virtù di questa luce che nella coscienza dell’uomo i ragionamenti si accusano o anche si difendono reciprocamente tra loro, in ogni tempo ed in ogni momento. Il Signore ci liberi da discussioni inutili. Non ha senso confrontare il Vangelo di Cristo con altri Vangeli. E neppure troppo dobbiamo disquisire sui tempi e i modi della salvezza. Non ce ne viene alcun bene. Ognuno confronti se stesso con la voce dell’unico Dio, e si lasci guidare ed illuminare dall’unica luce. Per chi si riconosce ormai perduto è molto più importante afferrare la salvezza così come gli viene offerta, che porre domande e fare discussioni con chi vuole salvarlo. Colui che è Salvatore si trova in una posizione ed in un’ottica diversa rispetto a colui che deve essere salvato. Vede meglio la situazione e le situazioni, spetta a Lui predisporre le modalità e i tempi di intervento, e non si vede perché debba operare per tutti nello stesso modo e nello stesso tempo. L’eternità di Dio deve pur confrontarsi con il tempo dell’uomo e fare proprie categorie che di per sé sono estranee alla divinità. Ci basti la certezza dell’intervento divino nella nostra vita e la consapevolezza che nessun uomo è mai abbandonato a se stesso dal Signore. Ma allora qual è il giusto comportamento del cristiano di fronte agli uomini che professano altre fedi ed altre religioni? Non quello dell’intolleranza e del giudizio frettoloso, ma quello della paziente misericordia di Dio, il quale vuole che tutti gli uomini giungano alla salvezza in Cristo Gesù. Ciò non significa tutto accettare e tutti giustificare.  E’ inganno diabolico cadere in un qualunquismo religioso in cui tutte le religioni sono messe sullo stesso piano. La salvezza viene da Israele e non da altrove: e questo per bocca dell’eterna Parola. Se è vero che “chi non è con voi è contro di voi, è altrettanto vero che “chi non è contro di voi è per voi”. Sono schiavi del Satana gli uomini che fan guerra a Cristo e alla Sua Parola, e bisogna ben dirlo e non aver dubbi al riguardo. Ma c’è anche il silenzio di chi non giudica ed accetta il confronto con il cristiano, pur professando altra fede. E’ soltanto questa possibilità di confronto che lascia aperto il dialogo e ci proibisce atteggiamenti radicali e stroncanti. La guerra aperta al Vangelo e a Cristo non è certo oggetto di benedizione divina: viene dal Diavolo e non va giustificata in alcun modo. Questo va detto oggi innanzitutto dell’Islam: noi non giudichiamo la fede nel Corano, ma giudichiamo il rifiuto di Cristo e della Sua Parola.

Prima di continuare dobbiamo fare alcune considerazioni.

Ci sembra del tutto fuori discussione che l’uomo sia formato da spirito, anima, carne. E’ quanto leggiamo nella Parola di Dio: non è frutto di elucubrazione umana o opinione personale di Origene ed altri. Fin qui penso che tutti possiamo e dobbiamo essere d’accordo, nonostante la persistenza nella chiesa di una mentalità mutuata dal paganesimo, che, seguendo la filosofia greca, riconosce nell’uomo soltanto due dimensioni: l’anima e la carne. La difficoltà comincia quando cerchiamo di chiarire che cosa si intenda per spirito e che cosa per anima. Ne abbiamo già parlato ampiamente altrove, concludendo che lo spirito altro non è che l’io originario o semplice coscienza di sé, creato dal soffio dello spirito divino. In quanto non semplicemente creato dal nulla ma alitato nell’uomo da Dio, porta in sé l’impronta dello Spirito Santo, e non è soggetto a morte e a cambiamento, ma permane identico a se stesso per tutta l’eternità, come semplice coscienza di un io fondato e relazionato ad un Tu. Questo io creato per la vita eterna, immutabile nel suo essere fondato in Dio viene associato ad un’anima, che non solo è diversa nei suoi attributi da uomo a uomo, ma è anche soggetta a mutamento e destinata alla morte.  Nel caso degli eletti sarà pienamente assorbita nella Vita dallo Spirito stesso di Dio, così da perdere, per volontà propria, ogni libertà di scelta che sia altro dal perenne desiderio del proprio Creatore. In questo modo si avvera quel che è scritto: “sarete tutti dei e figli dell’Altissimo”. Mediante un processo di autoidentificazione per cui lo spirito dell’uomo si specchia e si riconosce pienamente nella sua Sorgente e nel suo Creatore. Questa priorità dello spirito rispetto all’anima è ben sottolineata dalle parole di Origene. Per non cadere in equivoci meglio sarebbe dire che l’anima è associata allo spirito e non viceversa. Ed è in rapporto allo Spirito e in virtù del nostro spirito che ci giochiamo il senso della vita. L’anima rappresenta un dono in più che dovrebbe aiutarci nella sua complessità e nella sua ricchezza a meglio comprendere l’Amore di Dio. Lo stesso dicasi del corpo materiale e di tutto il creato che di per sé non sono assolutamente necessari per la vita eterna, se non per il fatto che ci rendono più consapevoli di essere oggetto di dono. “Ha dato doni agli uomini”: di ogni tipo.  Ma cerchiamo meglio di capire che cosa sia lo spirito. Non un semplice attributo ma la sostanza stessa dell’uomo, ovvero ciò che sta sotto e viene prima di tutto il resto. Non una sostanza complessa, ma una sostanza semplice dell’assoluta semplicità della sostanza divina. Il suo unico attributo è la consapevolezza del proprio fondamento e del proprio fine: ovvero del suo essere io in quanto fondato e relazionato ad un Tu. Vi è dunque un primo livello della coscienza per cui la creatura si sente rapportata al Suo Creatore in modo immediato, sentendo la Sua voce e a Lui rispondendo con la propria volontà. Non a caso si dice voce della coscienza e non parola della coscienza. Il possesso della parola fa già pensare a una creatura evoluta e cresciuta, arricchita di altri doni. Il rapporto interpersonale è dato ed è caratterizzato innanzitutto dalla voce. Perché è dalla voce che una persona si distingue da un’altra e non dalla parola. Per questo Gesù dice: Le mie pecore ascoltano la mia voce” E  la Sua voce non si esprime soltanto nella parola del Vangelo, ma è data a tutti gli uomini di qualsiasi tempo, età, cultura. Si fa sentire al neonato,  al selvaggio, al sordo, allo psicotico. Cambia la sua forma, non la sua sostanza. Nell’esistenza dell’uomo non c’è spirito  che non sia associato ad un’anima e ad un corpo. Ed è  l’anima che rappresenta nell’uomo la complessità del suo essere, come lo spirito ne rappresenta la semplicità. Se lo spirito ha come unico attributo la consapevolezza del proprioo essere in Dio e per Dio, l’anima è formata da una molteplicità di attributi ed è relazionata sia allo spirito sia al corpo materiale in modo complesso. E’ associata allo spirito: in quanto tale è sostanza spirituale. E’ associata ad un corpo:  in quanto tale è  sostanza materiale. Prima del peccato d’origine l’uomo sperimenta una perfetta armonia delle sue dimensioni. Lo spirito informa di sé la vita dell’anima, l’anima informa di sé la vita del corpo. Nell’esistenza, dopo la caduta, tutto si complica. Lo spirito perde o meglio abdica alla sua funzione di guida, l’anima si dissocia dal suo spirito e nello stesso tempo il corpo si dissocia dalla sua anima. La malattia come conseguenza del peccato dello spirito, si manifesta agli occhi dell’uomo, innanzitutto nell’anima e nel corpo. Il peccato dello spirito di per sé non è visibile agli occhi della carne, ma si rende visibile nei moti dell’anima e nelle azioni che da lei procedono. In quanto al giudizio ultimo sull’uomo esso è fatto sul suo spirito, e può essere pronunciato soltanto da Colui che ha gli occhi dello Spirito. Gli occhi della carne vedono ciò che è direttamente associato alla carne ovvero la bontà o malvagità dell’anima, ma non possono vedere il peccato dello spirito. Dal momento che lo spirito altro non è che semplice coscienza di un io creato rapportato ad un Tu Creatore tramite la voce della sua coscienza, lo si può solo definire, non giudicare, in virtù della sua capacità o meno di ascolto. Per questo è scritto. “Oggi se ascolterete la sua voce non indurite il vostro cuore”. Il cuore in quanto rappresenta la dimensione più profonda dell’uomo è figura del suo spirito. Di un cuore nascosto e non visibile si può solo dire che è indurito, allorché non ascolta la voce del Signore, o che è grasso e immondo ovvero appesantito ed intorbidato da un ascolto diverso. Quanto detto certamente mette in evidenza una priorità dello spirito rispetto all’anima ed al corpo. Solo lo spirito dipende direttamente ed esclusivamente da Dio, in quanto all’anima essa  dipende innanzitutto dal suo spirito, e in quanto al corpo innanzitutto dalla sua anima. Lo spirito riceve la vita dallo Spirito Santo, l’anima dallo spirito, il corpo dall’anima. Tutto questo però è solo nella dimensione essenziale, cioè in Eden… in una mirabile armonia e sincronia che manifesta l’obbedienza dell’uomo a Dio. L’anima dà man forte allo spirito, per una maggiore conoscenza, il corpo dà man forte all’anima e la rende sempre più efficiente e cresciuta. Passando dalla dimensione spirituale a quella psichica, da quella psichica a quella materiale e viceversa procedendo a ritroso, l’uomo diventa sempre più ricco e consapevole del dono divino e dell’Amore che lo ha creato. Quanto detto ci aiuta a comprendere il concetto di libertà creata. La libertà dell’uomo va intesa dal punto di vista essenziale come ciò che accompagna le tre “sostanze” o dimensioni, che formano l’uomo. Possiamo parlare di libertà del corpo, di libertà dell’anima, di  libertà dello spirito?  La libertà del corpo nel suo accrescimento e movimento è del tutto illusoria. In realtà il corpo è soggetto alla volontà di Dio. Nella dimensione esistenziale è parzialmente soggetto alla libertà dell’anima e dello spirito. Il corpo si muove secondo la volontà dell’anima e dello spirito. Ma è anche vero il contrario cioè che per certi aspetti l’anima e lo spirito dipendono e sono condizionati dal  corpo. Non c’è regola alcuna né certezza al riguardo. Per quel che riguarda la libertà dell’anima il discorso è ancor più complesso, perché l’anima da un lato è legata allo spirito, dall’altra ad un corpo. Se è illusoria la sua libertà rispetto al corpo lo è ancor di più quella rispetto allo spirito. La libertà in quanto creata ha carattere discensivo: dallo spirito di Dio passa a quello dell’uomo, e nell’uomo si ramifica in forme e significati diversi in molteplici dimensioni rispetto a ciò che è creato. Rispetto al Creatore non c’è altra libertà se non quella che passa per le vie dello spirito. Perché l’anima è fatta per obbedire allo spirito fino ad identificarsi con esso. Qualche pensatore cristiano è stato preso dalla suggestione del pensiero platonico e l’ ha interpretato in veste cristiana. Al centro dell’uomo sta l’anima, che è libera di seguire gli impulsi dello spirito o quelli del corpo, di scegliere tra il bene ed il male. Ma le cose non stanno così. Il corpo di per sé non rappresenta il male se non in quanto subisce e porta le conseguenze dei mali dell’anima e dello spirito Lo spirito d’altra parte non si identifica sic et simpliciter con lo Spirito di Dio, ma è da Lui generato , in noi immesso tramite un soffio che è discensivo nel senso dell’alitare la sua voce ed è ascensivo nel senso dell’ascoltare la medesima voce. È lo spirito dell’uomo che innanzitutto sceglie  in rapporto a Dio.   Mai da solo, ma sempre associato ad un’anima più o meno semplice. Ed è l’anima che segue il destino segnato dallo spirito non viceversa. L’anima non rappresenta la centralità dell’essere umano , non è di per sé buona o malvagia in conseguenza della propria libertà, ma è buona se resa tale da uno spirito buono, malvagia se resa tale da uno spirito fattosi malvagio. Perché mai allora al senso comune appare preminente la funzione ed il ruolo dell’anima? Ciò è soltanto in conseguenza del peccato d’origine, che ha creato non solo uno spirito dissociato dallo Spirito, ma anche uno spirito dissociato dalla propria anima. E’ proprio l’anima in quanto dotata di razionalità e di una parola che in apparenza va oltre la voce dello spirito il punto debole dell’uomo, il più vulnerabile.   E’ un aiuto e un fattore di crescita allorché l’uomo ascolta la voce di Dio,  è  un grosso impedimento ed un ostacolo da rimuovere allorché lo spirito dell’uomo si distoglie da quello di Dio… La colpa di Adamo si ripete ogni giorno non solo come conseguenza del primo peccato, ma come reiterazione del primo peccato. Allorché l’anima pretende una sua superiorità rispetto allo spirito dimostra tutta la sua debolezza e fragilità. Buona è l’anima che si lascia guidare e giudicare dallo spirito aperto al soffio dello Spirito Santo, malvagia è l’anima che si ripiega su se stessa, non avvertendo ed ignorando la voce della coscienza. Ma giunti a questo punto, lo ripetiamo, l’anima si allontana dallo spirito solo perché lo spirito si è già allontanato da Dio e non è più in grado di farsi luce e guida dell’uomo. Abbandonata a se stessa quale luce rimane all’anima se non quella della propria ragione? Non vi è dunque libertà dell’anima rispetto allo spirito cui è associata, se non in un modo del tutto fallace ed illusorio, frutto del peccato d’origine. Non è questa la libertà originale dell’anima, ma un’altra, rivolta più propriamente non al Creatore ma alla creazione ed al proprio essere creato. Se l’anima non ha libertà di movimento verso Dio se non nello spirito e per lo spirito, le è stata donata da Dio una libertà di movimento e di operazione verso il creato. È proprio grazie ad un’anima razionale che l’uomo può dominare su tutte le creature terrestri, esplorare, conoscere l’universo, operare in esso, creando una realtà sempre nuova. Libertà illimitata dunque verso il creato, ma non verso il Creatore.  “Tu puoi mangiare liberamente di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male, non devi mangiare, perché qualora tu ne mangerai, morrai.” Tutto è consentito dunque ad Adamo all’infuori di una conoscenza in proprio e impropria di ciò che appartiene esclusivamente a Dio. Solo Dio conosce il bene, come ciò che è esclusivamente suo, e il male come ciò che è esclusivamente non suo. Stolto l’uomo che si illude di essere come Dio perché conosce il bene e il  male. La creatura può conoscere solo per partecipazione, in quanto nulla ha di proprio. Se oltre al bene conosce anche il male, vuol dire che non solo partecipa del bene, ma anche del male. E con ciò ha già perduto lo stato di grazia. Dio ci ha creato perché conoscessimo solo il bene, nell’obbedienza alla voce dello Spirito Santo che si fa sentire al nostro spirito. La salvezza e la vita eterna non consistono dunque in una conoscenza, ma semplicemente in un’obbedienza. La conoscenza appartiene alle categorie dell’anima, l’obbedienza è propria dello spirito, allorché ascolta la voce di Dio. L’obbedienza che viene dall’ascolto è al di sopra di ogni falsa obbedienza che viene dal conoscere e dal comprendere. L’ascolto sic et simpliciter della voce di Dio, quale si esprime alla nostra coscienza, non ha necessariamente un carattere logico, anzi a volte può apparire illogico. Nella sua intima essenza possiamo dire che in quanto collegato direttamente alla persona di Dio, esso ha carattere prerazionale e sovrarazionale, non esclude necessariamente la ragione, ma neppure ne ha bisogno assoluto. Non credi che un subnormale ed un neonato abbia il tuo stesso rapporto con Dio? Sei in errore! E’ un rapporto diverso dal tuo, semplicemente perchè  più immediato, e in quanto tale più autentico. Ma allora perché all’uomo in genere è data la conoscenza del bene e del male, se di per sé è perfettamente inutile e fuorviante? Tutto questo è conseguenza del peccato d’origine; Dio voleva che nel cuore dell’uomo ci fosse soltanto la conoscenza del bene e di Colui che è bene. Ma ora che bisogna tornare indietro, non si può intraprendere il cammino di ritorno se non partendo dal punto di arrivo. Perché ormai la disobbedienza è un dato ed un fatto, così come pure la conoscenza non solo del bene, ma anche  del male e tutto bisogna ricondurre alla Verità. Non ignorando la realtà del nostro essere, ma riportandolo al giusto modo di essere, non distruggendo  la nostra ragione ma riportandola alla vera obbedienza. Perché ormai una testa ce l’abbiamo, come pure un nostro modo di vedere le cose e nulla vale disquisire sulle nostre ed altrui ragioni, ma imboccare una strada diversa: quella dell’obbedienza allo Spirito. La nostra conoscenza non può essere semplicemente eliminata, ma va rieducata, illuminata, guidata, finché non trova il suo essere, fondata in Lui e per Lui. In questo cammino è di fondamentale importanza la Parola di Dio. Essa esprime il punto di vista di una conoscenza superiore che attinge al Creatore solo per guardare alle sue creature. E’ la potenza di Dio che riveste la nostra impotenza. La Parola di Dio assume la forma della parola dell’uomo, per illuminare la nostra mente e per liberarci dalla schiavitù del Maligno… Finché si fa carne nel Cristo,  per essere non solo ascoltata, ma ancor più mangiata. Si può dubitare che la Parola che si ascolta sia un semplice riflesso della nostra parola, perché il Vangelo ognuno lo capisce alla propria maniera. L’Eucarestia ti dà la certezza assoluta che ti nutri di un’altra Parola. Non ti dà una potenza diversa da quella che viene dalla semplice divina lettura: semmai ti conferma e ti rinsalda  in essa. E’ l’ascolto della Parola di Dio, che giorno dopo giorno, riafferma in noi la priorità della voce della coscienza rispetto alla parola della nostra anima. Perché ormai nella nostra vita tutto ruota intorno all’anima, e tutto si vuole e tutto si sceglie conforme ai dettami della nostra anima. Lo spirito appare come sordo e muto. E’ diventato impuro perché non ascolta più solo ed unicamente la voce di Dio: è invaso e saccheggiato dal Satana, che si nasconde sotto le spoglie di un’anima falsa ed ingannevole. Finché questi non è cacciato dalla potenza della Parola di Dio, che smaschera ogni inganno e ci riporta la luce del suo Spirito. Perché noi non siamo capaci di distinguere i sentimenti dello spirito da quelli dell’anima, ma lo può Cristo in noi. Comprendi adesso l’importanza della rivelazione? Certo Dio non ha mai smesso di parlare allo spirito dell’uomo e da sempre è la sua salvezza. Ma quale grazia allorché la sua parola squarcia la sordità dell’orecchio umano e tutti possono intenderlo… anche gli orecchi meno fini. Con la venuta di Cristo tutto è fatto più facile. Ma non è tolto l’onore e la gloria all’uomo che ha fatto la volontà di Dio, pur non sentendola proclamare dalla sua viva voce. Semmai la gloria di Abramo e di tutti i padri è accresciuta e magnificata dal Figlio. Esci dalle secche di un cuore che è schiavo delle proprie ragioni, apri il tuo orecchio all’ascolto della Parola di Dio, così come è proclamata nella chiesa e dalla chiesa. Fuggi lontano dalle ambiguità di un discorso puramente etico: è un soliloquio dell’anima con se stessa. Non è la voce dello Spirito Santo, ma l’inganno del Satana che magnifica la parola dell’uomo, per distoglierlo dall’ascolto di Dio. Rinnega la tua anima, perché essa sia esaltata dal Signore, da lui glorificata e fatta grande come quella di Maria.

Qual è il vanto dell’uomo? E’ escluso… dalla grazia di Dio. Tu che guardi con disprezzo i piccoli e non riesci a cogliere il loro punto di esistenza, cambia rotta e mettiti dalla loro parte. Il piccolo e solo chi è piccolo sente la voce di Dio, colui che è grande è sommerso e assordato dal frastuono delle proprie parole. Grasso diventa il suo cuore, pieno di ogni turpitudine ed immondezza, anche se conosce l’ebbrezza di un dolce sentire. Sorde sono le sue orecchie, anche se tutto legge, tutto ascolta e tutto indaga. Mute diventano le sue labbra, anche se molto parla di verità. Non sparge il seme della vita, ma diffonde intorno a sé il puzzo della morte.

17 Ma se tu porti il nome di Giudeo e ti appoggi sulla legge e ti glori in Dio  18  e ne conosci la volontà e discerni le cose eccellenti, essendo ammaestrato dalla legge, 19 sei convinto poi di essere te stesso guida dei ciechi, luce di coloro che sono nella tenebra, 20 educatore degli irragionevoli, maestro degli infanti, avente la rappresentazione della conoscenza e della verità nella legge.

 Tu dunque ammaestrante l’altro non istruisci te stesso? Tu il predicante di non rubare, rubi? 22 Tu il dicente di non commettere adulterio commetti adulterio? Tu l’avente in abominio gli idoli saccheggi i templi? 23 Tu che nella legge ti glori, per mezzo della trasgressione della Legge  disonori Dio. 24 Infatti il nome di Dio attraverso voi è bestemmiato tra le genti come è scritto

E’ questa l’immagine tipo dell’uomo che ha un rapporto completamente sbagliato con Dio. Paolo non prende in considerazione un  rapporto mancato, come nel caso dell’ateo o di chi dichiaratamente si manifesta contro Dio: questo si giudica da se stesso. Bisogna piuttosto smascherare il Satana là dove si sente più sicuro: non dove si ammanta di tenebre, ma dove si ammanta di luce. Prima della venuta di Cristo quale uomo è più vicino alla luce di chi è Giudeo? E quale dono più grande è stato dato all’uomo della legge mosaica? In virtù della conoscenza della Legge, Israele può ben vantare di “saper discernere ciò che più giova, di essere guida dei ciechi, maestro dei fanciulli, depositario della vera scienza e della verità”.

di avere la rappresentazione della conoscenza e della verità nella legge.  Ciò che è rappresentazione può essere pura finzione quando rappresenta altro dalla verità ed il regista è ben altro che la Verità. Ma per quel che riguarda la Legge, Israele ha ogni garanzia, perché è messa in scena  da Dio stesso,  e coinvolge  Lui stesso, come prima attore. Non è ancora quella conoscenza  che si realizza col Logos che si fa carne e tanto meno, l’eterna visione di Dio. La verità, nella Legge, si manifesta in forma mediata e velata. Non è tutto, ma è molto più di quanto è stato dato alle altre genti. Israele ha ben di che rallegrarsi… Ma  non perché  insegni innanzitutto agli altri, ma perché insegni a se stesso. Falso è il rapporto con la Legge che non mira esclusivamente all’ascolto della volontà di Dio, così come è richiesto ad ognuno hic et nunc. Molti attingono alle Scritture per farsi maestri del prossimo: leggono non per imparare, ma per insegnare. Ascoltano non per obbedire, ma per farsi obbedire. Qualsiasi rapporto con la Scrittura che non è pago di se stesso, ma ha bisogno degli altri, del loro sostegno e della loro approvazione è falso ed ingannevole. Si legge la Parola, solo per meglio comprendere la volontà di Dio e per obbedire in un modo più pronto ed immediato. Chi ama veramente la Bibbia, non si lascia scoraggiare dall’indifferenza e dal non interesse degli altri. La Parola è data innanzitutto per ognuno di noi. E’ il nostro cibo spirituale, ciò di cui non possiamo fare a meno. Nessuno che ha veramente fame pensa di saziare gli altri prima di aver saziato se stesso, perché le sue forze verrebbero meno, prima ancora che egli possa operare alcun bene. Riflettano coloro che hanno la preoccupazione e l’ansia dell’anima altrui. Meglio essere discepoli che maestri, meglio ascoltare che insegnare. Il dono della Parola è dato innanzitutto per ognuno di noi. A nulla ti giova insegnare al prossimo che cosa è volontà di Dio, se poi sei il primo a non metterla in pratica. Ma questa è la condizione di coloro che entrano in un rapporto sbagliato con la Scrittura. La strumentalizzano, per costruire se stessi, in una presunzione di verità e di giustizia che è smentita dai fatti. Perché poi in conclusione dicono e non fanno, pongono dei pesi insopportabili sulle spalle degli altri, ma in quanto a loro neppure li toccano. E tutto si risolve in inutili e sterili chiacchiere riguardo al bene e al male… Ma non si entra in quello spirito di obbedienza che ogni figlio deve al Padre. Sono lontani dal vero quelli che si avvicinano alle Scritture per ragioni puramente culturali. Sono parimenti lontano dal Signore quelli che leggono la Parola per giudicare e non per essere giudicati, per insegnare e non per ascoltare.  Il tempo poi manifesta quel che vale l’opera di ognuno: perché il cuore falso si smaschera e si tradisce da se stesso e voglia Dio non soltanto agli occhi degli altri, ma prima ancora ai propri occhi. Chi più di Paolo ha sperimentato tutto questo? Lui che era primo nell’ascolto della Legge si è scoperto nemico di Dio e persecutore di coloro cha annunciano il Vangelo. Nessun maestro di Scrittura è veramente tale, se non nella confessione del proprio peccato e nell’obbedienza alla volontà di Dio. A nulla vale tirare in ballo il ministero della chiesa e l’abito monastico.

 Infatti il nome di Dio attraverso voi è bestemmiato tra le genti, come è scritto.

Conclusione del discorso amara e tragica: coloro che vogliono esaltare tra gli altri e far risaltare ad altri il nome di Dio, sono i primi ad incitare alla bestemmia e ad alimentare il suo fuoco. Non riusciamo a pensare che ogni bestemmia contro l’Altissimo sia colpa esclusiva di Israele: certo viene ascritta ad Israele allorché presume di una diversità che non gli è data e riconosciuta per il solo possesso delle Scritture.

25 La circoncisione infatti certamente giova qualora tu pratichi la legge; qualora invece tu sia trasgressore della legge, la tua circoncisione è diventata  incirconcisione . 26 Se pertanto l’incirconcisione osserva le prescrizioni della legge, non sarà considerata la sua incirconcisione come circoncisione? 27 E la incirconcisione per natura adempiente la legge giudica te,  trasgressore della legge per mezzo della lettera e della circoncisione. 28 Non infatti il manifestamente Giudeo tale è, né la manifestamente circoncisione nella carne tale è, 29 ma quello in segreto è Giudeo, e la circoncisione è del cuore nello spirito, non nella lettera, di cui la lode non è da uomini, ma da Dio.

La circoncisione è segno di appartenenza a Dio. E’ come un marchio di qualità: una certezza per chi la riceve, ed una garanzia da  chi la dona. Se Dio garantisce per noi, noi dobbiamo garantire per Lui. Nessuno è arruolato nella milizia di un re, senza una investitura ed un riconoscimento ufficiali. Da un lato il Signore si fa garante della  chiamata, dall’altro l’uomo deve promettere obbedienza e fedeltà; non direttamente al suo padrone, ma al Suo codice militare. Chi milita per la terra lo fa nel tempo e per un tempo determinato, chi milita per il cielo lo fa per l’eternità. Non c’è divisa o livrea terrena, che non si possa cambiare o rimuovere in qualsiasi tempo. Non così la circoncisione: è suggellata con un segno indelebile. È un patto per la vita,  non soggetto a pentimento o ravvedimento, pena la morte. Grande è quindi l’importanza della circoncisione: è un dono ed una chiamata:  impegna per sempre chi la riceve, e chi la dona. Il patto non è reciso se non dalla morte di uno dei due testatori.

Chi è arruolato in un esercito lo è solo per grazia di chi lo ha chiamato, ma non si rimane in tale grazia, se non obbedendo ad un codice di comportamento, fatto di leggi e di norme uguali per tutti. Non è ancora la condizione di un figlio, ma è già sicuramente una prima liberazione ed una forma di affrancamento da ben altra schiavitù: quella del Maligno, dove non c’è legge alcuna che ci tuteli e ci garantisca, ma l’assoluto arbitrio del Diavolo che dispone a suo piacimento della nostra vita. A qualcuno piace la vita che viene dal Satana, perché non è soggetta a legge alcuna? Quale garanzia te ne viene, se non quella della morte eterna? La circoncisione è già una novità di vita. Paolo vuol essere chiaro: nessuno può dire che la circoncisione è di per sé inutile. Tutto ciò che è dato e comandato da Dio è buono ed assolutamente necessario. Ma bisogna accogliere il dono nello Spirito di chi dona e farne un uso che sia conforme alla Sua volontà. Nessun dono è dato senza una ragione e senza uno scopo: crea un legame d’amore ed un rapporto diverso. Non si può più ignorare  chi ci ha beneficato, e trasgredire i suoi precetti. La circoncisione ha una sua utilità , se osservi la Legge di Dio. Altrimenti manifesta semplicemente a tutti il tuo tradimento nei confronti del  Signore. Niente di più meschino e di più subdolo di un tradimento consumato sotto le vesti del Signore e della sua Legge. La circoncisione è segno visibile di predilezione divina, ma può anche diventare segno visibile di riprovazione da parte del Signore. Piaccia o non piaccia, il segno rimane, perché i doni di Dio non sono soggetti a pentimento, se non per chi li riceve. : se invece tu sei un trasgressore della legge, la tua circoncisione è divenuta incirconcisione.

Noi possiamo rovinare i doni del Signore: ciò che è segno di benedizione può diventare segno di riprovazione, allorché non facciamo la sua volontà. E’ in questo modo che gli ultimi scavalcano i primi, quando fanno la volontà di Dio, senza essere nel numero dei chiamati. Non c’è amore e fedeltà che prima o poi non vengano riconosciuti ed accolti da Dio. Non basta essere entrati nelle grazie del Signore, bisogna rimanervi. L’amore va custodito e coltivato con gelosia, in tutto compiacendo allo sposo. Non è ancora stato consumato il nostro matrimonio eterno, si può ancora essere ripudiati, perché trovati indegni. Altri bussano alla porta del Signore e tutto operano per essere a Lui graditi. Si diventa popolo di Dio per elezione, ma anche di diritto, allorché si cerca la sua volontà e si ubbidisce alla legge naturale. Gli occhi di Dio vanno oltre le apparenze e vedono e scrutano il profondo dei cuori. Non si può simulare l’amore che non c’è. Non è vero Giudeo colui che tale appare nella carne, ma colui che è trovato tale nello spirito, allorché fa la volontà di Dio, mettendo in pratica le sue leggi.

28 Non infatti il manifestamente Giudeo tale è, né la manifestamente circoncisione nella carne tale è, 29 ma quello in segreto è Giudeo, e la circoncisione è del cuore nello spirito, non nella lettera, di cui la lode non è da uomini, ma da Dio

Cosa si intenda per circoncisione è già detto. Cerchiamo ora di comprendere quale differenza vi sia tra la circoncisione secondo lo spirito e quella secondo la lettera. Non c’è circoncisione della carne che non lasci un segno indelebile, così pure indelebile è il segno di un cuore circonciso. Nessun sigillo interiore è visibile se non per Colui che vede e scruta il cuore dell’uomo. Circoncidere significa tagliare tutto intorno, togliere ciò che è impuro, non pertinente alla vita. E’ un’operazione benefica che libera e salva. Si può circoncidere la carne usando strumenti diversi, ma in quanto al cuore non si opera e non si agisce su di esso, se non attraverso le vie della parola. La parola si manifesta in forme diverse: come voce, come suono, come segno o lettera. E’ fuori discussione che la circoncisione della carne è figura e simbolo di quella del cuore. Questo ben lo comprendevano anche i Giudei. Quello che non tutti volevano comprendere è che la circoncisione della carne non necessariamente è circoncisione del cuore. Non solo, vi è pure una circoncisione del cuore che è solo in superficie, non entra in profondità e non rende diversi se non in apparenza. E’ quella che Paolo chiama circoncisione secondo la lettera. La lettera rappresenta l’aspetto formale della parola, è portatrice di un significato e di un messaggio. Non necessariamente accogliendo una lettera accogliamo anche la persona che l’ha inviata. Chi scrive una lettera ci dà indicazioni precise riguardo a questa o quella cosa, questa o quella persona. La lettera che ci è donata da Dio, evidentemente riguarda solo noi ed il nostro bene. Essa ha il nome di Legge e ci dice che cosa dobbiamo fare per essere graditi ed accetti a Dio, ci illumina sul nostro stato e manifesta la nostra condizione di peccatori. Per l’uomo è già un primo bagno purificatore, è un primo incontro con Dio, ma in forma impersonale, sotto le sembianze del segno scritto. Chi riconosce la bontà di una lettera riconosce anche la bontà di chi l’ha scritta ed è stimolato ad una conoscenza più viva ed immediata del Signore. Tutto questo evidentemente non è possibile se non quando il Signore si fa carne e si fa conoscere di persona, parlando al cuore di ognuno, non più in forma mediata come nella Legge, ma in forma immediata. In virtù del dono del suo Spirito la  Parola si fa a noi presente non semplicemente come segno o suono, ma come voce. “Le mie pecore conoscono la mia voce”. Gesù ci riporta all’ascolto della voce di Dio, in maniera immediata, e tutto questo perché il suo spirito è venuto ad abitare in mezzo a noi. La venuta del Salvatore sulla terra non vanifica la Legge e le sue prescrizioni né quel rapporto che si era già dà tempo instaurato con Israele, suggellato dalla circoncisione. Semmai tutto questo trova il suo adempimento e la sua pienezza.

L’incarnazione del Verbo cade in un tempo determinato, ma la grazia che ne viene giunge ad ogni tempo: ha un significato storico, ma anche metastorico: investe il dopo, ma anche il prima. In virtù del sacrificio di Cristo, ad ogni creatura è data la possibilità di un rapporto immediato con Dio: non a tutti tramite la viva voce del Messia, ma a tutti tramite la voce di una coscienza, malvagia in sé e per sé, ma buona nel suo essere rivisitata dal Salvatore, nella misura in cui si lascia da lui giudicare e ricreare. Ma allora se, in virtù di Cristo, a tutti gli uomini di ogni tempo è offerto questo dono e questa possibilità, perché il Signore ha dato ad Israele la Legge, così come è codificata attraverso la lettera? Non è un passo indietro rispetto a quel rapporto immediato con Dio che segue la vie di un ascolto della voce della coscienza? Per comprendere dobbiamo ripercorrere a ritroso la storia della salvezza. Dopo il peccato di Adamo il cuore dell’uomo si indurisce sempre di più nella sua capacità e volontà di ascolto della voce di Dio. E questo giustifica storicamente un intervento del Signore che vuol parlare all’uomo non più soltanto e semplicemente in forma immediata, tramite la voce della coscienza, ma anche in forma mediata, tramite una parola rivelata, incisa su pietra. E non più e non soltanto a livello del singolo,ma di un intero popolo. Ma bisogna prima gettare le basi e creare i presupposti, definire tempi e momenti e scegliere i destinatari. E’ così che la fede di Abramo esce dalla notte dei tempi e viene posta da Dio come un modello: per la sua gente prima, per tutte le genti dopo. Non solo: Dio individua nei  discendenti di Abramo il popolo eletto destinato a beneficiare del suo intervento. Tutto questo dovrà essere codificato attraverso la parola scritta, perché rimanga nella memoria dei posteri e sia monito ed esempio per tutti gli uomini. Come l’opera di Dio in Abramo è stato un segno per il popolo da lui nato, così il popolo eletto sarà un segno per tutte le genti. Il Signore vuole dare una apparenza più grande a quella predilezione divina che finora si era manifestata come piccola, perché tutti gli uomini sappiano e conoscano il nome del Signore. Se l’elezione di un singolo può passare inosservata ed essere conosciuta soltanto dai suoi vicini, l’elezione di un popolo si pone davanti agli occhi dell’intera umanità. E’ un richiamo ed una scossa salutare per tutti. Non a caso poi l’elezione ricade su di un popolo nomade per sua natura e destinato alla dispersione tra le genti per volontà divina. Perché tutti gli uomini sappiano e conoscano ciò che Dio ha operato in Israele. Con Abramo la parola scritta assume connotati storici ben definiti. Esce da una tradizione orale per lo più di tipo allegorico, in cui fatti, eventi, personaggi, sono semplicemente in funzione di un insegnamento. Abramo è personaggio storico in tutto e per tutto e di lui si parla e si scrive così come storicamente è stato rivelato e conosciuto dal suo popolo. Ma perché un simile opera? Non poteva il Signore rinforzare il suo intervento a livello della coscienza semplicemente alzando, per così dire, il tono della sua voce, così come si fa con i sordi e con coloro che sono di dura cervice?

Una simile operazione percorre unicamente le vie dello spirito, perché non vi è capacità e volontà di ascolto se non per lo spirito. Ma lo spirito dell’uomo è posto come libero davanti a Dio, non è passibile di forzature da parte del Signore, se non in misura limitata ed in modo indiretto attraverso quelle dimensioni dell’uomo che libere non sono. Dio non può esercitare alcuna pressione sulla volontà dell’uomo se non attraverso le vie dell’anima. L’anima in quanto creato dal nulla è agita dalla volontà di Dio, non gode di libertà assoluta, e può essere fatta oggetto passivo dell’intervento divino. In quest’ottica va inquadrato  e compreso il dono della Legge. La Legge scritta è rivolta alle facoltà razionali dell’uomo, è guida e luce dell’intelletto, perché conosca  il proprio peccato e riconosca il proprio stato e faccia presente allo spirito come stanno realmente le cose. Porta con sé una prima circoncisione del cuore ( dello spirito dell’uomo ) , quella che Paolo chiama della lettera, ma deve concludere nell’ascolto della voce di Dio, così come si manifesta col Cristo. E’ questa la circoncisione che Paolo chiama del cuore, quella purificazione dello spirito che si ottiene soltanto in virtù dell’ascolto, così come è dato dalla fede in Cristo. E’ chiaro dunque che la Parola rivelata dell’Antico Testamento rappresenta nella sua chiarezza un più rispetto alla coscienza che è sorda alla voce di Dio, ma è un meno rispetto alla coscienza che ode la voce del Signore. Non si tratta di due realtà contrapposte, ma diverse e complementari. La Legge rinforza la capacità di ascolto della voce, l’ascolto della voce getta nuova luce sulla Legge, l’arricchisce di significati sempre diversi e sempre più profondi. L’ascolto della voce è una garanzia per il singolo, l’ascolto della Legge è una garanzia per l’intera comunità. Chi ha ricevuto La Legge non è rinforzato nella sua capacità di ascolto semplicemente dalla propria coscienza, ma da tutte le coscienze che seguono la medesima Legge. La Legge scritta scavalca la durezza delle coscienze individuali e pone ognuno di fronte ad una volontà di Dio obiettivamente determinata e manifestata, che smaschera ogni coscienza ad essa difforme. Certo il Signore si trova in maniera piena soltanto nell’interiorità del proprio io, ma quando questa interiorità è macchiata e sorda alla voce di Dio, Dio si manifesta e parla al singolo, ponendosi al di fuori di lui, parlandogli non a livello individuale, come un padre fa con i suoi figli, ma rivolgendo la sua parola a tutta la sua famiglia. Il messaggio corre di bocca in bocca, di cuore in cuore, trova una sua centralità all’interno della comunità che vive ed opera in esso, approfondendo il suo significato e facendone parte a tutti i propri membri. Nessuno può rifugiarsi nei meandri del proprio cuore e giocare sull’ambiguità del proprio ascolto. Ciò che Dio vuole per tutti ed ognuno è ora ben chiaro e ben definito, i suoi precetti sono scritti dal dito stesso del Signore e gelosamente custoditi dal suo popolo su tavole di pietra. Certamente è un passo indietro rispetto alla Parola che si fa sentire come voce della coscienza, ma è un passo avanti per la coscienza che è sorda a questa voce. Se la coscienza non va a Dio per la via diritta, Dio viene alla coscienza in altro modo. Parlando non in maniera immediata, ma mediata da una Legge scritta. Abbiamo detto che è questa la circoncisione del cuore secondo la lettera. Certamente un dono ed una grazia di Dio, un segno di predilezione divina, ma sbaglia Israele allorché pensa che la storia della salvezza sia con questo conclusa a beneficio del solo popolo eletto, con esclusione di tutte le genti. Bisogna arrivare alla fede in Cristo. E’ un errore identificare un cammino dato in esclusiva ad Israele con la salvezza che è data a tutti gli uomini.

La Legge è utile se viene osservata, ma allorché viene trasgredita non è motivo di vanto, ma di vergogna. Neppure basta un adempimento puramente formale se non si arriva al rinnovamento interiore dello spirito, come è dato dalla fede in Cristo. Non si può considerare la Legge indipendentemente dal fine e dallo scopo per cui è stata data. Smascherata la falsa presunzione di chi è semplice portatore e beneficiario di un dono, Paolo va oltre. Se anche fra i pagani incirconcisi troviamo degli uomini che osservano i dettami della Legge, ciò vuol dire che tale dono non è poi così esclusivo di Israele. Ciò che è esclusivo di Israele è una certa forma della Legge, storicamente determinata e definita per volontà di Dio. Ogni uomo possiede in sé una legge, che viene dal Signore. Possiamo chiamarla legge naturale, per distinguerla da quella rivelata, ma è un dato ed un fatto che possiamo verificare ogni volta che un pagano incirconciso mette in pratica i  dettami della Legge mosaica. Chi adempie i comandamenti di Dio pur non essendo ebreo, dimostra con ciò che tali dettami sono parte integrante della sua natura razionale, non sono esclusiva di alcuno, ma sono dati a tutti. Non cambia la sostanza delle cose, ma soltanto la forma. Ma allora è del tutto inutile e privo di significato il dono della Legge? Dopo aver dato al suo popolo l’amaro, Paolo dà il dolce. L’elezione di Israele non va travisata e sopravalutata, ma neppure si deve minimizzare la sua importanza. Che cosa c’è dunque di più per il Giudeo?

 

 

Lettera ai Romani cap4

                               Cap. 4    

 

“Cosa dunque diremo aver trovato Abramo, il nostro progenitore secondo la carne? 2 Se infatti Abramo da opere è stato giustificato, ha vanto, ma non presso Dio. 3 Cosa infatti dice la Scrittura? Credette ora Abramo a Dio e gli fu computato a giustizia. 4 Al lavorante poi il salario non è computato per dono, ma per debito. 5 Ma al non lavorante, ma credente in colui che giustifica l’empio, è computata la sua fede a giustizia; 6 come anche Davide proclama (dice) la beatitudine dell’uomo a cui Dio computa giustizia senza opere: 7 Beati coloro dei quali furono perdonate le iniquità e dei quali furono coperti i peccati. 8 Beato l’uomo del quale il Signore non computerà affatto il peccato. 9 Dunque questa beatitudine è per la circoncisione o anche per l’incirconcisione? Diciamo infatti: Fu computata ad Abramo la fede a giustizia. 10 Come dunque fu computata? Essendo nella circoncisione o nella incirconcisione? Non nella circoncisione ma nella incirconcisione!.

11 E  ricevette il segno della circoncisione come sigillo della giustizia della fede, quella nella incirconcisione, per essere lui padre di tutti i credenti attraverso l’incirconcisione, per essere computata anche a loro la giustizia. 12 e padre della circoncisione per quelli non solo dalla circoncisione, ma anche per i procedenti sulle orme della fede nell’incirconcisione del nostro padre Abramo.

13 Infatti non per mezzo della legge fu fatta la promessa ad Abramo o alla sua discendenza di essere lui l’erede del mondo, ma per mezzo della giustizia della fede. 14 Se infatti gli eredi sono dalla legge, è stata svuotata la fede e resa inoperante la promessa.

15 Infatti la legge produce l’ira; dove invece non c’è legge neppure c’è trasgressione. 16 Perciò questa cosa è dalla fede, affinché per grazia sia valida la promessa per tutta la discendenza, non a quella soltanto dalla legge, ma anche a quella che è dalla fede di Abramo, che è padre di tutti noi, 17 come è scritto:  Padre di molte genti ti ho posto, di fronte al  Dio al quale  credette, colui che fa vivere i morti e chiama le cose che non sono come quelle che sono.

18 Il quale contro speranza in speranza credette così da diventare lui padre di molte nazioni secondo quanto detto; Così sarà la tua discendenza 19 e, non essendo debole nella fede, considerò il suo corpo già morto, avendo circa cento anni, e lo stato di morte del grembo di Sara; 20 ma per la promessa di Dio non dubitò con l’incredulità, ma fu fortificato con la fede, avendo dato gloria a Dio 21 ed essendo convinto che ciò che ha promesso è anche capace di fare.

22 Per questo anche fu a lui computato a giustizia. 23 Ora non fu scritto soltanto per lui che fu computato a lui, 24 ma anche per noi, a cui sta per essere computato, ai credenti in colui che ha risuscitato Gesù, il nostro Signore, dai morti, 25 il quale fu consegnato a causa dei nostri peccati ed è resuscitato per la nostra giustificazione.

 

 

 

 

 

 

“Cosa dunque diremo aver trovato Abramo, il nostro progenitore secondo la carne? 2 Se infatti Abramo da opere è stato giustificato, ha vanto, ma non presso Dio. 3 Cosa infatti dice la Scrittura? Credette ora Abramo a Dio e gli fu computato a giustizia.

4 Al lavorante poi il salario non è computato per dono, ma per debito. 5 Ma al non lavorante, ma credente nel giustificante l’empio, è computata la sua fede a giustizia; 6 come anche Davide dice la beatitudine dell’uomo a cui Dio computa giustizia senza opere: 7 Beati coloro dei quali furono perdonate le iniquità e dei quali furono coperti i peccati. 8 Beato l’uomo del quale il Signore non computerà affatto il peccato.

Lungo tutto questo passo l’apostolo sembra voler dire che in qualche modo due siano le giustificazioni, delle quali una la chiama dalle opere, l’altra invece dalla fede.

E dice che quella che è dalle opere riceve certo gloria, ma in se stessa e non presso Dio; quella invece che è dalla fede dice che riceve gloria presso Dio, come è naturale presso colui che scruta i cuori degli uomini e conosce nel segreto chi è che crede e chi è che non crede.

E perciò è giusto che la giustificazione dalla fede riceva gloria presso Dio solo, il quale sa scoprire in ciò che è nascosto il sentimento della sua fede, mentre a chi si attende la giustificazione dalle opere può succedere che le sue opere siano approvate anche dagli uomini… Non credere però che se uno ha una tale fede da poter, giustificato da essa, ricevere gloria presso Dio, possa avere insieme con essa anche l’ingiustizia. Infatti la fede non può avere nulla in comune con l’incredulità né la giustizia una qualche comunione con l’iniquità, così come per la luce non può esserci associazione con le tenebre. Se infatti chi crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio e chi è nato da Dio non pecca, è chiaro che chi crede a Gesù Cristo non pecca: chè se pecca, è certo che non crede a lui. Pertanto vi è un indizio di vera fede quando non si commette peccato, come viceversa, quando si commette peccato, vi è un indizio di incredulità.

Perciò dunque anche in un altro passo della Scrittura viene detto di Abrahamo che fu giustificato dalle opere della fede: poiché è certo che chi crede veramente compie le opere della fede e della giustizia e di ogni bontà e diventa capace di entrambe le glorie, sia di quella che è presso Dio nel segreto sia anche di quella che è palese e non si trova solo presso Dio…Occorre dunque anche considerare in modo più profondo se è detto che la sua fede gli fu ascritta a giustizia per il solo fatto che egli credette che gli sarebbe stato dato un figlio e che da lui si sarebbe propagata una discendenza simile alla moltitudine delle stelle, oppure per questo ed anche per tutto ciò che già prima aveva creduto.

E infatti è impensabile che prescindendo dalla fede sia avvenuto che egli uscisse dalla sua terra e dal parentado di suo padre e giungesse nella terra che Dio gli aveva mostrato; o anche l’altro evento: quando, separatosi Lot da lui, il Signore gli dice:

“Osserva con i tuoi occhi e vedi dal luogo in cui stai a guardare verso settentrione e mezzogiorno, e a occidente e ad oriente, poiché tutta questa terra che tu vedi io la darò a te e alla tua discendenza in eterno”. Ma chi mai dirà che sia avvenuto prescindendo dalla fede anche quell’altro fatto: che Abrahamo, nel suo cammino verso Hebron, abitò presso il querceto di Mamre e lì edificò un altare al Signore? Come poi poteva non essere opera di fede anche quell’altro episodio: quando Melchisedech benedisse Abrahamo dicendo: “Benedetto Abrahamo dal Dio eccelso che ha creato il cielo e la terra, e benedetto il Dio eccelso che ha consegnato i suoi nemici nelle sue mani?”.

Da tutto ciò si deduce che in ciascuno di questi casi Abrahamo ebbe sì fede, però in modo parziale; invece nel passo dove è detto che la fede gli fu ascritta a giustizia tale fede è dichiarata perfetta…Dunque anche nel passo in questione, essendosi già verificati molti atti di fede da parte di Abrahamo in tutti quei singoli episodi che abbiamo prima parzialmente ricordato, sembra in questo passo che tutta la sua fede sia stata ora raccolta insieme e così ascritta a giustizia.

Ora appunto osserverai che, come della fede è detto che gli fu ascritta a giustizia, così anche delle altre virtù si può dire, per esempio, che a ciascuno si può ascrivere a giustizia la misericordia o la sapienza o la scienza o la mansuetudine e l’umiltà, o comunque che ad ogni credente si ascrive a giustizia la fede. Ma quando ritorno alle Scritture, trovo che non a tutti i credenti la fede viene ascritta a giustizia. Così, per esempio, viene detto dei figli di Israele che “credettero al Signore e al suo servo Mosè”, e tuttavia non si aggiunge quanto si trova scritto di Abrahamo, cioè che ad essi la fede fu ascritta a giustizia. Per questo ritengo che non avevano, come abbiamo insegnato nel caso di Abrahamo, una perfezione di fede raccolta in unità a partire dai molti atti di fede parziali e tale da meritare di essere ascritta a giustizia.

L’espressione poi: “Ora a chi compie un lavoro, la mercede non è imputata come grazia, ma come cosa dovuta, invece a chi crede in colui che giustifica l’empio la fede è ascritta a giustizia”, sembra quasi lasciare intendere che nella fede c’è la grazia di chi giustifica, mentre nelle opere la giustizia di chi retribuisce.

Ma io quando considero l’elevatezza del discorso per cui Paolo dice che a chi compie un lavoro si ricambia secondo il dovuto, a stento mi persuado che vi possa essere una qualche opera che richieda come dovuta una ricompensa da parte di Dio, dal momento che anche il fatto stesso che possiamo compiere qualcosa o pensare o parlare ci è possibile farlo per suo dono e benevolenza.

Quale sarà dunque il debito di colui dal quale abbiamo precedentemente ricevuto un prestito? E perciò occorre piuttosto vedere se per caso l’espressione: “Ora a colui che compie un lavoro, la mercede sarà ascritta come cosa dovuta”non debba essere interpretata nel senso di cosa dovuta per un’azione alquanto malvagia. Troverai infatti che spesso nei libri divini i peccati sono chiamati debiti, come il Signore stesso ci insegnò a dire nella preghiera: “ Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” e di nuovo quando il Signore stesso dice: “Un padrone aveva due debitori: uno gli doveva  cinquecento denari e l’altro cinquanta” ed egli stesso interpretò che il discorso andava riferito ai peccati. Allora vedi se per caso anche nel nostro passo l’apostolo abbia interpretato nel senso che abbiamo prima detto la mercede dell’opera che viene ricambiata come cosa dovuta, parlando di coloro che operano così come Caino operò lavorando la terra e come in un altro passo si dice: “Allontanatevi da me, operatori di iniquità”: e a questi certo viene pagata la pena dovuta, per così dire, come mercede dell’iniquità.

E’ per questo che il medesimo apostolo in un altro passo dice: “Lo stipendio del peccato è la morte” e non ha aggiunto, esprimendosi nello stesso modo, “ lo stipendio della giustizia è invece la vita eterna”, ma dice: “Grazia di Dio è invece la vita eterna”, per indicare che lo stipendio, che senz’altro è simile al debito e alla mercede, è una retribuzione consistente nella pena e nella morte, e per riservare invece la vita eterna alla sola grazia.

In questo senso ritengo debba intendersi come riferito alle opere cattive anche quanto è scritto nel vangelo: “Con quella misura con cui avrete misurato, con la stessa sarà rimisurato a voi”. Non è stato Dio a stabilire la misura della sua grazia, poiché sta scritto: “Dio infatti non dà il suo Spirito a misura”. ( Origene )

 

 

Paolo ha già spiegato che la Legge non si può comprendere se non alla luce di quella Parola che è data prima e dopo di essa. Del dopo l’apostolo ha già parlato a lungo; ora vuol considerare il prima.

Se il dopo illumina una legge che è solo per Cristo ed in vista di Cristo, cerchiamo ora di riprendere il discorso della salvezza dalle sue origini.

Se l’epilogo non è chiaro ed accetto a tutti, chi oserebbe mettere in discussione le origini di Israele e quella  paternità che discende innanzitutto da Abramo?

Paolo vuol rendersi comprensibile a tutti, anche a quelli che fanno fatica ad abbandonare la centralità della Legge nell’economia della salvezza. Non comprendi come La Legge si deve interpretare alla luce del Cristo e non viceversa?

Ebbene ti dimostrerò che anche quanto viene prima, dall’inizio, non va inteso alla luce della Legge, viceversa getta una luce diversa sulla medesima legge. Se pensi che Abramo fu giustificato dalle opere, certamente riceve gloria, ma non presso Dio.

Vi è una gloria che l’uomo rende all’uomo, del tutto arbitraria, non conosciuta dal Signore ed estranea alla sua parola. Cosa dice infatti la Scrittura? “Abrahamo credette a Dio e gli fu ascritto a giustizia”. Abramo fu bensì giustificato, ma non per le opere della legge. Abramo non possedeva ancora la Legge mosaica, e già questo potrebbe giustificare una salvezza che procede per vie diverse.

La sua fede è in anticipo rispetto alla Legge e non è in funzione di questa: scavalca la Legge mosaica e si posa in Cristo, in Colui che è adempimento di ogni legge e della stessa Legge. Come non puoi comprendere il Cristo nell’ottica della sola Legge, neppure puoi comprendere Abramo nell’ottica della stessa Legge.

Viceversa Cristo ed Abramo gettano sulla Legge una medesima luce e scoprono ed evidenziano una centralità diversa nell’economia della salvezza: quella della fede in Cristo Salvatore.

4 Al lavorante poi il salario non è computato per dono, ma per debito.

La salvezza non è qualcosa di dovuto all’uomo, in virtù delle sue opere, ma semplicemente un dono, una grazia. E la grazia non è affatto un qualcosa in più, rispetto alla vita, un privilegio che può esserci e non esserci. E’ l’unica porta aperta verso la salvezza.

Non è graziato se non chi ha già subito una condanna, e non è possibile alcun riscatto in virtù dei propri meriti, ma solo per la misericordia divina. Vuoi comprendere o uomo stolto ed insensato che seppure osservi la legge, non per questo diventi migliore?

Non puoi cambiare natura se non rinato in Cristo, da Lui rifatto e riplasmato.

5 Ma al non lavorante, ma credente nel giustificante l’empio, è computata la sua fede a giustizia; 6 come anche Davide dice la beatitudine dell’uomo a cui Dio computa giustizia senza opere: 7

Beati coloro dei quali furono perdonate le iniquità e dei quali furono coperti i peccati. 8 Beato l’uomo del quale il Signore non computerà affatto il peccato.

Se la Legge mette al centro l’uomo nel suo dover essere davanti a Dio, la fede mette al centro Dio nel suo voler essere rispetto all’uomo. La giustizia dell’uomo deve cedere il posto alla giustizia divina, l’operare dell’uomo è soppiantato da quello di Dio.

L’uomo che vuol diventare giusto è scavalcato e soppiantato dall’uomo che è fatto giusto dalla volontà divina.

La salvezza non viene dalle nostre opere, ma dalla nostra fede nell’opera di Cristo Gesù. Ciò che è opera del Cristo è merito e giustizia presso il Padre, è dono e grazia per l’uomo che ne è beneficato.

Non ti basta la testimonianza di Abramo? Vuoi anche quella dei profeti?

6 come anche Davide dice la beatitudine dell’uomo a cui Dio computa giustizia senza opere: 7 Beati coloro dei quali furono perdonate le iniquità e dei quali furono coperti i peccati. 8 Beato l’uomo del quale il Signore non computerà affatto il peccato.

Non c’è beatitudine se non nel perdono e per il perdono che ci è dato in Cristo Gesù. E’ tempo di gioia, perché tempo di grazia.

E quale condannato a morte non sarebbe felice allorché gli è spalancata la porta del carcere e gli è posta davanti la strada per una novità di vita?

La fede vede innanzitutto ciò che è nuovo, non si arrocca su posizioni di battaglia ormai superate.

Non ne abbiamo abbastanza della nostra disfatta? Vogliamo ancora combattere una guerra perduta? Meglio aprire la porta del  cuore a Colui che è più forte del  nemico.

E perché pagare a caro prezzo ciò che è dato gratuitamente? Accogli il Salvatore e gettati fra le sue braccia? Nulla puoi dargli in contraccambio che sia più gradito della fede e dell’inno di lode per la sua misericordia.

 9 Dunque questa beatitudine è per la circoncisione o anche per l’incirconcisione? Diciamo infatti: Fu computata ad Abramo la fede a giustizia. 10 Come dunque fu computata? Essendo nella circoncisione o nella non circoncisione? Non nella circoncisione ma nella in circoncisione!. 11 E ricevette il segno della                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        circoncisione sigillo della giustizia della fede, quella nella incirconcisione, per essere lui padre di tutti i credenti attraverso l’incirconcisione, per essere computata anche a loro la giustizia, 12 e padre della circoncisione per quelli non solo dalla circoncisione, ma anche per i procedenti sulle orme della fede nell’incirconcisione del nostro padre Abramo.

Dopo aver spiegato quale sia l’unica vera beatitudine, ovvero quella del perdono che ci è donato in Cristo, Paolo ritorna al problema della circoncisione. Perché tanta insistenza su ciò che è ancora legato alla legge?

Invero il precetto della circoncisione fu dato ad Israele ancor prima della Legge, a partire da Abramo. Giova quindi considerare il suo significato in sé e per sé.

La circoncisione, seppur sancita e fatta propria dalla Legge, non è in funzione della medesima, ma della fede in Cristo. E’ immagine e segno di una vita nuova, che seppur passa attraverso la via della Legge,  non si ferma ad essa, ma la scavalca per approdare alla fede in Cristo.

E’ un segno di appartenenza all’unico vero Dio, è sigillo impresso dal Padre nella nostra carne, figura ed immagine dell’unico vero sigillo che è quello impresso nel cuore dei credenti attraverso il battesimo in Cristo Gesù.

Vuoi una dimostrazione chiara ed inconfutabile che è soltanto figura, immagine della realtà?  Diciamo infatti: Fu computata ad Abramo la fede a giustizia. 10 Come dunque fu computata? Essendo nella circoncisione o nella non circoncisione? Non nella circoncisione ma nella incirconcisione!

Se dunque la fede fu ascritta ad Abramo a giustizia quando non era ancora circonciso, allora questo significa che la circoncisione non gli ha donato una vita nuova, semplicemente l’ha accompagnata, l’ha riconosciuta nel segno della carne.

Ma non vi è soltanto il segno nella carne, ancor prima e ancor più vi è il segno nello Spirito, quello che ci viene dato in Cristo, allorché siamo in Lui battezzati.

Come poteva Abramo essere battezzato in Colui che ancora non era venuto? Per questo ricevette la circoncisione come segno della vita nuova che aveva avuto dalla fede in Cristo venturo.

Come la sua fede è in anticipo rispetto alla venuta di Gesù, così la sua circoncisione è in anticipo rispetto al battesimo nello stesso Cristo Gesù. Non si può intendere la fede di Abramo se non in rapporto a Colui che doveva venire, non si può intendere la sua circoncisione se non in rapporto alla vita nuova che è in Cristo.

La circoncisione in Abramo ha un significato del tutto particolare, unico ed esclusivo: non crea la fede, semplicemente l’accompagna, non dona la salvezza, ma testimonia che è già avvenuta.

Per Israele la circoncisione è segno non della salvezza che è già avvenuta, ma della salvezza che verrà. E’ immagine , figura del battesimo, ma allorché viene il Cristo l’immagine cede il posto alla realtà. Israele porta in sé il segno della circoncisione diversamente da Abramo.

In Abramo la circoncisione testimonia la vita che è già venuta, in Israele annuncia la vita che verrà. La circoncisione è semplicemente messaggera di una nuova vita, ma allorché siamo nella nuova vita perde il suo originale significato e la sua primitiva valenza.

Se la circoncisione semplicemente annuncia la vita nuova, il battesimo la testimonia. Altro è annunciare ciò che deve venire altro è testimoniare ciò che è già venuto.

Soltanto in Abramo la circoncisione ha un duplice significato: da un lato testimonia ciò che in lui è già avvenuto tramite la fede, dall’altro annuncia la salvezza che verrà per tutto Israele.

Messaggero  in virtù della circoncisione di una salvezza che doveva ancora venire, testimone in virtù della fede di quella salvezza che aveva già ottenuto in Cristo Gesù. Abramo quindi fu circonciso, non per se stesso, ma semplicemente in vista della salvezza di tutto il suo popolo. La circoncisione che in lui non era necessaria, divenne necessaria per Israele ed in funzione di Israele.

11 E il segno ricevette della circoncisione sigillo della giustizia della fede, quella nella in circoncisione, per essere lui padre di tutti i credenti attraverso l’incirconcisione, per essere computata anche a loro la giustizia.

Abramo è padre di tutti i credenti, sia di quelli che vengono alla fede senza passare attraverso la circoncisione, sia di quelli che credono in Cristo dopo aver ricevuto la circoncisione.

12 e padre della circoncisione per quelli non solo dalla circoncisione, ma anche per i procedenti sulle orme della fede nell’incirconcisione del nostro padre Abramo.

Non basta evidentemente essere circoncisi: bisogna avere la fede. La fede dei circoncisi giustamente ha occhi anche per il passato.

E come potrebbe Dio biasimare? Ma non per un ritorno al passato, bensì per avere gli occhi di colui  che ha già visto nel passato. Per questo Abramo è padre di tutti gli eletti, perché per primo ha creduto in Cristo Salvatore. Qualsiasi altro riferimento ad Abramo è ingannevole e fuorviante.

13 Infatti non per mezzo della legge fu fatta la promessa ad Abramo o alla sua discendenza di essere lui l’erede del mondo, ma per mezzo della giustizia della fede.

La Legge, di cui la circoncisione è parte, annuncia il Cristo; non contiene in sé alcuna promessa di salvezza: semplicemente  prepara alla salvezza. Per questo grande è la sua utilità: ma diventa inutile quando prende il posto del Salvatore.

. 14 Se infatti gli eredi sono dalla legge, è stata svuotata la fede e resa inoperante la promessa.

Se la salvezza è data a coloro che si basano sulla Legge, allora la Legge è fine a se stessa. Vanifica la fede in Cristo, perché non ha bisogno di un Salvatore.

Come è resa inutile la fede, così è svuotata di valore la promessa. Come si può promettere quella salvezza che già è venuta, ed è già stata acquisita in virtù dei nostri meriti?

15 Infatti la legge produce l’ira; dove invece non c’è legge neppure c’è trasgressione.

La Legge annuncia la salvezza, ma non la porta in sé, provoca semplicemente l’ira divina, perché manifesta il peccato dell’uomo. Pensi di essere migliore solo perché ti è stata data la Legge? In virtù della Legge c’è solo una trasgressione più consapevole e più responsabile.

Se tutto si decidesse per la Legge ed in virtù della Legge, potremmo arrivare alla conclusione assurda e paradossale che sono da ritenersi migliori gli uomini che non hanno alcuna legge.

Perché la dove non c’è legge, non vi è neppure trasgressione, né possibilità alcuna da parte di Dio di giudizio e di condanna.  Paolo ha già dimostrato che tutti hanno una legge: è una semplice provocazione, ma logicamente fondata!

Mette quelli che si credono i primi all’ultimo posto e gli ultimi al primo posto.

16 Perciò questa cosa è dalla fede, affinché per grazia sia valida la promessa per tutta la discendenza, non a quella soltanto dalla legge, ma anche a quella che è dalla fede di Abramo, che è padre di tutti noi, 17 come è scritto:  Padre di molte genti ti ho posto, di fronte al Dio al quale credette, colui che fa vivere i morti e chiama le cose che non sono come quelle che sono.

18 Il quale contro speranza in speranza credette così da diventare lui padre di molte nazioni secondo quanto detto; Così sarà la tua discendenza 19 e, non essendo debole nella fede, considerò il suo corpo già morto, avendo circa cento anni, e lo stato di morte del grembo di Sara; 20 ma per la promessa di Dio non dubitò con l’incredulità, ma fu fortificato con la fede, avendo dato gloria a Dio 21 ed essendo convinto che ciò che ha promesso è anche capace di fare.

22 Per questo anche fu a lui computato a giustizia. 23 Ora non fu scritto soltanto per lui che fu computato a lui, 24 ma anche per noi, a cui sta per essere computato, ai credenti in colui che ha risuscitato Gesù, il nostro Signore, dai morti, 25 il quale fu consegnato a causa dei nostri peccati ed è resuscitato per la nostra giustificazione.

La promessa fu fatta per la fede ed è stabile, duratura, valida nel tempo non per le opere  dell’uomo, ma soltanto per la grazia divina. Dio promette non per i nostri meriti, ma per quelli del Figlio.

Una promessa che dipenda e sia in qualche modo condizionata dall’agire umano, non ha in sé alcuna garanzia di certezza, perché l’uomo non può farsi garante del proprio operare.

E’ Cristo che garantisce per l’uomo l’osservanza della Legge e non c’è salvezza se non attraverso la fede in Lui. La promessa che dipende dalla fede non è fatta solo ad Israele, in virtù della Legge, ma a tutte le genti. E’ riduttivo e fuorviante considerare Abramo  padre del solo Israele: è padre di tutti coloro che credono in quel Dio che fa vivere i morti, donando loro vita nuova.

E chiama le cose che non sono come quelle che sono. Tutto quel che proviene da Dio è frutto del suo amore. Anche ciò che appare insignificante ai nostri occhi: quanto più gli ultimi sono chiamati ad essere come i primi, e i non figli sono ritrovati come figli!

18 Il quale contro speranza in speranza credette così da diventare lui padre di molte nazioni secondo quanto detto; Così sarà la tua discendenza 19 e, non essendo debole nella fede, considerò il suo corpo già morto, avendo circa cento anni, e lo stato di morte del grembo di Sara; 20 ma per la promessa di Dio non dubitò con l’incredulità, ma fu fortificato con la fede, avendo dato gloria a Dio 21 ed essendo convinto che ciò che ha promesso è anche capace di fare. 22 Per questo anche fu a lui computato a giustizia.

Ogni speranza ha un suo fondamento. Noi reputiamo infondata una speranza che va contro ogni logica evidenza. Si spera quando ci sono le premesse e i presupposti per sperare.

E’ considerato un temerario ed un folle l’uomo che spera in ciò che appare altamente improbabile o addirittura impossibile.

Come definire allora chi crede contro la speranza, se non uno sciocco ed un uomo senza intelletto? Persone di tal fatta certo non mancano e non è dovuta a loro alcuna stima. Eppure sono in grado di stupire e di attrarre a sé l’attenzione altrui. E’ giustificato l’interesse per una qualsiasi credenza solo per la sua eccezione e diversità? Che cosa distingue la fede di Abramo da quel fideismo così diffuso fra gli uomini, che si riveste di attributi santi e in certi casi addirittura cristiani?

La fede è come una medaglia a due facce: da un lato vi è chi crede, dall’altro ciò o Colui che è creduto. La fede è vera soltanto quando vi è una perfetta sintonia tra colui che crede e Colui che è creduto.

Chi crede fa proprio Colui che è creduto a Lui affidandosi e a Lui ubbidendo. Ma esiste anche la possibilità di una fede ingannevole… quando colui che crede non si lascia plasmare da colui che è creduto, ma al contrario crea da sé l’oggetto della propria fede, a propria immagine e somiglianza. Si tratta di una fede falsa, che vede Dio in funzione di se stessa e non se stessa in funzione di Dio.

Ed è soltanto la capacità di ascolto e di ubbidienza la linea di demarcazione tra la verità e la menzogna.

Abramo credette, non per un atto temerario o per una limitazione dell’intelletto, ma soltanto in virtù di quella capacità di ascolto della voce della coscienza, che non è data una volta per tutte, ma che è il frutto ed il risultato di una vita ubbidiente al proprio Creatore.

Perché Dio soltanto ad Abramo fece la promessa del Salvatore in modo così aperto, e palese seguendo le vie della parola e non semplicemente quelle della voce?

Perché nessuno mai credette nel suo Signore in modo così aperto e conclamato, contro tutto e contro tutti, così da meritare il titolo di padre di ogni credente.

Vi è una paternità carnale creata e voluta dall’uomo, vi è una paternità spirituale voluta e creata da Dio. Così Abramo divenne padre di una moltitudine di genti senza nulla operare, ma in tutto obbedendo. Riflettano i miseri e coloro che non possono operare per il prossimo.

Non sono esclusi da una paternità, ma ad essi soprattutto ed alla loro obbedienza è affidata l’intera umanità.

Una preghiera obbediente val più di mille opere disubbidienti. Il silenzio di chi crede è più potente di mille parole. Non si costruisce un mondo migliore per esso operando, ma ubbidendo al Figlio.

19 e, non essendo debole nella fede, considerò il suo corpo già morto, avendo circa cento anni, e lo stato di morte del grembo di Sara;

Non basta credere, bisogna perseverare nella fede. C’è anche chi comincia a credere, ma poi viene meno.

Certo chi è infermo non è ancora morto, ma si avvia verso la morte. Una fede inferma, cioè non ferma, non salda non può ottenere la salvezza, se non viene fatta salda dal Cristo.

Possiamo certamente dire che anche per Abramo la fede fu un dono di Dio, in quanto alla perseveranza vi è in Abramo qualcosa di singolare, non semplicemente donato, ma anche a lui dovuto e riconosciuto da Dio stesso. Non divenne infermo nella fede. Chi come lui?

Né considerò il suo corpo ormai morto, poiché aveva cento anni. Ciò che è impossibile all’uomo è possibile a Dio.

Se avesse guardato a se stesso non c’era ragione per sperare, ma proprio in quanto interamente rivolto a Dio, a Lui donato e a Lui obbediente Abramo credette. E non solo per se stesso.

Credette anche per Sara, vero padre , ma anche vero sposo. Non c’è salvezza che non operi nella chiesa e che non ci riporti alla necessità di una comunione con la chiesa.

Abramo benchè morto in una famiglia di morti, ebbe fede in Dio, e non solo per sé. Colui che tutto può operare in me, tutto può operare anche negli altri.

E anche questo è segno distintivo della fede, quando non si crede semplicemente in ciò che è possibile in noi, ma anche in ciò che è possibile in tutti.  

Una fede personale, può nascondere una fiducia dell’uomo nell’uomo, ma allorché crede che Dio può operare anche nell’altro, manifesta il proprio fondamento e il suo essere in Lui e per Lui. Se è difficile credere che possa generare un uomo vecchio, è ancora più difficile credere che  possa generare una donna vecchia.

Ma quando  gli occhi  sono rivolti solo a Dio tutto è diverso: la vita è restituita al suo Signore, perché ne faccia quello che vuole. Quale il merito di Abramo?

Di aver scavalcato le categorie del pensiero, in una sorta di credo quia absurdum? Ma la vita è piena di uomini che credono in assurdità di ogni genere e che solo per questo si vantano di aver superato ogni regola ed ogni limite imposti dalla coscienza e dalla legge. La fede di Abramo non si può comprendere se non in una  volontà e in un desiderio di salvezza che diventa speranza e perseverante attesa di un Salvatore.

La vita non si risolve in una sorta di intuizione intellettuale, che coglie in pieno il proprio bersaglio, con un semplice colpo di testa. E’ innanzitutto presa di coscienza del proprio essere, ravvedimento riguardo ad esso, pentimento e ritorno alla fonte della vita.

E’ impegno totale di tutte le nostre facoltà e risorse. Non è la lotta di un giorno, né una battaglia vinta una volta per sempre, ma un perenne ricominciare da capo per essere ritrovati in Dio, come voluti da Dio. E’ fede provata e riprovata, fino alla richiesta di quello che abbiamo di più caro.

20 ma per la promessa di Dio non dubitò con l’incredulità, ma fu fortificato con la fede, avendo dato gloria a Dio 21 ed essendo convinto che ciò che ha promesso è anche capace di fare. 22 Per questo anche fu a lui computato a giustizia.

Non solo Abramo non dubitò della promessa di Dio, ma fu perseverante nella speranza, rafforzando la propria fede, tanto più quanto più appariva lontano ogni adempimento.

Chi ama veramente sa vivere di promesse, anche se alla fine rimane gabbato e deluso. Ma non sarà deluso chi confida nel Signore.  Chi persevera nella promessa di Colui che ama, ne uscirà ancor più riamato. Abramo non vide adempiuta la promessa, ma dando lode a Dio sperimentò ogni tenerezza ed ogni pienezza del suo amore , perché in esso fondato e rinsaldato attraverso la fede.

Colui che provvede oggi per il nostro bene, provvederà anche domani. Fra le braccia del Padre siamo già salvi; e siamo felici anche se il cammino non è ancora finito, e ci attendono mille insidie e mille pericoli: a tutto penserà e a tutto provvederà il Signore. Hai  trovato l’amato del tuo cuore?

Non lasciarlo andare, ma tienilo ben stretto a te : ti condurrà in una terra meravigliosa, dove scorrono latte e miele. Non c’è cammino troppo lungo e troppo faticoso quando si è in buona compagnia.

Mentre si parla d’amore… ecco il viaggio è già finito e si apre la stanza nuziale e ci accolgono gli angeli nell’eterno convito.

23 Ora non fu scritto soltanto per lui che fu computato a lui, 24 ma anche per noi, a cui sta per essere computato, ai credenti in colui che ha risuscitato Gesù, il nostro Signore, dai morti, 25 il quale fu consegnato a causa dei nostri peccati ed è resuscitato per la nostra giustificazione.

L’eccezione diventa la regola e un modello per tutti. Eccezionale fu la fede di Abramo perché proiettata in un  futuro che è speranza.

Ma ora la promessa è già adempiuta. Gesù Cristo è stato consegnato per i nostri peccati ed è risuscitato per la nostra giustificazione. Altro è credere in una promessa, altro è fare proprio l’adempimento di una promessa. Quella fede che in Abramo viveva soltanto in virtù dell’amore verso il Padre, ora si alimenta della giustificazione che ci ha ottenuto il Figlio. Tutto è ormai compiuto ed i segni della salvezza sono ben visibili… nella chiesa dei santi. Non c’è altro Salvatore all’infuori del Cristo, non c’è altro cammino se non nella fede della Sua resurrezione.

 

 

Lettera ai Romani cap3

                                  Cap. 3

 

Cos’è dunque la superiorità del Giudeo o qual è l’utilità della circoncisione? 2 Molto sotto ogni riguardo. Anzitutto infatti perché furono affidate ad essi le parole di Dio. 3 Cosa infatti? Se alcuni non credettero, la loro incredulità non renderà inoperante la fedeltà di Dio? 4 Non sia. Ma sia Dio veritiero, ogni uomo invece menzognero come è scritto: Così che tu sia ritenuto giusto nelle tue parole e sia vincitore quando sei giudicato.

5 Ma se la nostra ingiustizia evidenzia la giustizia di Dio, cosa diremo? Forse che è ingiusto Dio che riversa l’ira?

Parlo secondo l’uomo. 6 Non sia! Altrimenti come  giudicherà Dio il mondo? 7 Ma se la verità di Dio per la mia menzogna ha abbondato per la sua gloria, perché ancora anch’io come peccatore sono giudicato?

8 E non come veniamo oltraggiati e come dicono alcuni che noi diciamo: Facciamo cose cattive, affinché vengano cose buone. Di loro il giudizio è giusto .

9 Che dunque? Siamo superiori? No affatto! Abbiamo accusato prima infatti Giudei e greci di essere tutti sotto peccato, 10 come è scritto: Non c’è giusto, neppure uno, 11 non c’è chi comprende, non c’è chi cerca Dio. 12 Tutti hanno deviato, insieme si sono resi inutili: non c’è il facente cose buone, non c’è fino a uno. 13 Tomba aperta la loro gola, con le loro lingue ingannavano, veleno di aspidi sotto le loro labbra; 14 la loro bocca è piena di maledizione e di acredine, 15 rapidi i loro piedi a versare sangue, 16 rovina e miseria nelle loro vie, 17 e via di pace non conobbero.

18 Non c’è timore di Dio davanti ai loro occhi.

19  Ora sappiamo che quanto dice la legge, lo dice per coloro che sono nella legge, affinché ogni bocca sia chiusa e colpevole sia tutto il mondo davanti a Dio. 20 Perciò da opere di legge non sarà giustificata alcuna carne di fronte a lui, infatti per mezzo di  legge si ha la conoscenza di peccato.

21 Ma ora senza legge si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti: 22 giustizia di Dio per mezzo della fede di Gesù Cristo verso tutti i credenti. Non c’è infatti distinzione: 23 infatti tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, 24 giustificati gratuitamente per la sua grazia per mezzo della redenzione in Cristo Gesù; 25 che Dio pose innanzi come propiziatorio per mezzo della fede nel suo sangue a dimostrazione della sua giustizia mediante la tolleranza dei peccati avvenuti in precedenza 26 nella pazienza di Dio, a dimostrazione della sua giustizia nel tempo presente, per essere lui giusto e giustificante colui che è da fede in Gesù.

27 Dov’è dunque il  vanto? E’ stato escluso. Per mezzo di quale legge? Delle opere? No! Ma per mezzo della legge della fede. 28 Riteniamo infatti giustificato per la fede un uomo senza opere di legge.

29 O è Dio soltanto di Giudei? Non  anche di Gentili? Sì, anche di Gentili, 30 poiché uno solo è il Dio che giustificherà  la circoncisione dalla fede e la incirconcisione per mezzo della fede.

31 Dunque rendiamo inoperante la Legge per mezzo della fede? Non sia! Anzi,  confermiamo la Legge.

 

 

 

Cosa dunque la superiorità del Giudeo o quale l’utilità della circoncisione? 2 Molto sotto ogni riguardo. Anzitutto infatti perché furono affidate la parole di Dio

Scrive Lutero “Questo modo d’esprimersi o è caratteristico di chi asserisce con forza e quasi giura, oppure intende alludere ai modi in cui la circoncisione è stata utile, modo che elenca più sotto, nel capitolo 9, quando dice: “Essi possiedono l’adozione, la legislazione, la gloria, l’alleanza, il culto, le promesse, i padri”. ( Lutero )

Quali sono dunque i vantaggi e i privilegi di Israele? Innanzitutto perché a loro furono affidate le parole di Dio. L’interesse di Paolo è rivolto dapprima alla sola Parola. Abbiamo visto come tutti gli uomini abbiano un rapporto con il Creatore tramite la voce della coscienza. Per l’obbedienza a questa voce tutti siamo resi partecipi della grazia che ci ha guadagnato il Cristo. Nessuno è escluso dalla possibilità di entrare nella vita eterna. Se vi è qualche diversità di trattamento essa non va ricercata in relazione al fine della vita, ma soltanto in relazione al cammino che ogni uomo deve percorrere. Non è la stessa cosa conoscere la volontà di Dio per via naturale, seguendo cioè l’unico cammino che è rimasto aperto per l’uomo dopo il peccato d’origine e conoscerlo per via soprannaturale. La via naturale è quella segnata o meglio lasciata libera dal peccato d’origine: passa immediatamente attraverso l’ascolto della voce della coscienza. La via soprannaturale è una via non contrapposta ad essa, ma semplicemente  sovrapposta: la rinsalda, la rinforza, la giustifica e la rende più agevole e sicura. E’ un dono che anticipa e prepara la venuta del Figlio: perché tutti ascoltino la voce del Padre, come si fa sentire per bocca del Figlio. La prima via è data a tutti e  garantisce la giustizia di Dio: la seconda è data al solo Israele e garantisce  l’amore di Dio per coloro che lo cercano. L’una è data per natura e con la natura, la seconda è data soltanto per elezione. Ma quale è questa seconda via più chiara e luminosa se pur riservata a pochi? E’ quella che passa attraverso il dono della parola rivelata. Qual è la differenza con la prima? La prima è soltanto in un rapporto immediato, che esclude ogni possibilità di riflessione critica e chiede la semplice obbedienza. La seconda ammette la possibilità di un dialogo e di un confronto secondo le categorie dell’anima create ad immagine di Dio. L’obbedienza alla semplice voce di Dio è prerogativa di un cuore puro, non ancora offuscato dal peccato. Ma allorché il rapporto tra il Creatore e la creatura viene incrinato dalla disobbedienza d’Adamo le vie dell’ascolto si fanno più oscure e difficili per l’uomo. Certo Dio, continua a far sentire la sua voce, ma diminuisce la capacità e la volontà di ascolto da parte dell’uomo. Dove vi è una perfetta sintonia di volontà ed intenti, non c’è bisogno della parola, basta la sola voce a garantire dell’amore dell’altro. Ma quando il rapporto è rotto tutto si complica. Bisogna ricucire lo strappo e ciò non è possibile se non seguendo un’altra via: più lunga e complessa rispetto alla prima, a tratti addirittura divergente, perché il legame sia restaurato, in maniera più forte ed efficace. E’ questo il senso della rivelazione: la volontà di Dio di ricreare un rapporto d’amore più facile con l’uomo e più immediatamente comprensibile. E tutto questo seguendo le vie della Parola. Ma allorché Dio decide di parlare all’uomo non può farlo se non adottando quella forma della parola che l’uomo stesso ha creato. Scrivevano i Padri della chiesa che la forma stessa della parola rivelata è un grande mistero. E ciò si deve intendere in relazione al popolo di Israele. Questa e non altra lingua Dio ha scelto per rivelarsi, perché  Israele e non altro popolo ha scelto a cui rivelarsi. La complicazioni intervenute in un rapporto non si possono ricondurre alle forme semplici dell’amore se non seguendo le vie complesse della parola. E’ la parola che illumina, chiarisce, approfondisce il rapporto tra due… soprattutto quando le cose vanno male e si deve fare un cammino difficile, per tornare indietro e ricominciare da capo. Bisogna intendersi, dare spiegazioni e chiarificazioni. Chi è più in alto deve abbassarsi alla condizione dall’altro e fare da maestro, usando un linguaggio comprensibile a tutti. Certo Dio rimane al di sopra dell’uomo e non si può intendere la parola rivelata come una sorta di mediazione tra la mentalità del Signore e la nostra. Dio la fa da padrone, ma come un buon pedagogo si siede accanto a noi e ci istruisce in tutto quel che riguarda il nostro bene. Ma come può Dio istruire i suoi figli, se non c’è chi ascolta? In Abramo e con Abramo, la volontà di Parola di Dio si incontra con la volontà di ascolto dell’uomo. Riguardo al prima non si può dire che nessuno abbia ascoltato la voce di Dio, ma non c’è memoria storica, se non quella che è passata attraverso le maglie della tradizione orale, con le inevitabili dimenticanze ed alterazioni. Abramo credette in Dio, cioè ascoltò la sua voce, e ciò gli fu imputato a giustizia. E’ l’inizio di una nuova storia. Il Signore trova finalmente aperto uno spiraglio ed entra di prepotenza nel cuore dell’uomo per creare un rapporto nuovo, dove la voce della coscienza viene guidata ed illuminata dalla parola rivelata, in un modo all’inizio drammaticamente conflittuale. Tanto grande è il muro di silenzio che separa l’uomo da Dio che il suo abbattimento ha conseguenze traumatiche. Ad Abramo è chiesto di sacrificare il proprio figlio prediletto, quello che era stato a lui promesso e ciò lo pone in conflitto con la coscienza naturale. L’obbedienza di Abramo non si può comprendere se non come un superamento della voce della coscienza nella sua immediatezza naturale. La coscienza non è solo un dato, è anche un fatto, non semplicemente il rapporto con Dio, ma il risultato del nostro rapporto con Dio. C’è una buona coscienza e c’è una cattiva coscienza. Buona coscienza è quella che tale diviene nell’obbedienza al Signore, cattiva coscienza quella che è indurita da una disobbedienza reiterata e protratta nel tempo. E’ semplicistico e sbagliato identificare tout court la voce della coscienza con la voce di Dio. Non è sempre così. Nel cuore dell’empio non parla il Signore, ma il Maligno sotto le vesti di angelo di luce. Quale dunque il merito ed il vanto di Abramo? Quello di aver creato a se stesso una buona coscienza, in grado di ascoltare la volontà di Dio, anche quando si presenta come qualcosa di assolutamente irrazionale, contro qualsiasi sentire e pensare, così come è dato dal buon senso naturale, dalla tradizione e dalla cultura in cui viviamo. In Abramo non è semplicemente recuperata la voce della coscienza, ma quella che passa attraverso un’obbedienza assoluta ed incondizionata al Signore. E non deve stupire più di tanto che anche alla sua discendenza venga fatta la promessa di un Salvatore. Perché anche Isacco fu coinvolto nella fede di Abramo e ad essa e per essa fu sacrificato. Il Signore si è scelto in Abramo e nei suoi figli un popolo di sua particolare proprietà per dare una svolta nuova al rapporto con l’umanità. Quale dunque il vantaggio della parola rivelata rispetto alla parola che è voce della coscienza? Grande sotto ogni riguardo. La parola rinchiusa nella coscienza individuale non conosce altra luce se non la propria. L’individuo rimane chiuso nei propri conflitti interiori, non ha altra garanzia di verità all’infuori della propria verità. Si cerca Dio da soli e ci si trova soli con lui. Manca il sostegno dei fratelli e di una  famiglia. Nei momenti di dubbio e di oscurità non c’è alcuna luce che si ponga al di sopra delle nostre incertezze. Tutto è rimandato al solo Dio. Certo Dio nessuno esclude, ma smarrita la sua strada non c’è alcuna traccia per ritrovare la via del ritorno. Un rapporto immediato con Dio esclude la possibilità di capitalizzare i tesori e i doni che ci ha dato. Con la parola rivelata tutto cambia. La Parola diventa patrimonio di un intero popolo che la custodisce tramite la tradizione orale e la lettera scritta, perché tutti i suoi figli siano in essa nutriti ed accresciuti. Ogni dubbio ed ogni incertezza vengono dissipati alla luce dell’unica parola. La coscienza che si è smarrita ha un punto di riferimento chiaro e sicuro. Non c’è alcun dubbio ed alcuna incertezza, se non per chi  non si lascia istruire dalla Parola, così come è custodita dalla tradizione del popolo eletto. Per Israele vi è una grande luce ed ogni consolazione. Il fratello conforta il fratello e l’intera comunità sostiene i suoi figli. Ma tutto questo per creare una buona coscienza, perché si accresca in tutti ed in ognuno la capacità di ascolto della voce di Dio. Il dono della Legge va compreso, come dirà più avanti Paolo, in una prospettiva pedagogica, come strumento di educazione e di crescita dei cuori perché riconoscano ed accolgano nel Cristo la voce del Padre. Dunque non  invano fu data ad Israele la Legge: vero è che alcuni hanno reso vano il dono di Dio. Rinchiudendosi nei dettami della Legge e rifiutando colui che è adempimento della Legge hanno indurito il loro cuore, creando a se stessi una cattiva coscienza. Non basta essere dotati di uno strumento di salvezza: bisogna anche saperlo usare per lo scopo per cui è stato creato. Ma se alcuni si sono serviti male ed in modo sbagliato della Legge, questo nulla toglie alla bontà e all’importanza della medesima.

3 Cosa infatti? Se alcuni non credettero, la loro incredulità non renderà inoperante la fedeltà di Dio? 4 Non sia. Ma sia Dio veritiero, ogni uomo invece menzognero come è scritto: Così che tu sia ritenuto giusto nelle tue parole e sia vincitore nell’essere tu giudicato.

Se l’uomo è infedele, Dio rimane fedele, se l’uomo è menzognero Dio rimane veritiero. Scopo della Legge è quello di far risaltare una verità che è solo di Dio, ed una menzogna che è propria ed esclusiva dell’uomo. Certamente se Dio è veritiero non c’è bisogno che tale sia fatto: lo è in qualsiasi caso. Ma questo è detto per l’uomo che crede nella propria verità e non in quella di Dio. La Legge da un lato pone le fondamenta  di un uomo nuovo, dall’altro segna la fine dell’uomo vecchio. In quale modo? Gettando una luce sulla nostra vita, perché possiamo vivere un’altra vita. Non possiamo conoscere Dio, se prima non conosciamo noi stessi. La Legge innanzitutto ci convince di peccato e soltanto allorché convinti di peccato possiamo comprendere la giustizia divina.

“Con questa frase non si esprime tanto la veracità di Dio, quanto piuttosto la confessione della sua veracità. Il senso dunque è questo: è giusto che tutti confessino e che da parte di tutti si ammetta che Dio è verace. Dunque “sia”, cioè lo si ritenga e lo si stimi fedele nelle sue parole, anche se quelli non credono”. ( Lutero )

5 Ma se la nostra ingiustizia evidenzia la giustizia di Dio cosa diremo? Forse che è ingiusto Dio che riversa l’ira?

Parlo secondo l’uomo. 6 Non sia! Altrimenti come Dio giudicherà il mondo? 7 Ma se la verità di Dio per la mia menzogna ha abbondato per la sua gloria, perché ancora anch’io come peccatore sono giudicato?

Ancora una volta Paolo vuol prevenire una lettura superficiale e sbagliata di quanto è venuto affermando. Se è vero che la nostra ingiustizia esalta e fa risaltare la giustizia divina, allora perché mai Dio riversa su di noi la sua ira allorché pecchiamo? Non vi è in tutto questo una ingiustizia nei nostri confronti, dal momento che soltanto la nostra malvagità rende manifesta la Sua bontà? “Parlo secondo uomo” risponde Paolo, cioè secondo la logica di chi, nato dal peccato di Adamo,  invece di comprendere la ragione divina vuol imporre a Dio la propria. Certo se Dio per essere glorificato avesse bisogno del nostro peccato, qualunque giudizio da parte sua sarebbe ingiustificato. Ma il fatto è che è la gloria di Dio non ha assolutamente bisogno del nostro peccato. Le cose potevano andare diversamente: se Adamo non avesse rifiutato il Signore, la Gloria dell’Eterno avrebbe rifulso accanto alla gloria delle sue creature e non in contrapposizione alla loro miseria. E’ soltanto per una nostra e non Sua necessità che Dio fa rifulgere la sua giustizia nella nostra ingiustizia: per riportarci ad una gloria perduta, non per il timore di perdere la propria. La gloria di Dio passa necessariamente attraverso il peccato dell’uomo per volontà nostra. Il Signore non può far altro che prenderci in mano così come siamo, per salvare ciò che era perduto. Nessuna fatale necessità nella caduta umana; nessuna fatale necessità nella salvezza. Da parte di Dio è tolto ogni impedimento per la vita eterna, ma non da parte nostra. Rimane una volontà umana ostile alla salvezza e con ciò rimane il giudizio di Dio Salvatore. Nel giudizio eterno il Signore prende semplicemente atto di una scelta che l’uomo ha fatto per o contro di Lui. Nonostante il proprio amore, Dio deve dare non solo un giudizio di salvezza, ma anche un giudizio di condanna. Se il Signore vuole che tutti gli uomini siano salvi, ( e come potrebbe essere altrimenti? ) non tutti gli uomini vogliono essere salvati.

8 E non come veniamo oltraggiati e come dicono alcuni che noi diciamo: Facciamo cose cattive, affinché vengano cose buone. Il giudizio di loro è giusto.

Ci sono uomini che addirittura oltraggiano gli apostoli del vangelo addebitando loro ogni sorta di falsità. Noi non insegniamo affatto che bisogna necessariamente fare cose cattive perché ci vengano da Dio cose buone. Chi fa tali affermazioni è in malafede, calunnia la parola di Dio ed è giusto nei suoi confronti un giudizio di condanna.

9 Che dunque? Siamo superiori? No affatto! Abbiamo accusato prima infatti Giudei e Greci di essere tutti sotto peccato, 10 come è scritto: Non c’è giusto, neppure uno, 11 non c’è chi comprende, non c’è chi cerca Dio. 12 Tutti hanno deviato, insieme si sono resi inutili: non c’è il facente cose buone, non c’è fino a uno. 13 Tomba aperta la loro gola, con le loro lingue ingannavano, veleno di aspidi sotto le loro labbra; 14 la loro bocca è piena di maledizione e di acredine, 15 i loro piedi rapidi a versare sangue, 16 rovina e miseria nelle loro vie, 17 e via di pace non conobbero. 18 Non c’è timore di Dio davanti ai loro occhi.

Dopo aver affermato una superiorità dei Giudei in virtù del dono della legge e della circoncisione, Paolo corre ai ripari, per non essere frainteso. Che dunque? Siamo superiori? No affatto! Innegabile una superiorità dei Giudei rispetto agli altri popoli, ma soltanto in virtù del dono, non certamente per i loro meriti. Un dono più grande non attesta una migliore natura, semplicemente una vita rivestita in maniera diversa della naturale miseria. La grandezza ed il primato di Israele vanno intesi in relazione ad una superiore chiamata, che si giustifica soltanto in virtù di un dono più grande. Ma in quanto a ciò che appartiene ed è proprio dell’uomo…Abbiamo accusato prima Giudei e Greci di essere tutti sotto peccato, come è scritto.

Una precisazione è dovuta dall’Apostolo, per non sembrare smentire non solo quanto da lui detto, ma ancor più e ancor prima quanto è scritto: Non c’è giusto, neppure uno, non c’è chi comprende, non c’è chi cerca Dio.

Se ne facciamo una questione di giustizia dell’uomo, nessun dubbio e nessuna incertezza: Non c’è un solo giusto all’infuori dell’unico giusto. Potremmo anche spostare il problema ed affermare che seppure non vi è alcun giusto, vi è pure qualcuno che comprende il proprio stato in virtù di luce propria, a lui dovuta, perché da lui meritata. Niente di più falso. Non c’è nell’uomo intelligenza di se stesso e tanto meno di Dio. Paolo va ancor oltre: Se non vi è nessun giusto e nessuno che comprenda ci può essere almeno qualcuno che cerca Dio. Ancor peggio!

L’uomo non cerca Dio, al contrario cerca di mettere se stesso al posto di Dio. Si può invece affermare che se nessun uomo cerca Dio, non c’è uomo che non sia cercato da Dio. Ci può essere qualche eccezione, come Abramo: Ma l’eccezione conferma la regola: se qualcuno ha cercato Dio, ha compreso il proprio peccato, è stato giustificato da Lui, ciò è avvenuto soltanto in virtù di quella diversità che ha nome di fede. Prima di comprendere la fede di Abramo ognuno comprenda e riconosca il proprio peccato.

Tutti hanno deviato,

Non si può dire di una persona che ha deviato senza intendere che prima era incamminato in una giusta via. Ma dove e quando? Se tutto ciò è attribuito all’esistenza è fatta salvo il libero arbitrio dell’uomo rispetto al fare. Ancor di più, chi è libero di fare il bene o il male è dotato della capacità di autodeterminazione ed in questo senso se pur segue il male, manifesta una natura creata di per sé buona.

In quest’ottica Pelagio affermava una sostanziale bontà dell’uomo, da lui stesso rovinata tramite un cattivo uso del libero arbitrio. In altre parole, l’uomo pur essendo creato buono, diventa cattivo per sua libera scelta. Perché poi tutti abbiamo peccato in questa vita, al punto da diventare malvagi, questo è un mistero difficilmente spiegabile e che Pelagio chiaramente neppure intende affrontare. Potremmo semplicemente dire che è un dato di fatto e basta. Resta l’assurdità di un peccato che è scelto e voluto a livello individuale, che tutti coinvolge e nessuno esclude. In questo caso il rapporto tra il peccato dell’uno ed il peccato di tutti gli altri è puramente casuale, o meglio non esiste affatto. Tutti abbiamo peccato, perché ognuno di noi ha peccato, indipendentemente gli uni dagli altri, e ognuno con la propria volontà. In questo modo si aggiunge mistero a mistero, errore ad errore. Paolo smonta subito un’idea così balzana. Insieme si sono resi inutili.

Non abbiamo peccato tutti individualmente in tempi e modi diversi, ma tutti insieme ci siamo resi inutili. La nostra realtà di peccato è omogenea non soltanto rispetto alla natura che ne consegue, ma anche rispetto al modo ed al tempo in cui diventa attuale. E’ d’obbligo il tempo passato, non prossimo, ma remoto. Perché bisogna riandare alla nostra condizione in Eden per comprendere come il peccato di uno sia in realtà il peccato di tutti e come il peccato di tutti sia il peccato di uno. Paolo sembra voler prevenire l’errore di Pelagio, non solo affermando che eravamo tutti insieme allorché abbiamo peccato, ma mettendo subito in chiaro la conseguenza di questo peccato. In virtù ed in conseguenza di esso noi tutti diventiamo inutili.

Si dice non utile ciò che non serve allo scopo per cui è stato creato, peggio ancora lo intralcia. Colui che è inutile non viene in qualche modo riadattato, ma viene messo da parte per un uomo diverso, utile per la propria chiamata e per la propria vocazione. L’uomo vecchio non entra nel regno dei cieli, e neppure è in grado di comprendere la novità dell’annuncio. L’eresia di Pelagio non è storicamente superata e neppure è superabile dall’uomo in virtù delle proprie forze. Non è semplice prodotto di una certa mente, o di un cultura o di un tempo lontani. È qualcosa di strutturale dell’anima umana, ed in quanto tale è sempre in atto. Finchè ci sarà chiesa terrena, ci sarà in essa la feccia e l’odore nauseabondo di coloro che si credono giusti, anche se ammettono di fare peccati. Per chi non vuol comprendere il senso di questa inutilità Paolo replica: Non c’è il facente cose buone, non c’è fino a uno.

Ascolta  tu che confessi i tuoi peccati e sei pur convinto di fare qualcosa di buono, insieme a poco o tanto male. Non esiste uomo che faccia ciò che è bene… fino ad uno. Puoi intendere: neppure uno…, fino all’uno od unico che è Gesù Cristo…, fino all’uno che è rinato in Lui.

Se pensi poi che non può essere considerato completamente malvagio un uomo che pur facendo il male, sa anche parlare di bene… allora sappi chiaramente che tomba aperta è la loro gola. Dalla bocca dell’uomo escono solo parole di morte, per quanto piacevoli e lusinghiere. Se poi sei così ostinato e mi replichi che la bocca non sempre è in grado di esprimere chiaramente e pienamente quello che c’è nel cuore e che questo in definitiva può essere più bello delle parole che escono dalla sua bocca, allora ti dirò che tali parole non escono semplicemente dalla bocca, ma dalla gola. Se il cuore è più profondo della parola, c’è anche una parola che arriva dalla gola e porta tutto il fetore che c’è nel cuore.

con le loro lingue ingannavano, veleno di aspidi sotto le loro labbra;

C’è stato un tempo in cui l’uomo ha avuto fiducia nella propria lingua, ma si ingannavano l’una l’altro. Folle la presunzione di Eva di dare con le sue labbra vita eterna ad Adamo: gli ha inoculato nel cuore veleno mortale. 14la loro bocca è piena di maledizione e di acredine,

Le bocche che dovevano dar lode a Dio nella pienezza della Parola si sono riempite di ogni maledizione contro il loro Signore. Acredine e non gioia è stata trovata nei loro cuori. La dolcezza del frutto proibito si è riempita di ogni amarezza. 15i loro piedi rapidi a versare sangue, L’umanità che prontamente doveva crescere ed allargare il cerchio dell’esistenza secondo il precetto divino: crescete e moltiplicatevi, non mostra alcun zelo, se non nell’uccidere la vita, prima ancora che venga alla luce. 16rovina e miseria nelle loro vie, Tutte le vie dell’uomo vengono da un’unica rovinosa  caduta e portano alla miseria, alla più completa e desolante povertà.17e via di pace non conobbero. Né in terra né dal cielo, perché non hanno accolto l’autore di ogni pace. Per questo

18Non c’è timore di Dio davanti ai loro occhi. Quale immagine più desolante e quadro più squallido dell’uomo, se non per concludere che l’uomo non possiede il timore di Dio?

Non solo non c’è timore di Dio nel loro cuore, ma neppure nei loro occhi. Non l’hanno e non lo desiderano neppure.

Per quanto le parole dell’Apostolo siano assolutamente chiare, alcune considerazioni vanno fatte relativamente all’interpretazione della chiesa o degli uomini di chiesa. La consapevolezza di una fondamentale malvagità dell’uomo in rapporto a Dio, così forte e marcata nei primi cristiani, con il tempo assume toni e sfumature sempre più sbiadite e confuse al punto che il messaggio evangelico ne risulta completamente snaturato e deviato. Non c’è fede là dov’è non c’è consapevolezza di peccato. La via della salvezza passa necessariamente attraverso la confessione della propria colpa. Mentre nel primo millennio vi è nella chiesa un rapporto assiduo con le Scritture, nei secoli successivi l’ascolto della Parola si affievolisce e nel seno della cristianità riemergono sempre più una cultura ed una filosofia di matrice pagana, mai sopite completamente.

Perché il satana è sempre all’opera e tutto opera per confondere e perdere le anime. Ciò che appare indiscutibilmente vero negli scritti dei Padri della chiesa, ovvero la radicale malvagità dell’uomo nel suo essere contro Dio, cede il posto ad una natura buona in cui il peccato appare come un accidente o un incidente che ognuno può rimuovere da solo con le proprie forze.

Perde di spessore quindi la consapevolezza di peccato e con ciò anche la grazia divina e l’intervento di Cristo. Perché l’uomo deve essere semplicemente riparato e non rifatto ex novo dalla grazia. La fede si rinchiude in una dimensione etica in cui il libero arbitrio può ben operare da solo, nell’osservanza del bene e del male. Cristo da artefice della salvezza diventa sempre più coadiutore della nostra salvezza e nel peggiore dei casi semplice spettatore. Si abbandona  la luce delle Scritture e tutto ciò che la Parola rivelata apporta in più rispetto all’uomo naturale, di qualsiasi tempo e cultura. In questa rapporto ambiguo e non esclusivo con la parola, viene meno da parte degli uomini di chiesa la  proclamazione della potenza della Parola di Dio. E con ciò si fa più prepotente la proclamazione della parola dell’uomo che si maschera di verità e vuol convincere gli uomini di verità.

Rimane come rimarrà sempre la testimonianza dei pochi, perseguitati e condannati dai molti e da quelli che contano a questo mondo. Questa degenerazione dell’annuncio evangelico porterà a grandi mali e alla fine ad inevitabili divisioni tra gli stessi cristiani. Tutto ciò che divide il corpo di Cristo è sicuramente male e peccato: ma la colpe o le colpe in questo caso non sono a senso unico. Per poter dissipare le tenebre della vita bisogna attingere alla luce che viene dal Cristo e dalla Sua Parola, con una lettura assidua e costante, prioritaria rispetto a tutto il resto. E questo sicuramente era nelle intenzioni originarie dei Riformatori: il resto in definitiva ci interessa meno e spetta al giudizio di Dio. Se Lutero ha avuto la colpa di dividere la chiesa cattolica ha il merito di aver dato una scossa salutare a tutta la cristianità, per il suo richiamo all’autorità della Parola.

Nella polemica di Lutero la lettera ai Romani riveste un ruolo centrale, perché in essa soprattutto risalta la verità e la autenticità della vita cristiana. Ma con ciò anche qualsiasi possibilità di inganno e di interpretazione distorta in parole, pensieri, opere. La lettura che Lutero fa del testo paolino è complessa e circostanziata, non sempre chiara ed ineccepibile. Ma è stridente il contrasto con la povertà di altre letture. San Tommaso commenta le stesse parole in modo alquanto sbrigativo, formalmente corretto,ma assai povero di ispirazione. E questa la dice lunga riguardo alla chiesa di un certo tempo, che ha proprio nell’esegesi di Tommaso il suo primo punto di riferimento.

Ancor oggi la chiesa, riguardo al peccato d’origine ed alle sue conseguenze, si esprime, a nostro parere in maniera alquanto blanda.

( Dal Catechismo della chiesa cattolica). “Il peccato originale, sebbene proprio a ciascuno, in nessun discendente di Adamo ha un carattere di colpa personale. Consiste nella privazione della santità originale, ma la natura umana non è interamente corrotta: è ferita nelle sue proprie forze naturali, sottoposta all’ignoranza, alla sofferenza e al potere della morte, e inclinata al peccato ( questa inclinazione al male è chiamata “concupiscenza”). Il Battesimo, donando la vita della grazia di Cristo, cancella il peccato originale e volge di nuovo l’uomo verso Dio; le conseguenze di tale natura indebolita e incline al male rimangono nell’uomo e lo provocano al combattimento spirituale.

Il modo approssimativo, con cui viene affrontato il problema del peccato originale fa tutt’uno con il giudizio di condanna, sommario e sbrigativo che viene fatto nei confronti dei riformatori.

“Al contrario, i primi riformatori protestanti ( e perché non altri?) insegnavano che l’uomo era radicalmente pervertito e la sua libertà annullata dal peccato delle origini; identificavano il peccato ereditato da ogni uomo con l’inclinazione al male (“concupiscentia”), che sarebbe invincibile”.  ( Dal Catechismo della chiesa cattolica ).

La chiesa cattolica giustamente chiede a sè e pretende per sé una lettura ed una interpretazione  della Scrittura accreditata e voluta dallo stesso Signore, ma prima di condannare e di escludere dalla propria comunione, bisogna innanzitutto cercare di comprendere il punto di vista dell’altro ed agire e parlare nella consapevolezza che la verità tutt’intera appartiene alla chiesa tutt’intera e non a questo o a quel cristiano, né tanto meno a questo o a quel capo.

La verità è figlia  della santità e non dell’autorità. Anche Gesù parlava con autorità, ma con l’autorità che gli veniva dalla santità di Figlio di Dio, e non con quella che l’uomo dà all’uomo o che l’uomo si prende dall’uomo.

In quanto custode della Tradizione, la Chiesa deve continuamente riandare ad essa e confrontarsi con ciò che fin dall’inizio è stato detto, insegnato, scritto, pena di dover affrontare nel suo seno dilacerazioni e divisioni che possono anche venire da contestazioni non del tutto infondate.

Non illuminato e non corretto ci appare l’atteggiamento di Lutero nei confronti di chi nella Chiesa è stato costituito in autorità, di colui che deve salvaguardare l’unità delle varie membra, in carità ed  in verità.

Un rifiuto in toto della Tradizione ha portato i Riformatori ad un impianto dottrinale per molti aspetti sbagliato.

Giusto e santo il desiderio di un ritorno alla lettura della Parola di Dio così come veniva fatto nella primitiva chiesa,

per approfondire e meglio comprendere, non per rinnegare e rifiutare il santo deposito custodito dalla Tradizione.

Va in ogni caso riconosciuto ai fratelli protestanti il merito di aver dato una scossa salutare a tutta la cristianità, sottolineando da un lato la necessità di un recupero della Parola, dall’altro l’importanza di un’umile confessione della colpa, confessione fondata su una  consapevolezza di peccato, illuminata, agita e richiesta dalla fede in Cristo.

Molto incisivo e forte è il modo in cui Lutero parla del peccato d’origine e delle sue conseguenze. E non si può dire che Lutero in questo non attinga dall’insegnamento dei Padri.

Dalle tesi di Wittenberg:

“4. In verità l’uomo è un albero cattivo che può fare e volere solo il male.

5. E’ falso che l’uomo possa decidere liberamente il proprio comportamento di fronte ad un dilemma. Egli, anzi, non è affatto libero, ma servo.

6. E’ falso che la volontà possa adeguarsi per vie naturali al giusto comandamento.

9. La stessa natura è cattiva e perversa.

12. Non si deve dire che questo è contrario a quanto sostiene Sant’Agostino e cioè che su nulla la volontà può esercitare il proprio potere quanto su se stessa.

13. E’ assurdo concludere che il peccatore possa amare il creato, e perciò è impossibile che ami anche Dio.

17. Non si può affermare che l’uomo per sua natura può volere che Dio sia Dio, dato che è più ovvio che voglia egli stesso essere Dio e che Dio non sia Dio.

18. Amare Dio sopra ogni cosa è frase fatta, chimerica.

20. L’atto di amicizia non è un fatto di natura, ma di grazia.

30. Da parte dell’uomo vi è solo prima della grazia, l’indisponibilità, anzi di più: la ribellione alla grazia.

38. Non può esservi virtù morale senza superbia o cattiveria, cioè senza peccato.

39. Non è valida la frase: dal principio alla fine siamo padroni delle nostre azioni; perché siamo servi.

40. Non ha senso dire: diventiamo giusti operando azioni giuste, bensì: fatti giusti operiamo azioni giuste.

41. Quasi tutta l’etica di Aristotele è cattiva e nemica della grazia.

42. Sbaglia chi sostiene che l’opinione di Aristotele non contrasta con la dottrina cristiana.

43. E’ errore dire: senza Aristotele è impossibile diventare teologi.

44. Meglio è dire che non si diventa teologi se non lo si diventa senza Aristotele.

50. In breve, Aristotele è per la teologia quello che le tenebre sono per la luce.

97. Dobbiamo volere che tutto quanto ci riguarda sia comunque conforme alla volontà di Dio.

99. Non solo dobbiamo volere ciò che vuole Dio, ma anche dobbiamo volere per il futuro ciò che sempre Dio vuole.

“Abbiamo accusato prima infatti Giudei e Greci di essere tutti sotto peccato, come è scritto: Non c’è giusto, neppure uno…

“Tutto questo brano deve essere inteso come detto nello Spirito: esso non parla degli uomini come sono ai loro propri occhi e davanti agli uomini, ma come sono davanti a Dio, presso il quale tutti sono sotto il peccato: sia quelli che risultano palesemente cattivi anche agli uomini, sia quelli che sembrano buoni a se stessi ed agli uomini. La ragione è questa: coloro che sono manifestamente cattivi peccano secondo i due aspetti della realtà umana e sono privi d’ogni parvenza di giustizia anche ai loro propri occhi. Coloro invece che esteriormente appaiono buoni a se stessi ed agli uomini peccano secondo l’uomo interiore. Infatti anche se esteriormente fanno opere buone, le fanno per timore della pena o per amore di lucro, di gloria o di qualche altro bene creato: non le compiono con buona volontà ed ilarità. In questo modo l’uomo esteriore è certo tutto impegnato nelle buone opere, ma l’uomo interiore trabocca di concupiscenze e di desideri opposti. Infatti, se fosse lecito fare il male impunemente, o se sapesse che dal bene non consegue affatto gloria o tranquillità, egli preferirebbe trascurare il bene e farebbe il male come gli altri. Invero quale differenza c’è davanti a Dio tra colui che fa il male e colui che vuole fare il male, benché se ne astenga, costretto dalla paura o sedotto da un bene temporale? Uno però si qualifica come peggiore di tutti, quando pensa che sia sufficiente tale giustizia esteriore ed oppone resistenza a coloro che insegnano la giustizia interiore; è il caso di chi, accusato si difende, oppure ritiene che la cosa non lo riguardi, perché lo si accusa, non già perché non lo faccia, ma perché non agisce con cuore semplice e non corregge anche la sua volontà, con cui brama ciò che è contrario alle sue opere. Allora le sue opere buone sono già cattive da un duplice punto di vista: in primo luogo , perché non sono state fatte con buona volontà e perciò sono cattive; in secondo luogo, perché – con inaudita superbia – vengono fatte passare per buone e difese come tali. E’ ciò che si dice in Geremia, al capitolo 2: “Il mio popolo ha commesso due iniquità”. Perciò noi siamo sempre sotto il peccato, a meno che questa nostra volontà non sia guarita dalla grazia di Dio ( quella grazia che egli ha promesso ed elargisce ai credenti in Cristo ), affinché siamo liberi e ci disponiamo con ilarità a compiere le opere della legge, non cercando nient’altro che di piacere a Dio e di fare la sua volontà, e non agendo per timore della pena o per amore di noi stessi. Perciò dice:

Non c’è  giusto, neppure uno

Ma qui ognuno osservi se stesso, apra gli occhi e presti la massima attenzione. Raramente infatti si trova un giusto tale, quale l’Apostolo qui lo cerca. Ciò accade perché noi raramente ci esaminiamo così profondamente, da riconoscere questa debolezza, anzi questa rovinosa malattia della nostra volontà. Proprio perché non ce ne rendiamo conto – come appunto dice qui -, raramente ci umiliamo e raramente chiediamo, nel modo conveniente, la grazia di Dio. Infatti, questa malattia rovinosa è talmente sottile, da non poter essere perfettamente scovata neppure dagli uomini più spirituali. Perciò coloro che sono veramente giusti implorano con gemiti la grazia di Dio, non solo perché s’avvedono d’avere una volontà cattiva e d’essere perciò in peccato davanti a Dio, ma anche perché s’accorgono di non potere mai scorgere, in modo perfetto, quanto e fino a che punto di profondità sia malvagia la loro volontà. Perciò credono sempre d’essere peccatori, come se la profondità della loro cattiva volontà fosse infinita. Così umiliano se stessi, piangono e gemono, finchè siano perfettamente guariti, ciò che si verifica solo con la morte. In breve da ciò deriva che noi pecchiamo sempre. “Manchiamo in molte cose”. E “se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi”.

.. Così dice Giobbe: “Anche se fossi innocente, la mia anima non lo saprebbe!”. Ed ancora: “Io temevo tutte le mie opere”, per il fatto cioè, di non aver potuto sapere se le avesse compiute con doppiezza di cuore o se, animato da segretissimo desiderio, non avesse per caso cercato il suo tornaconto…

E’ tuttavia vero- lo concedo- che si possa fare e volere qualcosa di buono… non tutto però! Infatti, non siamo inclini al male al punto che non resti in noi nessuna parte propensa al bene, com’è appunto manifesto nella sinderesi ( interno conoscimento del bene e del male, rimorso di coscienza )…

L’uomo, infatti, non può cercare se non ciò che è suo e non può amare se non se stesso sopra tutte le cose. Questa è l’anima di tutti i suoi vizi. Perciò tali persone cercano se stesse anche nelle opere buone e nelle virtù, cercano cioè di piacere a se stesse e d’applaudirsi da sé. Dunque:

“Non c’è nessun giusto, nemmeno uno

Infatti, nessuno di sua iniziativa è ben disposto nei confronti della legge di Dio; invece, tutti (almeno nel cuore) si oppongono alla volontà di Dio; mentre giusto è soltanto “colui che si compiace nella legge del Signore”. Ugualmente:

Non c’è nessuno che sia intelligente

In effetti la sapienza di Dio è nascosta, è ignota al mondo. “Infatti la Parola di Dio si è fatta carne”, la sapienza si è incarnata, e proprio per questo resta nascosta e non può essere attinta, se non con l’intelligenza, appunto come Cristo non è conosciuto se non per mezzo della rivelazione. Perciò coloro che sono sapienti a proposito delle cose visibili ed in merito ad esse ( quali sono appunto tutti gli uomini al di fuori della fede e coloro che ignorano Dio e la vita futura ) non comprendono, non sanno (niente), cioè non sono intelligenti né sapienti, ma stolti e ciechi; ed anche se ai loro propri occhi sembrano sapienti, tuttavia sono diventati stolti. Essi, infatti, non sono sapienti della sapienza che è nascosta, ma di quella che si può scoprire con mezzi umani.

Non c’è nessuno che cerchi Dio

Ciò vale tanto per quelli che in modo palese non cercano Dio, quanto per quelli che lo cercano, o meglio, che si immaginano di cercarlo, poiché non lo cercano nel modo in cui egli vuol essere cercato e trovato, cioè mediante la fede, in umiltà, non certo mediante la propria sapienza, con presunzione. Come il detto: “Non c’è nessun giusto, nemmeno uno” deve essere inteso a proposito di queste categorie d’uomini, cioè di coloro che hanno piegato a sinistra e di quelli che hanno deviato a destra, così dev’essere intesa anche quest’altra espressione: Non c’è nessuno che sia intelligente”, e quest’altra ancora: “Non c’è nessuno che cerchi Dio”. Infatti, queste affermazioni ben s’addicono ai primi, perché, venendo meno ai loro doveri ed a causa della loro trascuratezza, non sono giusti, non comprendono, non cercano Dio; ma anche ai secondi, perché esagerano e si impegnano con zelo eccessivo. Essi, infatti, sono troppo giusti, troppo intelligenti, troppo cercatori ( di Dio ), fino al punto da risultare incorreggibili nel loro modo di pensare. In questo senso dice appunto un comico: “A furia di capire, non finiscono forse per non capire niente?” E dice ancora: “Spesso la massima giustizia è massima stoltezza”; sì, c’è ingiustizia, quando si rimane irremovibilmente fermi nella propria convinzione e non si concede assolutamente nulla alla parte avversa. Perciò s’è diffuso tra il popolo anche questo detto: Le persone più sagge sragionano in modo più grossolano. L’Apostolo dice: “Non c’è nessuno che sia intelligente”, prima di dire: “Non c’è nessuno che cerchi Dio”. La precedenza dipende dal fatto che il conoscere sta prima del volere e dell’operare. Il cercare” (Dio) esige dedizione ed impegno. Ma questo, appunto, viene dopo il comprendere. Perciò gli empi che stanno dalla parte sinistra non comprendono, poiché nella vanità della loro concupiscenza sono accecati dalle cose che si vedono. Invece gli empi che stanno dalla parte destra non comprendono, perché trovano un impedimento nel loro proprio modo d’intendere la loro sapienza e la loro giustizia. Così sono d’ostacolo a se stessi nel ricevere la luce divina. ..

Da questa duplice considerazione risulta dunque che l’uomo si dice propriamente giusto se è intelligente e cerca Dio in modo conforme a questa intelligenza. Altrimenti un’intelligenza che non ricerchi (Dio) è morta, com’è morta la fede senza le opere: essa non fa vivere, né giustifica. E viceversa: un uomo è ingiusto, se non comprende e non cerca (Dio). Perciò ha anche premesso: “Non c’è nessun giusto”, e poi, quasi spiegando che cosa significhi non essere giusto, dice: uno è tale, perché non comprende e non cerca Dio.

L’intelligenza di cui qui si parla è la fede stessa, cioè la conoscenza delle cose che non si vedono e si possono solo credere. Si tratta perciò di un’intelligenza che attinge realtà nascoste, poiché riguarda ciò che l’uomo non può conoscere da sé, com’è detto in Giovanni, al capitolo 6: “Nessuno viene al Padre, se non per mezzo di me”;  ancora: “Nessuno viene a me, se il Padre mio non lo attira”; e a Pietro viene detto: “beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’ hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”. Come potrebbero riconoscere questo gli empi che stanno alla sinistra ed i sensuali, che apprezzano soltanto le cose visibili? E come potrebbero ammetterlo gli empi della parte destra, che tengono in considerazione e apprezzano soltanto il loro proprio modo di vivere? Gli uni e gli altri si sbarrano la strada da sé e si precludono irrimediabilmente il cammino, opponendosi alla luce di questa intelligenza. Ma il desiderio appassionato, ovvero la ricerca di Dio, è l’amore stesso di Dio, l’amore che ci fa volere ed amare ciò che l’intelligenza ci ha fatto comprendere . Poiché, anche ammesso che si comprenda e si creda, non si può però, senza la grazia di Dio, amare e fare volentieri ciò che si è creduto e compreso. Dice bene però l’Apostolo: “Non c’è nessuno che cerchi (Dio)”. Infatti, la condizione di questa vita non si svolge nel possesso di Dio, ma nella ricerca di lui. Egli deve essere sempre cercato e ricercato, cioè deve essere sempre di nuovo cercato. Come si dice nel Salmo 103: “cercate sempre il suo volto”. Ed anche: “Là infatti sono salite le tribù” ecc. Così si passa di potenza in potenza, di splendore in splendore, si avanza nella medesima forma. Infatti non chi inizia a cercare, ma “chi persevera” e ricerca “fino alla fine, questi sarà salvo”; chi incomincia sempre da capo e sempre cerca e sempre rinnova la sua ricerca. Chi infatti non avanza sulla via di Dio perde terreno, e chi non cerca ciò che ha acquisito, poiché sul cammino che conduce a Dio non ci si deve fermare. “E – come dice S. Bernardo – quando incominciamo a non voler diventare migliori, smettiamo di essere buoni”.

Tutti hanno deviato, tutti sono diventati inetti

“Tutti”, cioè i figli degli uomini, quelli che non sono ancora figli di Dio per la fede, nati “dall’acqua e dallo Spirito Santo”. Di questi, alcuni deviano a sinistra: quelli che diventano schiavi delle ricchezze, degli onori, dei piaceri, dei poteri di questo mondo. Altri, invece, deviano a destra: sono coloro che si occupano intensamente della loro propria giustizia, virtù e sapienza, e che, trascurata la giustizia di Dio e l’obbedienza che bisogna prestargli, combattono con superbia spirituale l’umile forma assunta dalla verità. Perciò, dice la Scrittura, in Proverbi, al capitolo 4: “Non deviare né a destra né a sinistra”; cioè, non deviare dalla via che sta a destra, poiché prosegue: “Il Signore conosce le strade che stanno a destra, mentre sono perverse quelle che stanno a sinistra”. Infatti, stando a destra, deviare a destra significa trasmodare nel sapere, nell’agire giustamente ecc. Quell’”insieme” deve essere preso in senso collettivo, come se significasse: tutti sono diventati inetti, cioè vani e bramosi di cose inutili. A buon diritto, infatti, quelli che cercano cose inutili diventano essi stessi “inetti”, vani per l’occuparsi di cose vane. Come, dal punto di vista di ciò che si possiede, i ricchi sono detti tali dalle ricchezze; così gli inetti sono chiamati con questo nome dalle realtà che non giovano a nulla. Infatti noi diventiamo tali, quali sono le realtà che amiamo. “Se ami Dio, sei dio; se ami la terra, sei terra”, dice il beato Agostino. L’amore infatti  è una forza unitiva che genera una sola ed identica realtà risultante dall’amante e dall’amato”. Anche in un altro senso sono dichiarati “inetti”, poiché essi sono tali per Dio e per se stessi. Ma il primo modo d’intendere è migliore, perché vuole provare che essi sono diventati vani per il fatto di essersi volti alla loro propria verità e giustizia, girando le spalle alla verità ed alla giustizia di Dio. Tuttavia, queste tre proposizioni possono essere intese come una ripetizione per ottenere un crescendo nell’espressione. Così avremmo che la frase: “Non c’è nessun giusto, nemmeno uno” sarebbe identica a quest’altra: “Tutti hanno deviato”; la proposizione: “Non c’è nessuno che sia intelligente” equivarrebbe a: “Tutti sono diventati inetti”, e l’espressione”: “Non c’è nessuno che cerchi Dio” sarebbe uguale a: Non c’è nessuno che faccia il bene ( 3,12 ). Infatti “deviare” significa diventare ingiusti. E diventare vani equivale a perdere  la verità nella mente e meditare cose vane. Perciò, in molti luoghi, alla loro intelligenza vengono attribuiti vani pensieri. Inoltre, “non fare il bene” significa non cercare Dio. Poiché, anche se esteriormente fanno il bene, tuttavia non agiscono col cuore, e perciò non cercano Dio, ma piuttosto la gloria, il proprio guadagno o – se non altro – di schivare la pena. E perciò non fanno il bene, ma piuttosto ( se fosse lecito dirlo ) lo subiscono, cioè sono costretti dal timore o dall’amore a fare quel bene che di loro libera iniziativa non farebbero. Coloro, invece, che cercano Dio fanno il bene in modo disinteressato e gioioso, solo per Dio, non per avere un certo possesso su qualche creatura, spirituale o corporale che sia. Ciò, tuttavia, non è opera della natura, ma della grazia di Dio. Una tomba aperta è la loro gola

Con questi tre versetti si mostra come essi si comportano male anche nei confronti degli altri, dal momento che, in ciò che precede l’Apostolo aveva descritto come costoro siano cattivi ed empi in sé. Essi sono tali in sé, perché si sono allontanati da Dio; sono poi cattivi ed empi verso gli altri, perché hanno attratto a sé anche gli altri, allontanandoli da Dio, così come anch’essi si sono allontanati da Dio. Si tratta anzitutto di quelli che danno loro ascolto e li imitano. Essi agiscono nei loro confronti in un triplice modo. In primo luogo, divorano questi uomini (che sono) già morti. Perciò dice: “Una tomba aperta è la loro gola”. La tomba è il ricettacolo dei morti, di coloro che sono morti in modo tale che per essi non c’è più nessuna speranza di risurrezione, - speranza che, invece, c’è ancora per quelli che dormono soltanto. Perciò si dice nel salmo: “Coloro che dormono nei sepolcri, dei quali tu non conservi il ricordo e che la tua mano ha abbandonato”. Allo stesso modo la loro dottrina, la loro bocca e la loro gola ( cioè il discorso che esce dalla loro bocca e dalla loro gola ) non divora altri al di fuori di quelli che, nella loro infedeltà, sono morti alla fede, e li divora in modo tale che per loro non c’è più nessuna speranza di ritorno dalla morte consistente in questa infedeltà, a meno di tener conto che, per un intervento del tutto straordinario della potenza di Dio, essi possono essere richiamati, prima di scendere all’inferno. E’ ciò che il Signore ha prefigurato con la risurrezione di Lazzaro sepolto già da quattro giorni. Dice però tomba “aperta”, perché essi divorano e seducono molti. “La parola di costoro infatti si propaga come una cancrena”; com’è detto più sotto: “Forse non lo comprendono quelli che divorano il mio popolo come un pezzo di pane?”. Cioè: come non si avverte nessuna nausea a mangiare il pane, che viene invece assunto in modo più abbondante e frequente rispetto a tutti gli altri cibi, così essi non smettono di ingoiare i loro discepoli morti, né mai sono sazi, poiché la “bocca della vulva” ( cioè della dottrina infernale ) è insaziabile”. Anzi si verifica addirittura che, come il pane si trasforma in colui che se ne ciba, così anch’essi si trasformano nell’empietà dei loro maestri. Ma questo paragone viene  proposto  anche per sottolineare una differenza. Infatti, questi stessi empi divorano anche i giusti, non però come un pezzo di pane, dal momento che non se li incorporano come il pane, ma li deglutiscono vivi e crudi; pertanto neppure li trasformano, ma succede piuttosto che o muoiono loro stessi o vengono corretti dai giusti. Perciò l’eresia, cioè una dottrina empia, non è nient’altro che una specie di peste e di lue che infetta ed uccide un grandissimo numero di persone, come avviene nel caso d’una peste che colpisce il corpo. Dice, però, gola, piuttosto che bocca, per esprimere l’efficacia e la persuasione della loro dottrina, poiché essi hanno il sopravvento e li divorano, come appunto ciò che è già in gola è subito ingoiato, non invece ciò che si ha in bocca, poiché può essere ancora vomitato e sputato. La loro dottrina è poi efficace, perché dice cose belle e piacevoli, come attesta l’Apostolo: “Si circonderanno di maestri, per il prurito di udire”. In quanto gola, essa non ha denti, come li ha la bocca; infatti la bocca mastica con i denti, mentre la gola inghiottisce dolcemente senza masticare. S’aggiunge anche un altro motivo: proprio perché tali dottori non masticano, neppure ruminano, né triturano, cioè non li accusano né li umiliano, non li inducono alla penitenza, non li distruggono né li spezzano; ma, nella loro empietà, li ingoiano interi, così come sono, come è detto nelle Lamentazioni, al capitolo 1:

“I tuoi profeti non ti hanno svelato le tue iniquità, per provocarti alla conversione”. Infatti, accusare un peccatore con le parole e castigarlo significa macinarlo con i denti, finché non diventi minuto e tenero ( cioè umile e mite ). Invece blandire, sminuire la gravità dei peccati oppure mostrarsi subito indulgenti significa divorarli con la gola, cioè lasciare che i peccatori restino superbi, dal cuore duro e incapace di conversione, insofferenti di qualsiasi osservazione. Perciò nel Cantici dei Cantici si dice della sposa, che ha “i denti come un gregge di pecore tosate”, ha cioè parole di correzione prese dalla Scrittura, pronunciate senza il piacere della vendetta ecc. Perciò qui l’Apostolo prosegue con le ultime due proposizioni, come per esporre che cosa voglia significare il detto: “Una tomba aperta è la loro gola”, ovvero come avvenga che essi li divorino. In secondo luogo: essi insegnano con inganno. Per questo, infatti, la tomba è aperta, per questo ne divorano molti, perché essi insegnano con inganno. Il motivo, però, per cui essi divorano e per cui la loro gola è una tomba aperta è questo: la loro gola inocula segretamente veleno. Così, mediante il veleno, uccidono e procurano la morte, mentre con l’inganno procurano la morte di molti. Infatti le parole lusinghiere e la persuasione subdola adescano e attraggono molti, il veleno poi uccide coloro che si sono lasciati attrarre. Perciò, in modo molto conveniente è stato detto: “una tomba” ( a motivo dei morti ) “aperta” ( poiché essi li uccidono dolcemente e con inganno ). Dunque la precedenza è stata giustamente data a ciò che è più importante. “Usare la lingua” significa insegnare, ammonire, esortare ed in generale servirsi di questo strumento per rivolgersi ad un’altra persona. Invece, “con inganno” significa: insegnare una gradita e che faccia piacere, facendola passare per santa, salutare e proveniente da Dio, a tal punto che gli uomini, tratti in inganno, l’ascoltano come se Dio parlasse e credono d’ascoltare proprio lui, dato che il discorso sembra loro buono, verace e d’origine divina. Perciò questo desiderio di piacere, questo blandimento, grazie a cui un discorso di tal genere risulta gradito a chi lo ascolta, è abbastanza ben colto nel segno dall’espressione “con le loro lingue”, come ben colto nel segno dall’espressione “con le loro,lingue”, come accadde sopra con l’espressione: “nella loro gola”. La lingua infatti è molliccia, senza ossa e lambisce delicatamente. Così ogni loro parola non fa altro che blandire il cuore degli uomini che si compiacciono di sé, nella loro propria sapienza o nella loro propria giustizia, nelle loro opere o nelle loro parole. Come si dice in Isaia, al capitolo 3: “Diteci cose piacevoli, non scoprite per noi ciò che è giusto!”; cioè: non diteci ciò che è contrario al nostro modo di pensare. Sì, è proprio così, essi hanno solo in orrore la parola della croce ( ad opera della quale il loro modo di vedere avrebbe dovuto essere mortificato e – per così dire – lacerato coi denti) e vogliono ascoltare ciò che asseconda il loro modo di pensare. Com’è terribile questa parola! Dunque questo inganno chiama a raccolta un gran numero di persone, mentre il veleno uccide il gran numero di persone radunate. Perciò la loro gola è una tomba aperta ed ampia ecc. Ne viene, in terzo luogo, che essi uccidono coloro che hanno indottrinato nel modo detto. Infatti: sotto le loro labbra c’è il veleno. E’ appunto questa dottrina blanda e piacevole, che non solo non fa vivere coloro che prestano fede ad essa, ma li uccide. Anzi, li uccide in modo irreparabile, poiché al veleno degli aspidi non si può porre rimedio. L’aspide, infatti, è una specie di serpe che si trova in Africa, il cui morso, come dice Aristotele, è incurabile. Così un popolo perfido ed eretico non può più essere ricondotto sulla retta via. Tuttavia di questo veleno, di questa morte dell’anima, non se n’avvedono gli sventurati. Perciò dice: “Sotto le loro labbra”, cioè la morte è nascosta sotto, è proprio nascosta là dove, fermandosi all’apparenza esterna, stando alle parola dei loro ammaestramenti, non appare altro che verità e vita a quelli che li ascoltano. Dunque in modo opportuno ha parlato di “sepolcro”, poiché il veleno degli aspidi è incurabile e mette irreparabilmente fine alla vita. Infatti, un’apparenza esterna, adescante, di verità e giustizia fa sì ch’essa diventi una tomba aperta, un veleno da cui non si può guarire, assolutamente privo di rimedio. Invero noi tutti amiamo la verità e la giustizia. Perciò si aderisce tenacemente ( alla verità ), quando essa appare attraente, mentre la si disprezza, non appena appare urtante, come del resto sempre si presenta. Ciò è appunto evidente in Cristo, che “non ha né forma né bellezza”; così è anche per ogni verità che contrasta con il nostro modo di pensare.

La loro bocca è piena di maledizione

Ecco, quando si tratta di quelli che non li limitano, essi hanno una “bocca”. In questo caso non hanno né una gola, né una lingua, ma una bocca ben fornita di denti, come si dice in seguito. Perciò, in secondo luogo, ( ci chiediamo ) come si comportano nei confronti di coloro che non li seguono, ma piuttosto oppongono loro resistenza e li ammaestrano in ciò che è buono e giusto, per convertirli dalla morte di cui sopra s’è detto? Osserva come li ricompensano! Essi reagiscono nei loro confronti in un triplice modo, come sopra. In primo luogo, hanno una bocca piena di maledizione. E’ una espressione appropriata, poiché la loro maledizione non passa in coloro che essi maledicono, ma resta in loro. Non danneggiano se non se stessi, in modo conforme a ciò che è stato detto a Cristo: “Chi ti maledirà, sarà maledetto”. Così pure in un altro Salmo si dice: “Dio spezzerà loro i denti in bocca”. Non si tratta né di ferire né di recare danno al corpo d’altre persone. Infatti egli permette loro di mordere in modo tale, però, da non nuocere a nessuno, dunque spezza i denti nella loro bocca. In tal modo, certo, non mancano loro né i denti né le maledizioni, ma essi le tengono solo in bocca, essa infatti ne è “piena”. Questo “maledire” significa colpire in pubblico ( qualcuno ) con insulti, imprecazioni e bestemmie, ed augurargli del male. Fanno così tutti coloro che avvertono che ci si oppone al modo di pensare da loro stabilito ( poiché ad essi il loro modo di pensare sembra giusto e vero), e fanno ciò, come se fossero pronti a difendere la verità ed a prestare ossequio a Dio, certo con zelo ammirevole, ma non “conforme a retta conoscenza”. E non fanno ciò con indolenza, ma – come ho detto – con grande zelo. Perciò egli dice: “la loro bocca è piena”, vale a dire: essi maledicono senz’alcun ritegno. In secondo luogo: è piena d’amarezza, cioè di maldicenze gonfie d’invidia. L’invidia infatti è l’amarezza del cuore, come, al contrario, la carità ne è la dolcezza. Così i superbi e gli empi non solo dicono male dei giusti, ma, con parole piene d’amarezza, giungono anche a calunniarli presso quelli della loro cerchia o agli occhi di altri. Ma anche quell’invidia, che rimane nella loro bocca, non nuoce affatto a coloro di cui essi hanno invidia. Perciò dice: certo la loro bocca è piena di amarezza, ma all’esterno essa non rende amari e cattivi gli altri. In terzo luogo: i loro piedi sono veloci…

Si tratta, ancora una volta, d’un’espressione appropriata. Infatti, non sempre possono adempiere ciò che vogliono con le mani, tuttavia agiscono in modo da riuscirci sempre. Perciò, quando con le loro ingiurie e maldicenze non possono averla vinta sugli araldi della verità, procurano di annullarli uccidendoli, affinché il loro proprio modo di pensare non ne esca sconfitto. Infatti, i Giudei ( dei quali appunto si parla stando al senso letterale) hanno fatto questo con la massima determinazione, come risulta chiaro dagli Atti degli Apostoli. Ma, anche adesso, ogni nemico della verità, per amore del suo modo di pensare, si comporta, si comporta in maniera simile, in vista di farlo valere, poiché ha una “buona intenzione” e fa questo per amore di Dio.

Distruzione

Qui descrive la loro sorte. Essa è in primo luogo la distruzione: vengono distrutti, menomati ed umiliati, tanto secondo il corpo quanto secondo l’anima, com’è evidente nel caso dei Giudei. Essi, infatti, “sono come polvere al vento”, come si dice nel Salmo 1, poiché coloro che erano grandi e potenti sono stati distrutti, ed anche adesso non cessano d’essere ridotti in polvere e “sono calpestati come il fango delle strade”. Ma quale, agli occhi degli uomini, è lo stato di rovina del loro corpo, tale, anzi molto più miserabile, è lo stato di rovina del loro corpo, tale, anzi molto più miserabile, è lo stato di rovina spirituale, procurato loro dai demoni che li opprimono e che “non lasciano in loro pietra su pietra”. Al tempo stesso, però, percorrendo queste loro vie, deperiscono sempre di più; finchè perseverano in esse, diventano sempre peggiori e più duri. Del resto vale anche il contrario: coloro che camminano nelle vie di Cristo crescono sempre di più e diventano sempre più forti. Perciò in questi ha luogo un processo di consolidamento e di crescita; in quelli, invece, di distruzione e di deperimento. In secondo luogo c’è sventura cioè: esito infelice. Come Cristo riesce bene in tutto ciò che fa, così, al contrario, essi non riescono mai bene in nessuna cosa cui pongono mano. Ciò è affatto evidente nel caso dei Giudei: per quanto facciano progressi nella loro empietà, sono per altri aspetti sempre considerevolmente oppressi da molte contrarietà.

Non hanno conosciuto la via della pace

Perché non l’ hanno conosciuta? Perché è nascosta, essendo una pace spirituale, ed è nascosta dal velo di molte tribolazioni. Chi, infatti, penserebbe che questa è la via della pace, se vedesse che i cristiani sono tribolati nei beni, nel buon nome, nell’onore e nel corpo e che, durante tutta la vita, non hanno la pace, ma la croce ed il dolore? Gli altri, invece, con le loro opere di giustizia , cercano d’ottenere la pace nella carne. Perciò essi perdono l’una e l’altra. Sotto questi tormenti, però, è nascosta la pace, che nessuno conosce, a meno che non creda e non ne faccia esperienza. Essi, però, non hanno voluto credere, ed hanno piuttosto provato orrore per questa esperienza. “Infatti grande è la pace”, ma “ per quelli che amano la tua legge, per essi”, cioè per quelli che la amano “non c’è nessun ostacolo”. Come? Sì, soltanto per quelli che odiano la legge, solo per loro essa diventa un ostacolo. La causa, però, di tutto ciò ch’è stato detto è la superbia, la quale rende totalmente inetti. Infatti, il timore di Dio umilia tutto, l’umiltà però rende capaci di tutto. Per questo essi non comprendono nulla, perché sono superbi; per questo poi si insuperbiscono, perché non temono Dio. Ma essi non temono Dio, è perché presumono che Dio approverà il loro modo di pensare e le loro opere, poiché egli appare loro giusto e retto, mentre non considerano che, se Dio dovesse giudicare, non troverebbe in noi nulla di giusto e di puro. Il giudizio di Dio è invero d’una sottigliezza infinita. E non c’è nulla che sia stato fatto in modo tanto accurato, che non sia trovato trasandato davanti a lui; non c’è nulla di tanto giusto che non sia ingiusto davanti a lui; nulla di tanto verace che non sia menzognero, nulla di tanto puro e santo che non sia impuro e profano. Oppure, se ci fanno caso, è senza dubbio per pretendere che ci sia “accezione di persone” presso Dio, affinché egli non giudichi e non condanni le loro opere giuste e vere: Dio, per un favore straordinario, dovrebbe concedere che essi, pur essendo impuri, siano considerati puri. Perciò, se temessero Dio, saprebbero che solo Cristo, solo la sua giustizia e la sua verità non possono essere giudicati da Dio, dal momento che tutto ciò è anch’esso infinito. Ma in eterno siano rese lode e gloria a Dio, che in lui e con lui ci ha donato tutto ciò, affinché per mezzo di lui noi fossimo giusti e veraci ed evitassimo il giudizio. Invece, per quanto riguarda ciò che è nostro ( visto che non sappiamo mai bene quando si tratti di ciò che è “nostro” ), dobbiamo sempre rimanere con timore davanti a Dio. Nondimeno a loro pare di possedere al massimo grado il timore di Dio. Infatti quale virtù non si arrogano i superbi? Perciò, come si reputano giusti, intelligenti, ricercatori di Dio, così pensano di avere anche il timore di Dio e tutto ciò che qui l’Apostolo non riconosce loro, e presumono di essere assolutamente lontani da ciò che l’Apostolo attribuisce loro. Perciò, se non si crede con fede nelle parole dello Spirito contenute in questo salmo, se non si crede che esse sono vere e che non c’è nessun giusto davanti a Dio, nessun uomo che si ritenga giusto giungerà a pensare questo da se stesso. E’ perciò necessario ritenere sempre che ciò che è vero a nostro proposito e che di ognuno di deve dire che è ingiusto e senza timore, affinché, dopo esserci umiliati in questo modo ed avere confessato di essere empi e stolti al cospetto di Dio, meritiamo di essere giustificati da lui. ( Lutero )

 

Il discorso della salvezza non si comprende se prima non si comprende il senso e la portata di una caduta. Paolo afferma in modo radicale l’universalità del peccato umano. L’uomo non semplicemente commette dei peccati, ma ancor più e ancor prima si trova in uno stato di peccato. Il peccato non rappresenta quindi una sorta di accidente o di incidente che offusca il cammino della nostra vita, ma è all’origine stessa di questa vita. Bisogna tener ben distinto il piano dell’esistenza da quella dell’essenza: quello che eravamo in Eden, e quello che siamo dopo Eden, la vita che è prima del peccato originale, da quella che viene dopo. Se la prima vita è assolutamente buona in quanto creata esclusivamente da Dio, la seconda non può dirsi tale, se non in vista del Cristo, in quanto non semplicemente creata da Dio, ma originata dal peccato di Adamo. All’origine dell’esistenza è il rifiuto di gustare unicamente dell’albero della vita che è in Eden  per entrare in un’altra, che è conoscenza del bene e del male. Tale conoscenza non si pone affatto in un punto neutro, al di fuori e al di sopra del bene e del male, ma è conseguenza del rifiuto di Dio. Si conosce il bene ed il male solo perché si partecipa di entrambi, non perché si è al di sopra di entrambi. Non c’è conoscenza se non per esperienza. L’uomo destinato a conoscere solo il bene, conosce anche un male che ad esso si oppone. E’ questo il conflitto etico: una sorta di dilacerazione interiore in cui l’io si sente diviso e conteso da una forza che gli appare buona e da una forza che gli appare cattiva.

Nel conflitto etico non c’è alcuna garanzia di vittoria del bene sul male, semmai l’esperienza che il bene ed il male non sono mai conciliabili, se non per l’uomo che ama ingannare se stesso. Ma qual è in definitiva quel bene che l’uomo conosce? E’ l’unico ed eterno bene o piuttosto una manifestazione della sua bontà infinita, che benché degni di dannazione eterna ci concede un’ultima possibilità di salvezza in Cristo e per Cristo? Conoscere il Bene è conoscere Colui che è Bene. Ma non si può conoscere Dio se non ascoltando la sua parola. Perché Dio prima ancora di farsi vedere dall’uomo si fa conoscere attraverso la sua voce. E’ questa la vera conoscenza del Bene, quella che si rapporta direttamente al suo fondamento ed al suo fine. Non vi è conoscenza di Dio se non in Dio e per Dio. Ma l’uomo per poco ha voluto godere di questo stato di grazia. Affascinato ed accecato dall’idea di diventare come Dio, non nell’ascolto della sua Parola, ma nella disobbedienza alla Sua Parola, si è trovato nelle tenebre del peccato dove la voce che viene da Dio gli giunge insieme a quella che gli viene dal Maligno, in maniera confusa e non sempre ben distinta. L’uomo che non ascolta perde nella sua capacità di ascolto e di intendere chiaramente quale voce. E’ questo quello che la Scrittura chiama indurimento di cuore. Non semplicemente quando l’uomo perde la capacità di fare il bene, ma quando perde la capacità e la volontà di ascolto di colui che è Bene. Nessun uomo che abbia il cuore indurito si rende conto del proprio stato. Perché l’ascolto è semplicemente rivolto altrove, non rifiutato. Nessun uomo vive fuori ed al di sopra di qualsiasi ascolto. Allorché non ascolta la voce di Dio ascolta la propria parola. E questa gli può apparire così bella giusta santa e ragionevole da prendere il posto di quella del Creatore. L’uomo si illude di far esperienza e conoscenza di Dio, in realtà vive di un ascolto chiuso nella propria interiorità che mai esce dall’io per aprirsi al suo Creatore. Ma a questo punto che senso ha parlare di libero arbitrio? La mentalità comune, molta diffusa tra gli stessi cristiani, crede in una libertà che attinge direttamente a Dio o al Satana tramite la conoscenza del bene e del male. In realtà il bene che noi conosciamo non attinge immediatamente a Dio, ma è conseguenza del rifiuto di Dio, non in un senso puramente negativo,  ma in un senso positivo, come un residuo della grazia originale, qualcosa che ci è lasciato da Dio, perché possiamo intraprendere l cammino della conversione e del ritorno. Se il peccato d’origine ci avesse tolto qualsiasi idea di bene e coscienza di male non sapremmo dove cominciare e non avremmo neppure stimolo ad operare per la salvezza. La conoscenza del bene e del male non ha in sé nulla dell’assoluto che è proprio di Colui che è Bene e di Colui che è Male. E’ soltanto l’inizio di un percorso di vita, che sin dall’inizio non è mai a senso unico, ma è posto di fronte ad un bivio, nella consapevolezza che percorsi diversi portano a mete e ad esiti diversi. Non è esclusa la possibilità di una scelta immediata, nel senso di una risposta  più facile e non faticosa, ma non è garantito un futuro felice, se non nell’immediato. Una scelta infelice porta con sé un futuro infelice.

L’uomo che imbocca la strada della conoscenza del male, sperimenterà tutta la potenza del Maligno e crescerà di male in male fino alla dannazione eterna. L’uomo che imboccherà la conoscenza del bene crescerà di bene in bene fino al possesso di Colui che è bene nell’eterna visione del Suo volto. Non basta intraprendere un cammino per essere sicuri di giungere alla meta, ma bisogna perseverare fino alla fine. Finchè si è in viaggio è sempre possibile un’inversione di marcia e un ritorno sui vecchi passi. E non si è mai soli. Chi segue le vie del male è consigliato e traviato dal Satana che vuol rendere definitivo ed irrevocabile il nostro distacco dal Signore Chi segue le vie del bene conosce l’intervento del Signore che ci dona la grazia e gli strumenti perché giungiamo alla vita eterna. Ma bisogna anche comprendere il punto di partenza che è già in caduta libera. Nessuno può arrestare la propria caduta se non attraverso uno sforzo o una violenza fatta a se stessi.  La caduta è frutto di una violenza nei riguardi di Dio, ora bisogna accettare che Dio usi violenza al nostro io con drastici interventi, di potatura, ma anche di rinforzo. Se all’origine della vita è la volontà di una nostra vita, il primo intervento di Dio è proprio sulla nostra volontà. Chi è stato rifiutato una volta come può proporsi un’altra volta se non accrescendo il dono del suo amore? Iddio quindi ci colma ancora e ancor più di doni, fino all’ultimo estremo dono. Innanzitutto attraverso una conoscenza del bene che si accresce di giorno in giorno a seconda dell’età , dell’intelligenza della cultura, del tempo in cui viviamo. Chi cerca il bene purifica la propria volontà da ogni desiderio di male e apre la strada per la conoscenza di Colui che è Bene.

Abbiamo visto come Paolo descriva in maniera mirabile il cammino di ogni uomo nella strada della salvezza. Tutti gli uomini possono arrivare alla vita eterna, anche se in maniera e in misura diversa.

Vi sono gli uomini che vivono fuori dal tempo e dallo spazio della rivelazione, che pur tuttavia perseverando nel bene ascoltano la voce di Dio, quale si fa sentire alla coscienza ed entrano perciò nella vita eterna. La salvezza che viene da Cristo si manifesta in forme diverse ma nessuno dimentica. Ogni uomo può sperimentare nella propria vita l’intervento di Cristo.

Questa breve introduzione al problema della libertà dell’uomo, seppur frammentaria e non esauriente, ci è parsa tuttavia necessaria per mettere in rilievo la complessità del discorso, che non può procedere a senso unico ma deve affrontare aspetti diversi della libertà umana. Ha  torto Lutero nell’affermare l’assoluta malvagità dell’uomo e la sua assoluta incapacità ad operare per il bene se il problema della libertà viene affrontato semplicemente dal punto di vista etico. Perché dal punto di vista della morale l’uomo non si può rinchiudere in una sorta di fatale necessità, dove ogni sua scelta cade in virtù di una forza e di una potenza a lui estranea e da lui non controllabile.  Se per libertà dell’uomo intendo la possibilità di scelta tra azioni più o meno buone o più o meno cattive, allora dobbiamo riconoscere che vi è un libero arbitrio. Si tratta però di una libertà chiusa nell’interiorità dell’uomo, non il riflesso immediato del nostro essere in Dio, ma piuttosto quanto resta del nostro essere stati in Dio. E’ una libertà che può operare a prescindere da Dio, non necessariamente in obbedienza a Dio. E’ quanto ci rimane dello stato di grazia originale, per amore divino. Se Dio ci avesse tolto qualsiasi nozione di bene e qualsiasi possibilità di bene, noi non sapremmo in nessun modo come cercare la salvezza. Per cercare Colui che è buono, bisogna avere almeno la consapevolezza di ciò che è bene. Questa libertà che abbiamo definito morale si presenta quanto mai ambigua. Fondata in una creatura divisa dal suo Creatore è incapace di compiere da sola un salto di qualità, da una vita fuori di Dio, a una vita in Dio e per Dio. L’uomo in definitiva si muove come in una sorta di circolo vizioso in cui non rincorre Colui che è bene, ma se stesso come bene. Ed è indubbiamente il giorno della grazia quando si rende conto del terribile inganno in cui vive ed opera. Perché nonostante tutta la  buona volontà e tutto l’impegno il peccato riaffiora continuamente ed appare non debellato, ma semplicemente sopito o mascherato. Come può l’uomo operare il Bene se non in Colui che è bene? Viene il momento in cui l’uomo è costretto a rivedere il senso della propria vita non semplicemente in rapporto a ciò che gli appare buono, ma innanzitutto in confronto a Colui che è bene. Ma bisogna prima dichiarare la propria capitolazione e riconoscere la propria sconfitta. E non si arriva a questo in modo immediato, senza alcun impegno etico, al contrario, l’uomo prende consapevolezza della propria impotenza a ben operare quando ce l’ ha messa tutta e nonostante tutto si ritrova al punto di partenza. Da questo punto di vista l’impegno etico non è di per sé deplorevole e non viene disprezzato da Dio, ma è semplicemente il punto di partenza, finché non si arriva alla confessione del proprio peccato e non si ricerca una giustizia diversa, non quella che dall’uomo va a Dio, ma quella che da Dio, viene all’uomo. E da questo momento comincia un cammino diverso, non più da soli verso la salvezza, ma guidati e sorretti da colui che è salvezza. Una novità di vita che altro non è se non il ritorno all’Eden originario, dove l’uomo era destinato ad un cammino di crescita fino alla visione di Dio, non da solo, ma guidato dalla luce del Cristo e sorretto dall’ascolto della sua Parola. Tutto è bene quel che finisce bene. Ma non sempre le cose vanno così. Vi è anche l’uomo che si rinchiude in un conflitto etico falso e menzognero. Non scopre la propria malvagità ma convince se stesso di bontà. E tutto questo non perché il conflitto etico sia di per sé inutile e malvagio, ma perché è cercato e vissuto da un cuore falso e malvagio che non vuole la luce, ma le tenebre. Non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire e non c’è peggior cieco di chi non vuole vedere. Così nonostante le ripetute sconfitte l’uomo presume di una giustizia che non gli appartiene. La coscienza etica non vive in comunione con la voce dello Spirito, ma si dissocia da essa, fino al punto del non ascolto e del silenzio assoluto da parte di Dio. Tutto questo è ben delineato nella figura dei farisei i quali non rappresentano affatto il disimpegno etico, ma la non serietà dell’impegno etico ed il rifiuto e l’ostinazione ad andare oltre e a vedere oltre. Il fariseo ha una sua indiscutibile giustizia, ma è piena di ambiguità e contraddizioni, che egli non vede e non vuol vedere. In apparenza tutto sembra vada bene, ma basta mettere il dito sulla piaga ed allora un sepolcro spalancato è la sua bocca. Bello di fuori, ma dentro è solo putredine e marciume. Gesù riconosce all’uomo della legge la giustizia che gli è dovuta, ma nulla di più e solo per affermare la Sua giustizia. Paradossalmente vediamo che uomini dediti alla ricerca della giustizia rifiutano il Cristo, mentre uomini irretiti nel peccato accolgono la salvezza che viene dal cielo. Bisogna però vedere oltre le apparenze e leggere nel cuore dell’uomo in modo non superficiale. Perché la grazia di Cristo non è data in modo arbitrario agli uni e negata agli altri, nell’ottica di una fede che è solo dono e non anche ricerca e volontà del bene. Se è vero che la salvezza viene dalle fede e non dalle opere è anche vero che non si arriva alla fede mangiando e bevendo, finchè non si è afferrati dall’Altro. Certamente anche la fede è un dono di Dio, perché nulla ci appartiene e nulla è nostro se non il peccato. Ma  non è data la fede a chi non cerca e non vuole il suo Signore. Se è apparente ed ingannevole la giustizia dei farisei, altrettanto ingannevole può essere la malvagità di coloro che accolgono il Cristo. Solo il Signore conosce il pensiero dell’uomo e solo lui è in grado di discernere la buona volontà. Il degrado morale di alcune persone può nascondere un cuore che si sta aprendo all’amore del Signore, come l’apparente giustizia esteriore può nascondere un cuore ribelle al suo Salvatore. Così non si può dire che il ladrone o la Maddalena non abbiano mai cercato il bene; più semplicemente può essere che alla fine si siano trovati schiavi del male. E’ così che gli ultimi diventano i primi quando per primi confessano il loro peccato davanti a Gesù e si lasciano afferrare dalla sua mano potente per essere da lui sorretti e da Lui guidati. Soltanto in Cristo e per Cristo la nostra libertà fa un salto qualitativo in virtù del quale trova il proprio fondamento ed il proprio fine. L’uomo dopo il peccato di Adamo, vive separato da Dio, non può autofondarsi nel Bene, rinchiudendosi nel conflitto etico. Bisogna spalancare la porta del proprio cuore al Signore e camminare in novità di vita. Quando Lutero interpreta i versetti dell’Apostolo nel senso di una radicale e totale malvagità dell’uomo non vuol certo negare una qualche libertà a ben operare, ma l’assoluta impossibilità ad operare per la propria salvezza. Vi è un libero arbitrio, soltanto nella dimensione morale, ma solo per far risaltare un servo arbitrio che ha bisogno di un liberatore. “Voi sarete liberi se vi libererà il Figlio dell’uomo”. Perché la vera libertà non è quella che opera con gli occhi della carne, ma è quella che opera nelle tenebre che hanno accolto la luce.

Per concludere : Il problema della libertà non può essere affrontato in maniera semplicistica; non si può dire che l’uomo è libero o al contrario che è schiavo rispetto al peccato. Bisogna innanzitutto considerare la sua natura creata e con ciò una libertà che non gli appartiene in proprio, ma è semplicemente donata. Una libertà donata può procedere in maniera autonoma rispetto al suo Creatore, ma non può prescindere dal proprio fondamento e dal proprio fine. Una libertà fondata è anche una libertà condizionata. Condizionata rispetto alla fonte e prevenuta e precorsa rispetto al proprio fine. E tutto questo grazie al dono di quella Parola che non solo ci ha fondati in Dio, ma che continuamente ci fonda e ci radica in Lui. Ma bisogna passare attraverso le vie dell’ascolto e non illudersi di una libertà che può ben operare senza l’aiuto del Creatore. La libertà non è semplicemente un dato, ma è anche un fatto, una conquista e una crescita che l’uomo fa proprie insieme con il suo Signore. Se è vero che Dio non può o meglio non vuole fare niente senza il nostro aiuto è altrettanto vero che nulla di ciò che è bene noi possiamo o vogliamo senza il suo aiuto. La libertà non è innanzitutto rispetto all’operare, ma rispetto all’ascoltare. Non ubbidisce chi opera semplicemente ma chi ascolta la Parola di Dio. E in questo certo siamo liberi: non c’è indurimento di cuore che non ci veda pienamente responsabili e colpevoli. Per ogni uomo la libertà non si colloca in un punto neutro della  vita, se non all’origine che è in Eden. Ma questa è storia passata. Nell’esistenza l’uomo porta con sé non semplicemente la  libertà, ma solo quella libertà che in cui è liberamente cresciuto. E questo ben ci fa comprendere le parole di Gesù: “Voi sarete liberi se vi libererà il Figlio dell’uomo”. La libertà in senso proprio, come autodeterminazione per il bene appartiene all’ultimo uomo, a colui che ha già raggiunto la statura perfetta e con ciò viene riconosciuto degno di entrare nel regno dei cieli, in Cristo e in virtù di Cristo. Non è attuale se non quella libertà che è risposta del singolo al richiamo di Dio. Uguale per ogni uomo rispetto al proprio fondamento e al proprio fine, ma diversa per ogni uomo rispetto a quella voce o Parola, che continuamente ci cerca per riportarci al Suo amore. Non tutti possiamo e non tutti dobbiamo le stesse cose. Né spetta a noi decidere per gli altri e neppure ci è dato di conoscere i tempi e i momenti che Dio ha riservato in suo potere. Ognuno troverà il senso della libertà soltanto nel proprio cuore. A nulla giova confrontarsi con il prossimo e perdersi in vane disquisizioni sul libero arbitrio. Il libero arbitrio ed il servo arbitrio non sono se non nell’individuo e per l’individuo. Tutti siamo liberi rispetto all’ascolto della Parola, non semplicemente rispetto alla Parola, ma a quella Parola che Dio rivolge a noi, in ogni istante della nostra vita. Nello stesso tempo siamo tutti schiavi del Satana, perché da Lui ostacolati ed impediti nell’ascolto dell’Unica parola, ingannati e fuorviati da un’altra parola.  Liberi e schiavi nello stesso tempo, mai liberi in assoluto o schiavi in assoluto. Non si deve strumentalizzare la parola di Paolo per giustificare e confermare i propri assiomi. Secondo lo spirito ed il linguaggio tipici della Parola di Dio, Paolo ama molto esprimersi nella forma del paradosso. Ma un’affermazione paradossale non si può comprendere se non in un contesto e secondo un determinato scopo. Di fronte alla presunzione dell’uomo che confida in se stesso, quale via più efficace per smascherare l’inganno che far risaltare l’universale schiavitù del genere umano al Satana ed alla sua opera? Ma neppure è giustificato il fatalismo di chi pensa che tutto debba cadere dal cielo con o senza la nostra volontà. “Molto sarà richiesto a colui al quale molto è stato dato”. Prima c’è il dono e poi la richiesta.  Non c’è nessun dono d’amore che non abbia una sua richiesta. Non si dona se non a colui che innanzitutto è oggetto d’amore e non si richiede se non a colui che è libero di rispondere o meno ad una proposta d’amore.

Ci sembra che la lettura di Lutero ricalchi il linguaggio paradossale di Paolo. Non si vuole affatto negare la libertà dell’uomo rispetto alla chiamata di Dio, così come si determina storicamente per ognuno di noi, ma semplicemente far risaltare l’assoluta incapacità ad operare per la vita eterna senza la grazia di Cristo. E questo perché non cadiamo nell’inganno di una salvezza senza Salvatore.

A questo punto ci sembra che il discorso di Paolo sia più chiaro. La salvezza  viene solo dal Cristo ed è data a tutti gli uomini, di tutti i tempi e di tutte le culture. Parte dalla conoscenza del bene e del male, non perché sia fondata tra il Bene ed il Male, ma perché dopo il peccato d’origine si è storicamente determinata come tale.  L’inizio dell’esistenza non si può collocare se non alla fine dell’essenza. Ma con ciò è solo tracciato l’inizio di un percorso e non certo il suo fine o la sua fine. Il fine della vita è il ritorno all’ascolto di quella voce che è dono e grazia di Dio: presenza santificante del Cristo, luce e guida attraverso le tenebre. La fine della vita altro non è che il passaggio ad un’altra vita, in cui vedremo finalmente la Parola, ma solo nella misura in cui l’abbiamo ascoltata. Tutti gli eletti vedranno Dio, ma non tutti avranno gli stessi occhi. C’è luce e luce: altro è lo splendore di una stella ed altro è lo splendore di un’altra stella. Una sola è la luce, ma la sua gloria brilla diversamente in specchi diversi. E’ soltanto l’obbedienza alla Parola di Dio che ci rende degni di vita eterna. Ma questa obbedienza proprio perché cade in persone diverse deve cadere in modi, in tempi e in spazi diversi.  Prima della Rivelazione su tutta la terra, si può soltanto ascoltare la Sua voce, così come si fa sentire nel silenzio della coscienza individuale: non semplice conoscenza del bene e del male, ma una conoscenza del bene e del male, ripresa da Dio. Non c’è immediatezza naturale che non sia frutto del peccato d’origine, e non c’è frutto del peccato d’origine che non sia rivisitato dal Signore. Con la Rivelazione dell’Antico Testamento la Parola si manifesta in modo più immediato nel proprio fondamento e nel proprio fine, come espressione di un Dio personale, non solo per il singolo, ma per l’intera comunità di Israele. La Legge mosaica, in quanto incisa nella pietra non si può identificare sic et sempliciter con la legge naturale incisa in ogni uomo. E’ superata ogni lettura ed ogni interpretazione individuale ed è ribadita l’assoluta unicità ed esclusività della sua fonte. Con la venuta di Cristo siamo all’epilogo finale: la Parola si fa carne e si manifesta e si palesa chiaramente nell’Unico Amore, che tutti abbraccia e nessuno dimentica. La Parola è Dio, Dio è amore, l’Amore è per tutti. Non c’è Parola di Dio all’infuori di quella che si è manifestata in Israele. Non c’è amore se non quello che si manifesta col Figlio. Non c’è salvezza se non quella che a tutti è donata. Prima della rivelazione ogni uomo è chiesa per se stesso. Con l’Antico Testamento vi è una sola chiesa: in Israele e per Israele. Con la venuta del Cristo vi è un’unica chiesa, che abbraccia l’intera umanità e che non vive in templi fatti dalla mano dell’uomo. Sbagliano e sono strumento del Satana coloro che dissertano su di una salvezza universale per ogni uomo e per ogni tempo, senza considerare che ogni uomo ha il suo tempo. Allorché è arrivata la pienezza dei tempi non si può guardare e non si può vedere se non con gli occhi che Cristo ci dona. Perché ti interessa tanto capire come tutti gli uomini giungano a salvezza e non vedi e non comprendi la salvezza che viene dal cielo? “Tutti gli dei delle genti sono demoni”. Le religioni non sono affatto un modo diverso di attingere allo stesso divino. Al contrario sono un modo diverso di sprofondare nell’abisso del Satana. C’è un solo Dio e ha parlato ad Israele, e in Israele . Prima di Israele e fuori da Israele l’uomo attinge alla Sua voce soltanto nell’interiorità del proprio io, non adeguandosi alla parola che gli viene da fuori, ma soltanto lottando contro di essa e camminando contro di essa. Un musulmano tanto per intendersi non si salva vivendo da buon musulmano, ma soltanto andando contro la Parola dell’Islam, fino a ritrovare la voce dell’unico Dio, non in sintonia con il suo popolo, ma  in quella solitudine e in quel silenzio, che è rottura con il proprio popolo. Ciò non significa che si debba ripudiare in assoluto ogni legame con la cultura del proprio tempo. Noi tutti siamo figli del nostro tempo e del nostro paese, ma fino ad un certo punto; oltre deve esserci la rottura, così come è chiesto dalla voce di Dio. Nessun peccato si può giustificare in nome dei tempi e della cultura. Da sempre vi è Colui che è oltre ogni tempo ed ogni cultura. E questo non va detto solo per le altre religioni, ma anche e soprattutto per il cristianesimo. Con troppa facilità si giustificano e si comprendono i misfatti della Chiesa. Non è semplicemente una questione di tempi, c’è la mano del Satana. Piaccia o non piaccia questo è quello che ci dice la Parola di Dio ed è questo in cui crediamo noi cristiani: non c’è salvezza se non in Cristo e nell’unico Dio. Considera gli antichi patriarchi? Perché si Dice di Noè che fu trovato giusto davanti a Dio? Perché era un buon osservante della religione del suo tempo e del suo popolo, o non per il contrario, perché ascoltava soltanto la voce di Dio? Certo le religioni nella loro parola strutturata e codificata, sembrano andare oltre la semplice voce della coscienza. Ma questo è l’inganno del Satana, che va smascherato. Ti meravigli che il giudizio di Dio investa interi popoli ed intere generazioni? E’ fatto salvo l’individuo che non si conforma al secolo presente, ma  va oltre la potenza della sua parola, per ascoltare la voce di Dio. Nessun delitto o peccato si può giustificare per ignoranza. L’ignoranza è semplicemente un fatto culturale. Al di sopra di ogni parola che si fa cultura vi è innanzitutto la voce di Dio, così come si fa sentire alla coscienza di ogni uomo. Al di sopra della voce di Dio, vi è soltanto la Sua Parola, così come si è udita e manifestata in Israele. Non c’è confronto e non c’è paragone se non per l’uomo che ama ingannare se stesso. Se cerchi la Parola, la troverai solo in Israele e nella Chiesa.. E non è giustificato chi si accontenta della sola Voce. Perché la voce si è fatta Parola. Chi ama veramente si accontenta della voce dell’amato, quando può udire la Sua parola? Ciò è detto per chi crede in una salvezza che procede a ritroso. La Parola è ormai donata e non è giustificato il suo rifiuto ed il ritorno alla voce della coscienza. Perché leggere la Bibbia, perché i Sacramenti e la Chiesa? Non basta seguire la propria coscienza? Sei cieco e guida di ciechi. Non comprendi L’amore di Dio e rifiuti il suo dono. La salvezza che passa per le vie della voce di Dio ha avuto il suo tempo e ha già fatto il suo tempo. Ora ti è chiesto l’ascolto della Parola. San Paolo ti dice con chiarezza che cosa abbiamo in più noi cristiani. E chi ha il più non cerca il meno. Rischia di smarrire la retta via e di essere ripudiato dal Signore. “Molto sarà richiesto a colui che molto ha ricevuto” E’ tempo  di luce e di una pienezza anticipatrice di quella celeste. La nostra libertà ha una portata ed un valore diverso: è la capacità di operare ciò che è bene… in Cristo ed in virtù di Cristo. Se Cristo è il fondamento ed il fine della nostra libertà, non si è liberi se non di volere o non volere lui. Questo è il senso vero della libertà.

19 Ora sappiamo che quanto dice la legge, lo dice per coloro che sono nella legge, affinché ogni bocca sia chiusa e colpevole sia tutto il mondo a Dio. 20 Perciò da opere della legge non sarà giustificata ogni carne di fronte a lui, infatti per mezzo di  legge si ha conoscenza di peccato.

 “Tutto quello che dice la legge, lo dice per coloro che sono sotto la legge”. Una lettura superficiale ed affrettata del testo può portare alla conclusione che esiste qualcuno in una particolare condizione che non conosce alcuna legge. In questo senso sembra interpretare Origene.

“Pertanto questo è ciò che la legge naturale dice a tutti coloro che sono sotto la legge e credo che dai suoi precetti risultino esclusi solo i bambini nei quali non c’è ancora il discernimento del bene e del male. Se poi a questi debbano essere affiancati anche coloro che per un motivo qualsiasi sono dementi, vedilo tu. A me sembra che, senza dubbio eccettuati costoro, nessun uomo sfugga a tale legge”. (Origene)

Se così fosse realmente non si comprende proprio come tali persone si rapportino o siano rapportate al loro Creatore.

In precedenza Paolo ha dimostrato come vi sia legge e legge. Ciò che ogni legge dice lo dice per tutti coloro che sono sotto la stessa legge.  E’ escluso in assoluto che qualcuno non sia sotto la legge, ma è ammesso che non tutti siamo sotto la stessa legge.

Vi è la legge mosaica e vi è la legge naturale. Non solo: il fatto di essere sotto la stessa legge non significa che vi sia un’unica conoscenza ed una sola intelligenza della legge. Altra è la legge quale può apparire e farsi sentire al bambino ed al minore, altra è la legge che parla ad un’intelligenza adulta e cresciuta. La legge prescrive a tutti le stesse cose, ma non nello stesso modo e nella stessa misura.

E’ fatta salva una diversità che non si deve intendere nel senso di un bene ed un male diversi, ma di un diverso rapporto con lo stesso bene e lo stesso male.

La diversità va intesa altrimenti: non che qualcuno sia escluso dalla Legge, ma nel senso che ad alcuni è stato dato un rapporto con Dio che scavalca quel rapporto che passa attraverso la legge. Con la venuta di Cristo,  possiamo ben dire che la sua giustizia si manifesta indipendentemente da quella legge, che è pur posseduta da tutti. 

Ci permettiamo di dissentire e di dissociarci dall’eccessiva sicurezza con cui Origene esclude dal possesso della legge naturale i bambini piccoli e i subnormali.

Che essi possano apparire come diversi è fin troppo chiaro, ma nessuna diversità può considerarsi esclusiva rispetto al dono di Dio, ed al suo amore se non per quel che riguarda il modo e la misura. Con troppa facilità e leggerezza persone in una determinata condizione psichica sono considerate diverse e non ammesse a far parte a titolo pieno di quell’umanità che ha un solo Signore ed un solo Padre. Certo è più facile escludere che comprendere. E’ più facile relegare ai margini della comunità che tenere in considerazione colui che agli occhi di tutti appare piccolo.

Qualsiasi eccezione rispetto al dono di Dio, non va semplicemente rilevata, ma ancor più e ancor prima spiegata. Perché l’amore di Dio è bensì esclusivo, ma per ogni uomo e non di questo o di quell’uomo. Da un punto di vista cristiano non c’è eccezione che non debba rientrare nella norma, perché nessun uomo è escluso dall’amore di Dio e la salvezza è data a tutti.

Ci rattrista rilevare ancora una volta come le persone di grande cultura ed intelligenza siano poco disponibili ad affrontare il discorso di una salvezza che è donata non con l’esclusione dei più piccoli ma proprio a partire dai più piccoli.

E’ poi così certo e così sicuro che i bambini piccoli e i subnormali non abbiano conoscenza del bene e del male? “A me sembra che, senza dubbio eccettuati costoro, nessun uomo sfugga a tale legge”. Affermazione apparentemente indiscutibile, se a ciò aggiungiamo che anche le leggi umane nessuna condanna prescrivono a coloro che sono incapaci di intendere e volere.

Ed è ben giusto che l’uomo non entri con i suoi giudizi in ciò che è al di sopra della propria intelligenza. Vero è che il giudizio di Dio non esclude alcun uomo: a tutti è donata la salvezza, ma nello stesso tempo tutti saremo giudicati. E questo ci costringe a rivedere e a comprendere in maniera diversa la coscienza dei piccoli. Certamente essi non possiedono quella conoscenza del bene e del male che è tipica dell’adulto e dell’uomo logicamente cresciuto.

Questo non significa che essi non abbiano alcuna conoscenza del bene e del male. La vita dell’uomo è certamente nel suo rapporto col Logos divino. Ma dobbiamo distinguere il possesso del Logos dal possesso della logica.

Il Logos è la presenza stessa di Dio nei nostri cuori, la logica una forma attraverso la quale Dio si comunica e si manifesta a noi. Chi non ha logica non può allora comunicare con Dio ed essere in rapporto col Creatore? Si può affermare che esiste un uomo o un’età dell’uomo in cui non c’è assolutamente alcuna logica? Non è più giusto pensare ad una logica diversa? Ed ancora: non è riduttivo intendere per logica solo il pensiero che si determina e si manifesta attraverso la parola? Non vi è anche un pensiero che precede la parola ed un pensiero che è senza parola?

Altrove abbiamo sottolineato come il rapporto del bambino e del piccolo con Dio abbia un carattere immediato che è al di sopra della legge, così come è codificata dalla parola umana. Per comprendere basta leggere con attenzione quanto scritto in Genesi. Il rapporto di Adamo con Dio, passa innanzitutto attraverso il comando divino: “tu puoi…, ma non devi”. Come Dio ha parlato ad Adamo, quando Adamo ancora non possedeva la parola? La parola è creata da Adamo nel suo rapporto con Eva. Eppure Dio sin dall’inizio pone la sua coscienza di fronte ad un puoi, contrapposto ad un non devi. E non si dica che Adamo seppur non conosceva ancora la parola, possedeva però la logica che porta alla parola.

Il comando di Dio, non ha in sé alcuna logica evidenza: non è preceduto e neppure è seguito da alcuna spiegazione e giustificazione: è dato e basta. Ciò significa che ancora prima della legge, così come è compresa dalla logica, vi è una legge di Dio che è assolutamente prelogica, viene data prima ed indipendentemente da ogni logica.

E’ la voce di Dio che previene ed accompagna qualsiasi coscienza. Che tu abbia poca o tanta logica; nulla importa. E’ innanzitutto la voce di Dio che parla al cuore dell’uomo, non necessariamente nella forma della parola, ma in una forma che viene prima di qualsiasi parola.

E’ un errore pensare che per i piccoli non esista alcuna legge ed alcuna conoscenza del bene e del male. E’ la voce di Dio sic et simpliciter che garantisce tale legge. Certo ogni uomo sarà giudicato per quello che gli è stato dato, ma come nessuno è escluso dal giudizio, così nessuno è escluso dal dono di una legge naturale.

Giustamente noi ci asteniamo dal giudicare i minori, ma è un errore ed un’infamia considerarli da meno, come una sorta di umanità inferiore. “Gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi”. Così Dio ribatte e respinge i cuori insipienti.

La legge naturale si presenta alquanto complessa e non riducibile ad un’unica formula. E’ molto condizionata dal tempo, dalla cultura, dall’intelligenza dell’individuo e in quanto tale è ambigua, fatta salva quella voce di Dio che la previene e la segue. Di per sé non è strumento di salvezza se non in quanto rimanda essa stessa al Cristo. La salvezza opera lo stesso, ma la conoscenza del Salvatore è alquanto parziale, non definita e non definibile nei termini della parola. La legge mosaica va oltre i condizionamenti della legge naturale, proprio in quanto codificata nella parola scritta, dal dito stesso di Dio e,  non modificabile dall’uomo: è una sola per tutti. Ma, come la legge naturale, di per sé non è strumento di salvezza, se non in quanto rimanda al Cristo, così come è ampiamente dimostrato da Paolo.

Cosa vi è di più allora nella Legge mosaica, rispetto a quella naturale? Innanzitutto la certezza della mano di Dio che mai abbandona l’uomo, non come l’altro io, ma come l’altro dall’io.

E’ superato quel senso di solitudine che accompagna l’uomo che segue la legge naturale. E’ vero che la voce della coscienza si presenta sempre come un imperativo categorico che è altro dall’uomo, ma non è facile avvertire nella sua voce la presenza stessa dell’unico Dio e dell’unico Creatore. E’ sempre il riflesso del mio rapporto con Dio e in quanto tale confondibile col mio io. Proviene dal cuore del singolo e non va oltre il singolo. Viceversa la Legge di Dio, è iscritta nel cuore dell’uomo dal di fuori, da Dio stesso. A tutti è noto il suo autore. Ci è comunicata come membri di una comunità e ci relaziona con gli altri in modo diverso come figli dell’unico Dio. Non c’è vera fraternità se non a partire dalla Legge e con la Legge. Come possono gli uomini sentirsi fratelli, quando non si riconoscono in un unico Padre? E come si può credere in un Padre se non quando si fa conoscere, in maniera aperta e conclamata? Ma anche la Legge mosaica di per sé è insufficiente per la salvezza.

Ci fa sapere finalmente che abbiamo lo stesso Padre, crea in noi il desiderio dei figli, ma non ci fa diventare tali se non in virtù di Cristo. Dire che la Legge di per sé non salva, non significa affatto sminuire la sua importanza.

La Legge è buona e santa, ma bisogna collocarla al punto giusto, dove è stata messa da Dio. Non solo: bisogna anche interpretarla in Dio e con Dio. E’ solo parte della parola rivelata e in quanto parte si deve leggere ed interpretare alla luce del tutto.

Così la Legge, intesa come l’insieme dei comandamenti, non può essere scissa dall’insieme della Parola rivelata.

La Legge segna l’inizio di un percorso di salvezza. Chi si ferma alla sua osservanza  intraprende certamente  un cammino, ma a metà. Si ferma proprio sul più bello…, prima che arrivi il Salvatore.

La Legge non si può comprendere se non alla luce del prima e del poi, non come è visto dall’uomo, ma come è visto e conosciuto da Dio.

Non è fatta per esaltare una lettura che venga dall’uomo: al contrario è data perché ogni bocca sia chiusa . Nessuno presuma di una giustizia che non gli appartiene, né davanti a Dio né davanti agli uomini e tutto il mondo divenga colpevole davanti a Dio. Non perché fatto tale dalla Legge, ma perché riconosciuto tale da Essa. Perciò ogni carne non sarà giustificata davanti a Dio dalle opere della legge. Per mezzo della legge infatti si ha la conoscenza del peccato. E’ tolta l’illusione di una obbedienza a Dio, che passi attraverso la semplice osservanza del suo comandamento. Ma si comincia pure a far luce nel cuore dell’uomo. Prima di conoscere Dio, l’uomo deve conoscere l’uomo, non come vede se stesso, ma come da Lui è veduto e conosciuto. Per intraprendere un cammino di salvezza non basta conoscere la meta ed il percorso. Bisogna predisporre i mezzi, essere consapevoli delle  reali difficoltà ed impossibilità, lasciarsi guidare ed aiutare da chi può più di noi. Se la salvezza è solo questione nostra, siamo fritti in partenza.

21 Ma ora senza legge si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti: 22giustizia di Dio per mezzo della fede di Gesù Cristo verso tutti i credenti. Non c’è infatti distinzione: 23infatti tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, 24giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione in Cristo Gesù; 25che Dio pose innanzi come propiziatorio per mezzo della fede nel suo sangue a dimostrazione della sua giustizia mediante la tolleranza dei peccati avvenuti in precedenza 26nella pazienza di Dio a dimostrazione della sua giustizia nel tempo presente, per essere lui giusto e giustificante colui che da fede in Gesù.

Prima della venuta di Cristo la giustizia di Dio si è manifestata solo attraverso la legge. Ma ora che è giunta la pienezza dei tempi questa giustizia rifulge in Cristo senza legge, ovvero indipendentemente dalla legge che uno possiede e senza bisogno alcuno del suo appoggio e del suo rinforzo. E’ posto fine per sempre a quell’approccio individualistico a Dio che passa attraverso leggi diverse.

Non si può neppure dire che ora vi è una sola legge per tutti. Bisogna invece dire che per tutti è venuto colui che è il compimento, l’adempimento finale di ogni legge divina. Se Cristo è l’adempimento della legge mosaica, lo è pure della legge naturale, che è stata iscritta nella coscienza di ogni uomo, così come abbiamo ampiamente spiegato.

Certamente solo la testimonianza della legge e dei profeti fa esplicito riferimento alla giustizia di Dio, ma ciò che ivi è detto esplicitamente è implicitamente contenuto e significato nella stessa legge naturale.

Ogni uomo è posto in rapporto a Dio, non in modo più o meno vero, ma in modo più o meno chiaro rispetto al Logos, alla sua logica, ed alla Sua Parola.

Benché tutti gli uomini siano agiti e prevenuti dalla stesso amore, non vi è sempre la stessa la consapevolezza di questo amore.  C’è il tempo in cui l’amore opera in segreto e c’è il tempo in cui l’amore si dichiara apertamente… e si arriva a parlare di nozze e lo sposo è a noi donato…, nella chiesa e davanti alla chiesa, perché con noi si rallegri e gioisca il cuore di tutti.

Non c’è matrimonio carnale che non veda qualcuno triste… perché escluso: vi è un solo matrimonio che tutti rende felici.  Viene il tempo in cui l’amore si manifesta e si fa conoscere, agli occhi di tutte le creature. Non solo e non necessariamente in questa vita. C’è chi conosce Cristo  nell’altra vita.

E perché mai dovrebbe attendere anche nel regno dei cieli chi ha già atteso su questa terra? Forse che il Cristo che opera in terra non è lo stesso Cristo che opera nei cieli?

E’ indiscutibilmente sicura l’assoluta necessità di una attesa nella speranza e nel possesso della legge, solo per coloro che sono venuti prima di Cristo.

Nulla ci dice che i tempi del cielo siano gli stessi della terra. Ma che giovano simili disquisizioni? Ora che il Verbo si è fatto carne tutto è già compiuto non solo in cielo, ma anche in terra.  La via della salvezza passa attraverso un necessità diversa: quella della fede in Cristo.

Non è più tempo di disquisire e di indagare sul significato e sull’importanza della Legge e delle leggi: il nostro interesse e il nostro cuore sono ora rivolti altrove, non verso qualcos’altro, ma verso qualcun altro. Con ciò chiaramente non si vuol disprezzare la Legge, ma semplicemente significare che vi è Colui che è più della Legge e ci porta oltre la Legge. La storia della salvezza conosce un prima ed un poi: la linea di demarcazione è data solo dal Cristo e non da altro.

Con ciò è confutata la convinzione di una diversità che è data ad Israele dalla Legge mosaica. La Legge mosaica rappresenta certo un di più rispetto alla legge naturale, ma non va oltre essa se non per il fatto che porta più luce riguardo al nostro peccato.  In quanto alla liberazione dal Maligno, il salto di qualità è dato solo dal Cristo e dalla fede nella potenza della sua resurrezione.

Non vi è infatti distinzione: infatti tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione  in Cristo Gesù”.

Israele è forse diventato migliore in virtù della legge di Mosè? semplicemente ha avuto per essa una maggiore consapevolezza di peccato. E questo non è poco, ma solo per chi arriva alla fede in Cristo.

Non vi è infatti distinzione afferma Paolo, per quel che riguarda il peccato. Tutti abbiamo peccato e tutti siamo privi della sua gloria. Nessun uomo è riconosciuto giusto per i meriti propri. Ma niente è perduto, se non una presunzione di giustizia falsa ed ingannevole. In Cristo siamo fatti giusti, anche se non abbiamo nulla da offrire all’infuori della nostra malvagità. Gratuitamente è data la salvezza, in virtù di quella redenzione che Egli ci ha ottenuto versando il suo sangue.

Che Dio pose innanzi come propiziatorio per mezzo della fede nel suo sangue, a dimostrazione della sua giustizia, mediante la tolleranza dei peccati avvenuti in precedenza nella pazienza di Dio, a dimostrazione della sua giustizia nel tempo presente, per essere lui giusto e giustificante colui che è da fede in Gesù.

Nessuno può conoscere e godere della “propiziazione” che è in Cristo Gesù, se non in virtù della fede. Il sangue del Figlio è già stato versato ed è questo l’unico sacrificio accetto al Padre. In virtù di esso si manifesta la giustizia di Dio “in questo tempo”. Nessuno  presuma dei propri sacrifici e della propria giustizia. La salvezza ci viene dall’opera di un altro.  Per essere lui giusto e giustificante. Non ai propri occhi, ma ai nostri, perché rendiamo attuale ed operante nella nostra vita, ciò che Egli ha fatto una volta per sempre. E tutto questo non è possibile se non in virtù della fede in Gesù Cristo.

Cerchiamo dunque dove Paolo avrà trovato il titolo di “propiziatorio” e da dove avrà ripreso tale termine. Mi ricordo che nell’Esodo il Signore, parlando a Mosè e prescrivendogli quello che doveva fare, per prima cosa gli comandò che fosse costruita l’arca e le sue stanghe e gli anelli lungo i suoi lati; dopo ciò disse: “Farai anche un propiziatorio di oro puro, di due cubiti e mezzo di lunghezza e di un cubito e mezzo di larghezza. E farai due cherubini d’oro ben torniti, e li porrai sopra ciascuno dei lati del propiziatorio, un cherubino da un lato e uno dall’altro del propiziatorio; e farai in modo che i due cherubini stiano ai suoi due lati estendendo le loro ali e ricoprendo il propiziatorio: e le loro facce saranno l’una verso l’altra sopra il propiziatorio. E farai i cherubini e porrai il propiziatorio sopra l’arca e in essa metterai le tavole della testimonianza che io ti darò: ed io mi farò conoscere da te lì e ti parlerò dall’alto, da sopra il propiziatorio, tra i due cherubini che stanno sopra l’arca della testimonianza, a proposito di tutto ciò che ti comanderò per i figli d’Israele”. Appare evidente che l’apostolo ha trovato il termine “propiziatorio” – di cui stiamo trattando – in questi passi e l’ ha posto ora nelle sue lettere. E sembra che questo propiziatorio di cui si parla nell’Esodo, egli non l’abbia riferito a nessun altro se non al Salvatore Signore quando dice che Dio lo ha posto “quale propiziatorio mediante la fede …

 “Ora, se tutta la comunità d’Israele avrà peccato per inavvertenza, e la parola si sarà nascosta ai suoi occhi e avrà commesso una cosa che non è permesso compiere secondo i comandamenti del Signore e avrà peccato e le si sarà fatto conoscere il peccato commesso, la comunità offrirà un vitello preso dai buoi in espiazione del peccato” e poco dopo: “E il sacerdote che è consacrato dall’unzione porterà parte del sangue del vitello nel tabernacolo della testimonianza” e poco dopo ancora: “E farà – dice – del vitello come fece di quello offerto per il peccato, e il sacerdote farà l’espiazione per loro e sarà loro perdonato”. Il sacerdote dunque compie l’espiazione a favore di tutta la comunità mediante il sangue, perché sia loro perdonato. Esaminiamo ora ciascuno dei titoli che sono stati scritti del Salvatore e osserviamo con più cura, nelle singole denominazioni, quali siano gli aspetti che vengono indicati. Troverai allora che, poiché davvero piacque che in lui abitasse in modo corporeo tutta la pienezza della divinità, egli stesso è propiziatorio e pontefice e offerta che viene presentata a favore del popolo. E certamente a proposito del propiziatorio è già stato detto abbastanza. Ma anche del pontefice scrive con chiarezza David nel salmo e l’apostolo Paolo agli Ebrei. Cosa sia poi l’offerta lo attesta Giovanni dicendo: “Questi è l’agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”. Pertanto, in quanto è offerta, diventa propiziazione mediante l’effusione del suo sangue per il fatto che dà la remissione delle colpe passate, e tuttavia questa propiziazione raggiunge ciascuno dei credenti attraverso la via della fede. Infatti la propiziazione non potrebbe giudicarsi avvenuta se non desse la remissione delle colpe passate. Quando invece viene concessa la remissione dei peccati, è certo che si è compiuta la propiziazione mediante l’effusione del sacro sangue: infatti “ senza effusione di sangue”, come dice l’apostolo “non vi è remissione dei peccati”. ( Origene)

“Dov’è dunque il vanto? E’ stato escluso. Per mezzo di quale legge? Delle opere?  No! Ma per mezzo di una legge di fede. 28 Riteniamo infatti giustificato per la fede un uomo senza opere di legge.

Nessun uomo può vantare una superiorità sul proprio simile semplicemente per la legge che gli è stata data. Non solo per quanto concerne la legge naturale, ma anche per quel che riguarda la legge mosaica. Se la Legge di Mosè è migliore, non per questo rende migliori.

Semmai la giustizia di Dio si fa presente all’uomo in miglior modo. Potremmo anche scavalcare il problema e trasferirlo dalla legge in sé e per sé alla sua osservanza, per concludere che se non vi è vanto per alcuno nella legge, vi è però vanto per chi la osserva. L’uomo che osserva la Legge di Mosè non è migliore semplicemente per questa  Legge, ma solo per il fatto che la mette in pratica. Invero Paolo ha già dimostrato che chi osserva la legge naturale può arrogarsi il diritto di giudicare l’ebreo che non osserva la  Legge.

E questo può essere inteso in maniera sbagliata, come se la salvezza procedesse semplicemente dall’ubbidienza di una legge, naturale o rivelata che sia. Bisogna andare oltre lo spirito della legge, e questo è detto per tutti gli uomini di ogni tempo e cultura.  Quanto al senso dell’unica e vera giustizia, non può esservi dubbio alcuno: non ci appartiene in proprio, ma ci è donata.

Noi possiamo farla nostra solo in virtù della fede in Cristo. Che Cristo parli alla coscienza di ogni uomo, con qualsiasi legge, ciò è chiaramente significato in Genesi, allorché la coscienza di Adamo non è  rinchiusa nella conoscenza del bene e del male, se non nella misura di una sua scelta, ma ancor prima e anche dopo è prevenuta e seguita dalla voce di Dio. Per entrare nello spirito della salvezza bisogna ben comprendere la necessità di questo passaggio ed ancor più di un salto dall’ascolto della legge, all’ascolto della voce stessa di Dio.

Non giova perdersi in inutili approfondimenti riguardo a questa voce, perché la voce si è fatta carne in Cristo. Ciò che non aveva prima una sua chiarezza nella coscienza del singolo, ora è ben chiara e ben comprensibile nella Parola di Gesù. L’uomo che si affida alla “voce della coscienza”, ben più deve fidarsi della Parola di Gesù. Non sono due realtà distinte, ma il completamento l’una dell’altra. La prima anticipa la seconda, la seconda manifesta, adempie in pienezza ciò che è nascosto e non pienamente realizzato nella prima.

Ma siamo ben oltre lo spirito della legge. A meno che per legge tu intenda semplicemente l’imperativo categorico della voce che si è fatta Parola, il fatto che deve essere ascoltata, pena la morte. In questo caso certo, potremmo parlare ancora una volta di legge, ma di una legge diversa che procede non secondo le categorie delle opere, ma secondo quelle della fede. In questo senso va inteso: “Dov’è dunque il  vanto? E’ escluso. Mediante quale legge? Delle opere? No! Ma per mezzo di una legge di fede.

Se proprio non riesci a pensare in termini diversi da quelli della legge, allora sappi che la salvezza viene da un’unica legge: quella della fede. Una legge non è dichiarata decaduta e superata se non quando è già stata soppiantata da un’altra superiore.

Il linguaggio di Paolo si adegua anche a quello delle teste più dure, nel contempo ribadisce una salvezza che passa unicamente ed esclusivamente attraverso la fede in Cristo.

29O è Dio soltanto di Giudei? Non anche di Gentili? Sì, anche di Gentili 30poiché uno solo è il Dio che giustificherà  circoncisione da fede e  incirconcisione per mezzo della fede.

Non vi è altro Dio all’infuori di quello che si è manifestato ad Israele, ma non è altro dall’unico e solo Dio. Se vi è un solo Dio, vi è anche una sola giustizia, se vi è una sola giustizia vi è una sola giustificazione per tutti: mediante la fede.

Se unica è la fonte della fede, diversi sono i suoi destinatari. Il dono di Dio si cala in situazioni diverse e deve vagliare condizioni diverse. Così la circoncisione della carne praticata dagli ebrei, in osservanza della Legge, trova la sua giustificazione e legittimazione soltanto nella fede ed in virtù della fede.

Nulla vale la circoncisione senza la fede, ma se c’è la fede risulta gradita la circoncisione della carne, in quanto obbedienza allo stesso Dio.

Viceversa l’incirconcisione è giustificata per mezzo della fede, in quanto da essa superata e scavalcata. Il fedele che si è circonciso non ha nulla di che dolersi e di che rimproverarsi: il fedele che non si è circonciso non necessita più di circoncisione. L’immagine cede il posto alla realtà: la realtà supera, ma non rinnega ciò che è sua immagine.

31 Dunque rendiamo inoperante la Legge per mezzo della fede? Non sia! Anzi, confermiamo la legge.

Nessuna ambiguità e contraddizione nell’operare di Dio, se non per l’uomo di dura cervice che non comprende il Suo dono e stravolge i Suoi giudizi. Giusta e santa la legge in ogni sua prescrizione. Non solo la fede non abolisce la legge, ma unica la giustifica e la legittima. Nella fede la legge trova il suo fondamento ed il suo fine.

L’inizio della fede coincide quindi con l’inizio di una vita nuova e di un superamento del peccato, in virtù di Cristo.

Vi sono anche coloro che compiono opere buone pur non essendo ancora pervenuti alla fede. Ora la fede sopraggiunta non vanifica le opere buone compiute prima di essa, ma le giustifica, le legittima, fondandole in Cristo. Non solo: la fede rende perfetti chi già faceva opere buone.

Non è ripudiata quella buona volontà ad operare bene che alla fine si riconosce nella fede in Cristo: semplicemente trova la sua natura fondata, e con ciò la possibilità di una vera crescita. In questo senso si interpreta che mediante la fede noi non aboliamo la legge: non togliamo ad essa il suo valore e la sua importanza, semplicemente la riportiamo a Colui che è suo fondamento.

 

Lettera ai Romani cap5

                                         Cap. 5

1 Resi giusti dunque dalla fede abbiamo pace presso Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo 2per mezzo del quale abbiamo anche avuto per la fede l’accesso a questa grazia in cui ci troviamo e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio.

3 Non soltanto poi, ma ci gloriamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, 4 la pazienza  fedeltà provata,  la fedeltà provata speranza. 5 La speranza poi non delude poiché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, quello dato a noi.

6 Infatti essendo noi ancora infermi Cristo ancora in tempo opportuno per empi morì. 7 Difficilmente infatti qualcuno muore per un giusto;  forse qualcuno osa anche morire per il buono.  8 Ma Dio mostra il suo amore per noi, perché essenti ancora peccatori Cristo morì per noi. 9 Pertanto molto più ora resi giusti nel suo sangue saremo salvati per mezzo di lui dall’ira.

10 Se infatti essendo nemici siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più riconciliati saremo salvati nella sua vita. 11 Non solo però, ma anche gloriandoci in Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo per mezzo del quale ora ricevemmo la riconciliazione.

12 Per questo come a causa di un solo uomo il peccato entrò nel mondo e a causa del peccato la morte, e così  la morte raggiunse tutti gli uomini, perché tutti peccarono; 13 fino a legge peccato era nel mondo, ma peccato non è computato non essendoci legge, 14 ma regnò la morte da Adamo fino a Mosè anche sui non aventi peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, che è figura del veniente.

15 Ma non come la colpa, così anche il dono. Se infatti per la colpa di uno solo i molti morirono, molto più la grazia di Dio ed il dono per la grazia  di un solo uomo, Gesù Cristo, per i molti abbondò.

16 E non come per uno solo avente peccato il dono.

Il giudizio infatti fu da uno solo per condanna, il dono invece da molte colpe per giustificazione. 17 Se infatti per la caduta di uno solo la morte regnò a causa di uno solo, molto più i riceventi l’abbondanza della grazia e del dono della giustificazione, in vita regneranno a causa del solo Gesù Cristo. 18 Pertanto dunque come a causa di una sola colpa per tutti gli uomini essa fu a condanna, così anche a causa di un solo atto di giustizia per tutti gli uomini esso fu per giustificazione di vita. 19 Come infatti per la disobbedienza di un solo uomo peccatori sono stati costituiti i molti, così anche per l’obbedienza di uno solo giusti saranno costituiti i molti. 20 Legge poi sopraggiunse 21 affinché abbondasse il peccato. Ma dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia, affinché come regnò il peccato nella morte, così anche la grazia regni per mezzo della giustizia per vita eterna attraverso Gesù Cristo nostro Signore.

1 Resi giusti dunque da fede abbiamo pace presso Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo 2 per mezzo del quale abbiamo anche avuto per la fede l’accesso a questa grazia in cui ci troviamo e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio.

Finalmente la terra è stata riconciliata con il cielo. E’ caduta l’antica inimicizia e l’ostilità che ci teneva divisi da Dio. La pace è venuta nei nostri cuori per opera del Figlio, che ci ha giustificati, cioè fatti giusti in virtù della fede. L’autore di ogni salvezza è anche l’autore di ogni pace: non c’è vera pace se non nel Figlio e per il Figlio. Se fosse solo questione  delle nostre forze nessuna pace duratura è garantita, perché la nostra vittoria sul Satana è del tutto occasionale ed apparente.

Gesù ha distrutto il potere del Diavolo e nulla più ci divide da una comunione piena e stabile con il Padre, se non un cuore che confida in se stesso e nelle proprie opere e non nella potenza del Figlio.

L’opera di Gesù deve prendere il posto dell’opera dell’uomo perché possiamo non solo entrare, ma anche dimorare in uno stato di grazia.

Non è più semplicemente una questione di opere, ma di grazia e di perseveranza nella fede.

Bisogna rimanere nel Figlio secondo la sua parola: “Rimanete in me ed io in voi”. Non è saldo nella giustizia se non chi è saldo nella fede in Cristo. La fede in Cristo ci riconcilia con il Padre: riconciliati con il Padre entriamo nella Sua grazia.  

La grazia di Dio suscita in noi il desiderio di rimanere in essa:  il rimanere in essa ci fa pregustare la gloria divina: il pregustare la gloria divina alimenta e rafforza la speranza nella vita eterna. Dapprima dobbiamo trovare una vita fondata, poi rimanere e perseverare in essa…, per pregustare la vita eterna.

3 Non soltanto poi, ma anche ci gloriamo nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, 4 la pazienza fedeltà provata,  la fedeltà provata speranza. 5 La speranza poi non delude poiché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, quello dato a noi.

Potrebbe esserci anche una fede che non ha i piedi per terra. Tutta presa dall’aspettativa della vita eterna ignora la croce e la sofferenza. Si gloria in Cristo, ma solo quando le cose vanno bene. Allorché giunge la prova viene meno e dimostra tutta la sua fragilità ed inconsistenza. Non così la vera fede: essa si gloria non soltanto di una felicità immediata, ma di tutto ciò che rafforza una felicità mediata. Una fede provata e tribolata crea in noi uno spirito di pazienza; la pazienza ci merita l’approvazione di Dio, perché a Lui fatti simili, l’approvazione di Dio rafforza la speranza: la speranza è caparra della vita eterna. Perché l’amore di Dio è già stato diffuso nei nostri cuori e noi possiamo gustare la sua dolcezza. Non resteremo delusi in ciò che già ci è stato dato, ma ancor più saremo saziati in ciò che ci sarà dato. Chi trova nella fede una felicità pronta ed immediata, troverà una delusione altrettanto facile e repentina. Bisogna perseverare nella prova per essere trovati degni davanti Dio, purificati nel crogiolo come  l’oro. Vedi come Paolo confonde coloro che falsificano la sua parola. E’ negata la salvezza in virtù delle opere, ma è ribadita la necessità di un travaglio e di una perseveranza nella lotta. Colui che tutto ha fatto per te, nulla può senza di te, se rifuggi dal sacrificio. Certamente ora non si combatte da soli e la vittoria è sicura: ma se è garantita la vittoria, non è garantita l’immunità da qualsiasi ferita. Non c’è dolore e menomazione così grandi che ci impediscano di correre verso il Signore allorché siamo in Gesù Cristo.

S’ingannano coloro che credono di salvarsi soltanto per le loro opere, ma si ingannano pure coloro che creano a se stessi l’illusione della fede, menando vanto di una grazia che è semplicemente donata. Una fede autentica non si rallegra soltanto di ciò che è dato per grazia, ma anche di tutto quello che ne consegue.

Non c’è fede provata ed approvata senza tribolazione, pazienza, speranza ed infine senza quella carità o amore di  Dio che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, quello dato a noi.

“Qualora abbia tutta la fede tanto da spostare montagne, ma non abbia l’amore ( di Dio )  nulla sono” ( 1 Cor. 13, 2 )

6 Infatti essendo noi ancora infermi Cristo ancora in tempo opportuno per empi morì. 7 Difficilmente infatti qualcuno muore per un giusto; infatti forse qualcuno osa anche morire per il buono.  8 Ma Dio mostra il suo amore per noi, perché essenti ancora peccatori Cristo morì per noi.

Per comprendere l’amore di Cristo bisogna sperimentarlo attraverso la fede, non c’è conoscenza di Dio che non sia esperienza di Dio. Ma non bisogna mai dimenticare il punto di partenza ed il punto di arrivo. Perché l’uomo facilmente si chiude nella vita che è in atto, dimenticando il passato ed il futuro, quel che è stato e quel che sarà. La fede in Dio può perdere la sua dimensione escatologica, e può perdere i presupposti del suo stesso credere. Una fede dimentica della vita eterna può facilmente relegarsi e ridursi in una dimensione orizzontale dell’esistere dove tutto si compie in questo mondo e dove tutto è fatto per questo mondo. Una fede dimentica della propria natura fondata si risolve in un’agire per Dio, dove tutto è fatto per Dio e nulla è fatto da Dio. In quanto al fondamento della nostra fede, nulla sembra essere più chiaro e più sicuro. Noi crediamo in Cristo che è morto e risuscitato per noi peccatori, per guadagnarci la vita eterna. Vero è che l’uomo come dimentica la dimensione eterna della fede, così dimentica facilmente il peso e la portata del proprio peccato. E’ intenzione di Paolo tenere ben desta in noi la reale consapevolezza della nostra colpa, non perché ci deprimiamo, ma perché non ci perdiamo in una fede falsa ed ingannevole. La morte redentrice di Gesù deve innanzitutto trovare la sua reale collocazione.

6 Infatti essendo noi ancora infermi Cristo ancora in tempo opportuno per empi morì.

La sua morte è stata  assolutamente necessaria per la  salvezza, dal momento che la nostra infermità non poteva in alcun modo guarire. Ci sono infermità da cui si guarisce per forza naturale, per buona volontà o per mezzi propri. Non così per il peccato: esso conduce inevitabilmente alla morte. Se questa vita necessariamente conduce alla morte, necessariamente ha bisogno di un Salvatore. Ma non basta comprendere l’importanza della salvezza. Nessuna opera o piano di salvezza può avere esito felice se non è chiaro il punto in cui si colloca colui che è perduto e Colui che salva. Innanzitutto vi è colui che è perduto. Non per questo o quel peccato, ma per una radicale e fondamentale malvagità che gli merita il titolo di empio. Un peccatore si può definire in vario modo, in relazione ai peccati che commette. La parole empio, più propriamente è quanto di più negativo si possa intendere al riguardo: è l’uomo non pio, cioè l’uomo che vive senza alcun timore di Dio e con ciò porta in sé ogni peccato e la totalità del peccato. Cristo è morto per noi non semplicemente perché siamo peccatori, ma ancor più e ancor prima perché siamo empi, cioè viviamo senza Dio e contro Dio.

7 Difficilmente infatti qualcuno muore per un giusto; infatti forse qualcuno osa anche morire per il buono. 

Il Figlio di Dio è morto per l’uomo, non perché siamo in qualche modo degni del suo amore, ma proprio perché ne siamo completamente indegni. Nulla vi è di amabile nell’uomo e nessun debito ha Dio nei nostri confronti se non quello che ha voluto avere. Se noi dobbiamo tutto a Dio, Dio nulla deve a noi. Niente di più deprecabile e di più miserevole del giudizio dell’uomo nei confronti di Dio. E’ un ribaltamento ed un travisamento completo della realtà. Tu che giudichi l’operare di Dio nei tuoi confronti, impara a giudicare il tuo operare nei suoi confronti. Tu che dubiti dell’amore di Dio,  comincia a dubitare del tuo amore. L’amore si misura dai fatti e per i fatti.

8 Ma Dio mostra il suo amore per noi, perché essenti ancora peccatori Cristo morì per noi.

9 Pertanto molto più ora resi giusti nel suo sangue saremo salvati per mezzo di lui dall’ira.

L’amore si giudica e si palesa per quello che fa. Deve dar prova di se stesso e non semplicemente proclamare la propria bontà. Quale amore più grande di Colui che è morto per noi, quando eravamo ancora peccatori? E quale speranza di salvezza più grande per noi, ora che siamo giustificati nel suo sangue? Il suo sangue ci ha purificati e liberati dal peccato. Se siamo stati accolti da Dio, quando eravamo ancora macchiati dal peccato, quanto più lo siamo ora che il Cristo ci ha lavati da ogni sozzura! Vi è un amore di Dio che viene dall’ira e vi è un amore che viene dalla grazia. Se Dio ci ha voluto far salvi quando eravamo peccatori, quanto più ci vuol salvi ora che siamo fatti giusti nel  sangue del suo Figlio diletto!

Se vi è speranza per l’uomo perduto, quanto più per l’uomo che si è fatto ritrovare dal Cristo!

10 Se infatti essenti nemici siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più riconciliati saremo salvati nella sua vita. 11 Non solo però, ma anche gloriandoci in Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo per mezzo del quale ora ricevemmo la riconciliazione.

Ad una speranza non senza timore è subentrata una speranza gioiosa che ci fa pregustare la gloria di Dio… e tutto questo in grazia del Signore nostro Gesù Cristo.

12 Per questo come a causa di un solo uomo il peccato entrò nel mondo e a causa del peccato la morte, e così  la morte raggiunse tutti gli uomini, perché tutti peccarono; 13 fino a legge peccato era nel mondo, ma peccato non è computato non essendoci legge, 14 ma regnò la morte da Adamo fino a Mosè anche sui non aventi peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, che è figura del veniente.

Abbiamo già spiegato come in Adamo fossimo tutti presenti in un’anima sola ( non un’unica grande anima, che tutti abbracciasse, ma come tanti individui, ognuno cosciente della propria identità, legati in un’anima sola, cioè in una sola volontà, in un solo modo di rapportarsi al Creatore ed alle creature): il peccato quindi è entrato per un solo uomo dal momento che non eravamo ancora individui divisi l’uno dall’altro con  volontà proprie e diverse. L’esistenza individuale è creata dal peccato, che non solo divide l’uomo da Dio, ma anche l’uomo dall’ uomo. A causa del peccato è entrata nel mondo la morte e così la morte ha attraversato tutti gli uomini, per il fatto che in Eden tutti gli uomini hanno peccato, in uno spirito di assoluta complicità dalla quale nessuno si è autoescluso. Questa morte originale è quella che abbiamo conosciuto in Eden. E’ la morte che chiude e conclude la vita nell’essenza e apre e dà inizio alla vita dell’esistenza. Tutti gli uomini hanno sperimentato e gustato questa morte. Come la vita in Eden finisce con la morte, così la vita fuori da Eden comincia con la medesima morte. Se noi ritorniamo al libro della Genesi vediamo che l’esistenza di Adamo, si collega direttamente alla sua vita nell’essenza. Ne è il naturale epilogo e la logica conseguenza. Tutto questo però non va inteso in senso temporale: sarebbe un controsenso ed una palese contraddizione con la parola di Dio la quale aveva predetto ad Adamo che qualora avesse mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male sarebbe morto. In realtà Adamo morì in Eden e dal momento che tutti eravamo in lui, in lui tutti siamo morti. La morte di Adamo al mondo di Eden non ha significato la fine del mondo, ma l’inizio di un altro mondo. Mentre prima il mondo non conosceva il peccato dell’uomo, dopo la trasgressione di Adamo è segnato e macchiato dal suo peccato. Continua ad esserci, ma secondo categorie diverse: non più quelle dell’essenza, ma dell’esistenza ( esistere vuol dire porsi, venire fuori, da exsistere ). E’ soggetto a profondi e radicali cambiamenti: cataclismi, eruzioni, disgregazioni, processi involutivi di ogni tipo, che pur tuttavia, nella prospettiva del Cristo, il Padre fa evolvere verso la formazione di una terra in grado di accogliere l’umanità decaduta. Da un punto di vista temporale vi è interruzione e sospensione soltanto della vita dell’uomo: in quanto all’universo continua ad esistere seppur in modo diverso. Non più segnato ed improntato dall’obbedienza dell’uomo al suo Creatore, ma profondamente sconvolto dalla sua disobbedienza. Allorché l’uomo si ribella al suo Creatore, l’universo si ribella alle sue creature e diventa per esse ostile ed inospitale, sancendo con ciò il giudizio di morte espresso dal Padre. Per un certo tempo, non importa quanto, l’universo dopo il peccato di Eden non ha conosciuto la vita dell’uomo. Ciononostante ha portato in sé le conseguenze del peccato di Adamo. Anche se non c’era ancora una legge, vale a dire nessun uomo, nel mondo era il peccato. Certamente il peccato non poteva essere ascritto al mondo e nessun peccato poteva essere imputato finchè sulla terra non comparve un uomo, unico portatore e destinatario della legge. Fatto sta che la morte ha regnato da Adamo, inteso come primo uomo apparso sulla terra (quell’Adamo che continuò a vivere fuori dal giardino, che è altro dall’Adamo che morì in Eden) fino a Mosè, anche su coloro che non hanno peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo. Paolo non dice che gli uomini da Adamo a Mosè non  hanno peccato, ma che non hanno peccato a somiglianza di Adamo. Altro è il peccato che noi tutti abbiamo fatto in Eden, altro il peccato che l’uomo commette fuori da Eden. Il primo è un peccato originario, il secondo è un peccato originato. Il peccato dell’esistenza non è una reiterazione del peccato dell’essenza, ma ne è la sua logica conseguenza.

Ogni peccato porta con sé una colpa, ma altro è la colpa che abbiamo tutti in Adamo, altra la colpa dopo Adamo. La prima colpa porta con sé uno stato di peccato, la seconda colpa è frutto di uno stato di peccato. In Adamo un solo peccato ed una sola colpa, dopo Adamo tanti peccati e tante colpe, come conseguenza di un solo peccato e di una sola colpa. Tutti hanno peccato, ma in modo e in tempi diversi, vi è il peccato in Eden e vi è il peccato, o meglio vi sono i peccati dopo Eden. La morte ci è stata meritata dal primo peccato, tutti quelli che vengono dopo attestano semplicemente il nostro essere nella morte. La morte quindi ha regnato su tutta l’umanità da Adamo fino a Mosè, cioè fino a tutto il tempo della Legge, tempo che si conclude con la venuta del Cristo.

Una lettura superficiale può portare alla conclusione che fino a Gesù, adempimento e compimento della Legge non c’è salvezza. Questo si deve intendere solo nel senso della manifestazione storica dell’operazione divina, che comincia in terra  con il dono di una legge data al primo Adamo, continua fino al tempo e per tutto il tempo della Legge mosaica, si conchiude e si rende conoscibile con la venuta del Salvatore. L’intervento di Dio a livello di popolo e di umanità tutta, non esclude il suo intervento Dio a livello del singolo. Il primo ha avuto un tempo storicamente determinato nel suo essere in Israele e per Israele, il secondo segue il tempo di ogni individuo. Da Adamo fino alla Legge e per tutto il tempo della Legge non c’è vita nell’uomo e per l’uomo. Questo vale dal punto di vista di ciò che è storicamente verificabile da tutti e per tutti, ma allorché il discorso si cala nella storia di ogni uomo assume un significato diverso. Perché non vi è soltanto la fede in ciò che Dio ha fatto in Cristo, vi è anche la fede in ciò che Dio farà in Cristo. Se fosse così non comprenderemmo la figura di Abramo e la salvezza per la fede in un Salvatore che deve ancora venire… sulla terra… non nel cuore di ogni uomo. Perché la sua grazia precede la sua venuta, così come è dimostrato dai santi e dai giusti dell’Antico Testamento. Distingui dunque tra la venuta di Dio sulla terra in sembianza di uomo, e la sua venuta nel cuore di ogni uomo che confida in Lui. Nulla vieta ed impedisce di credere in colui che ancora non è venuto, dopo che il cuore ha riconosciuto il proprio peccato e la necessità della misericordia divina. E’ un Cristo sconosciuto, ma operante nella fede , che è speranza ed aspettativa di un intervento dal cielo. Certo altro è conoscere il proprio Salvatore dopo che si è manifestato e rivelato tra gli uomini , altro è conoscerne la potenza vivificatrice in virtù di una fede che passa dalla legge del singolo, alla sua coscienza di peccato, all’invocazione di un Salvatore. Si può fare esperienza di Cristo ed essere posti in Lui, senza che ci sia conoscenza. Dal punto di vista dell’obbiettività storica di ciò che è operato dall’intervento divino per tutti e davanti a tutti, non c’è salvezza fino a Cristo. Dal punto di vista della soggettività storica, di ciò che è operato nel cuore di ogni uomo, non c’è tempo senza salvezza. Cambiano i modi, la misura, i tempi della salvezza, non la sua sostanza. Sotto ogni salvezza sta il medesimo e unico Cristo. Se la morte ha regnato da Adamo fino a Mosè,  ha regnato anche da Mosè fino ai nostri tempi. Dove non c’è fede in Cristo vana è l’opera del Figlio, prima o dopo la sua venuta sulla terra. Il discorso di Paolo è difficile e non si può comprendere se non nella volontà di smontare e di dichiarare vana una salvezza che non passi necessariamente attraverso il Cristo. Non si può dire che c’è salvezza prima di Cristo, perché questo renderebbe vana la sua venuta. Non siamo salvi se non per una venuta del Figlio, storicamente determinata in un certo tempo e non in ogni tempo. Ma ciò che non si può dire apertamente per non vanificare l’opera della salvezza si può far intendere in maniera diversa ed in un modo indiretto. La verità di una salvezza che è solo in virtù della fede nella morte e resurrezione del Cristo non esclude, anzi comporta un’altra verità: quella della fede nel Salvatore che verrà. Siamo salvi soltanto in virtù della nostra fede nella salvezza che viene dal cielo, per quel che ci è dato conoscere nel tempo della nostra vita. Ogni  fede ha una sua giustificazione in relazione all’uomo ed al suo tempo. Altra è la fede prima della venuta di Cristo, altra quella che la segue. L’ultima può stare senza la prima, la prima non può stare senza l’ultima. Per questo la salvezza così come storicamente si è determinata ha una sua logica necessità. La fede in un Cristo che è già venuto, non ha bisogno di altra venuta, la fede in un Cristo che verrà non si giustifica se non per la sua venuta, allorché è venuta. La salvezza necessariamente passa attraverso una dimensione storica obiettivamente manifesta a tutti. Ciò che si è consumato in un tempo è operante in ogni tempo. La grazia di Cristo si irradia dal Calvario in ogni direzione ed in ogni tempo. Non investe solo il poi ma anche il prima, non il solo Israele, ma tutti i popoli. Se qualcuno ha migliore interpretazione, ben venga… ma non si dica che si salvano soltanto quelli che sono venuti dopo Cristo e quelli che fanno parte della sua chiesa terrena. Vi sono nella Scrittura elementi sufficienti per affermare che non è proprio così.

…Adamo, il quale è figura del veniente.

E’ importante comprendere il significato che viene attribuito ad Adamo. A volte rappresenta l’umanità tutta che ha peccato, altre volte il primo uomo che entra nell’esistenza. Ma vi è anche un terzo significato chiaramente esplicitato da Paolo, allorché dice che è figura di Cristo.  L’immagine dell’unico e del solo Adamo è semplicemente in funzione dell’unico e solo Cristo.

Come tutti siamo morti in Adamo tutti viviamo per il dono e la grazia di  Cristo. Ma a questo punto però è necessaria una spiegazione, perché  non si affermi e non si creda in un parallelismo banale e fuorviante.

Vi è una diversità che è sia quantitativa sia qualitativa.

15 Ma non come la colpa, così anche il dono. Se infatti per la colpa di uno solo i molti morirono, molto più la grazia di Dio ed il dono per la grazia  di un solo uomo, Gesù Cristo, per i molti abbondò.

Il peccato che da Adamo si riversò sui molti è quantitativamente inferiore alla grazia che Cristo ha fatto abbondare sugli stessi. Ciò significa che il rimedio non è semplicemente proporzionato al male, ma lo eccede: non ci riporta semplicemente al punto di partenza, là dove si è interrotto il nostro rapporto con Dio, ma ci fa fare un balzo in avanti e ci porta oltre. Il peccato di Adamo si colloca prima che l’uomo potesse gustare dei frutti dell’albero della vita. La grazia che ci è data in Cristo porta con sé i frutti del legno della vita. Cogliendo la grazia di Cristo non solo cogliamo la salvezza e la riparazione dal peccato, ma la vita eterna.

Ma la differenza è anche altra: in relazione alla colpa ed al merito.

16 E non come per uno solo avente peccato il dono.

Il giudizio infatti da uno solo per condanna il dono invece da molte colpe per giustificazione.

Un solo peccato dunque , ma molte colpe. Nel peccato del solo Adamo vi è la colpa di tutta l’umanità. Il giudizio sull’uomo venne fatto quando eravamo tutti uno in Adamo. La responsabilità è innanzitutto del genere: una sola condanna portò con sé la dissoluzione del genere, la nascita e la morte dei molti. La grazia è data per riparare un solo delitto, non il delitto di uno solo. In Adamo tutti siamo stati complici del peccato. La responsabilità è innanzitutto del genere,  le conseguenze sono per gli individui che ne vengono  generati.  La colpa non è del solo Adamo, ma dei molti, perché tutti eravamo in Adamo. In quanto al merito della salvezza, è del solo Cristo. Se uno solo avesse peccato, vi sarebbe grazia per quel solo, non per i molti.  Il giudizio venne da uno solo per  condanna. E non poteva essere diversamente, perché non eravamo ancora individui, ma genere, ovvero unità indissolubile di tanti io, nell’unico amore. Il dono invece da molte colpe, ovvero dalla colpa dei molti, perché un solo peccato generò i molti. Non da uno solo venne il peccato sui molti, ma il peccato dei molti fu riversato sul  solo Adamo, provocando la sua morte. Non l’uno fu responsabile della morte dei molti, ma i molti furono responsabili della morte dell’uno. Dalla dissoluzione dell’unico uomo vennero i molti. Solo allora il peccato di uno si palesò come la colpa dei molti. Come l’uno dà origine ai molti, così i molti sono originati secondo il peccato dell’uno. Il peccato originale ed il giudizio che ne è venuto, vanno considerati secondo le categorie dell’essenza ( quando eravamo uno ), il dono e la grazia di Cristo secondo le categorie dell’esistenza ( quando siamo diventati i molti ). Il giudizio fu fatto nella nostra dimensione essenziale, la grazia è data nell’esistenza. Cosa ci rende certi che tutti eravamo in Adamo e che tutti abbiamo peccato in Eden? La reiterazione del delitto dalla dimensione essenziale a quella esistenziale. Non continueremmo a peccare  se il peccato svelasse la colpa di un altro, ma solo perché esso  manifesta la nostra colpa. Siamo peccatori non perché ereditiamo il peccato da Adamo sic e simpliciter, ma ereditiamo il peccato da Adamo perché abbiamo peccato con lui ed in lui. La colpa che in Eden appare  di uno solo, dopo Eden si manifesta di noi tutti. Intendi dunque: prima che il peccato di Adamo si riversi sui molti, è il peccato dei molti che si riversa sull’unico Adamo, provocando la sua morte. Ma come è assurdo pensare che Adamo avrebbe dovuto lamentarsi del peccato dei molti, perché mai i molti si lamentano e recriminano il peccato di Adamo: come se fosse una realtà a loro estranea, un’eredità imposta e non semplicemente meritata e dovuta? Quale inganno diabolico ci impedisce di riconoscere il peccato e la nostra colpa? Ma è la Bibbia stessa… mi dirai. Ognuno intende come vuol intendere e vede oltre il velo quel che vuol vedere. Beati i puri che confessano la loro colpa, guai agli immondi che perseverano nel gioco mortale di Adamo ed Eva, cercando attenuanti al proprio peccato e riversando su altri la propria colpa. Non siamo generati all’esistenza dal peccato di un altro, ma è proprio il nostro peccato che ci fa passare dalla dimensione dell’essenza a quella dell’esistenza, da Adamo, al dopo Adamo. Tutti siamo responsabili di un solo delitto, ma ad uno solo spetta il merito della salvezza dei molti. Se ereditiamo la salvezza per i meriti del solo Cristo, non si può dire che ereditiamo la morte per i demeriti del solo Adamo. La salvezza ci vede oggetti passivi del bene, la morte soggetti attivi del peccato. Il parallelismo tra Adamo e Cristo va inteso cum grano salis. Perché riconosciamo il peccato di noi tutti e la salvezza che viene dal solo Gesù . Perché confessiamo la nostra colpa e gioiamo nel Salvatore. Ma c’è chi continua a recriminare il peccato di Adamo, chi si sente vittima di una colpa che non gli appartiene e non vede e non comprende la grandezza del dono. Infelice quell’uomo: non conoscerà liberazione dal male, ma continuerà a vivere nella conoscenza del bene e del male, in un conflitto etico chiuso in se stesso, incapace di superare il male, perché incapace di accogliere colui che unico è bene. Certo il discorso di Paolo è velato: dice e non dice, spiega e non spiega. E non a caso. Ognuno comprende quel che gli è dato di capire e quel che vuole capire.

Adamo è semplicemente figura dell’umanità che ha peccato, non si può intendere come singolo se non per metterlo in relazione all’unico Salvatore. Come tutti moriamo in Adamo per colpa del solo Adamo, così tutti viviamo in Cristo in grazia del solo Cristo. Paolo crea quindi un parallelismo tra Adamo e Cristo. Due persone che procedono in parallelo sono poste sullo stesso piano ed alla stessa distanza. Le loro opere non si incontrano mai se non per coloro che sono presi in mezzo. E’ sottolineata la nostra vicinanza all’uno ed all’altro, in relazione a ciò che è in noi operato. Si può ricorrere ad un’immagine di questo tipo per evidenziare somiglianze ed analogie o al contrario per accentuare una diversità. Nell’immagine di Paolo la diversità prevale, rispetto ad ogni somiglianza. Se di somiglianza si può parlare è soltanto in un senso puramente formale, per fare risaltare ancor di più una sostanziale diversità. Come è diversa la morte dalla vita, così diversa è la caduta di Adamo dalla salvezza del Cristo. E la diversità è tutta nel superamento di quell’apparente parallelismo fra la colpa del solo Adamo e la grazia del solo Cristo. Perché in Adamo c’è la colpa dei molti che fanno morire l’uno, in Cristo c’è l’uno che dà vita ai molti. Non c’è quindi alcuna somiglianza tra Adamo e Cristo, se non nell’immagine iniziale dell’unico Adamo. Ma si tratta di un presupposto dato e non scontato che Paolo viene via via demolendo fino alla dimostrazione che non vi è alcuna analogia fra Adamo e Cristo. Non si può dire che come per la colpa del solo Adamo tutti moriamo, così in virtù del solo Cristo tutti viviamo; come se l’uomo nessuna parte e responsabilità avesse nella propria storia: il peccato lo eredita da Adamo, la salvezza da Cristo. Alla fine saremmo semplici spettatori della nostra storia, senza merito o colpa alcuna. Ben diversa è la conclusione che ne trae Paolo. In Adamo tutti abbiamo peccato. Non si può dire che lui ha peccato per tutti noi, perché in Adamo è presente l’umanità tutta e il peccato dell’uno altro non è che il peccato dei molti. In quanto al Cristo a ragione possiamo dire che Lui solo ha operato per la salvezza dei molti. Nessun merito da parte nostro per quanto concerne la salvezza, ma tutto il demerito ed ogni colpa per quanto concerne la caduta. Paolo fa proprio il linguaggio dell’immagine , ma solo per far risaltare la realtà e smascherare ogni falsa apparenza. Alla fine ogni parvenza di somiglianza cede il posto alla fondamentale diversità fra il peccato dei molti e la grazia del solo Cristo.

L’interpretazione più comunemente diffusa intende l’eredità del peccato di Adamo, secondo le categorie dell’eredità fisiologica e psicologica. Se ha peccato il nostro progenitore, il peccato si è da lui trasmesso ai suoi discendenti, come  un carattere genetico. In quest’ottica sembra irrilevante il fatto che noi paghiamo per una colpa che non abbiamo commesso. La grazia di Dio di tanto supera il peso del peccato d’origine che è giustificato un peccato che è semplicemente ereditato, senza alcuna colpa o complicità da parte nostra. A noi non piace una simile interpretazione e ci sembra che ci siano giustificati elementi per interpretare le parole di Paolo in senso diverso. Ma non vogliamo con ciò prevaricare rispetto al comune modo di intendere. Se a qualcuno piace spiegare nella linea della tradizione, quello che sta bene a lui sta bene anche a noi. In definitiva non è questo che importa. Che il peccato sia arrivato a noi per una nostra complicità in Adamo, o semplicemente perché da lui ereditato, nulla cambia. Ciò che importa è riconoscerlo nell’umile confessione. E non si confessa innanzitutto il peccato di Adamo, ma il nostro peccato in Adamo. Questa e solo questa è l’umile confessione  accetta a Dio. Non si gioca a scaricabarile perpetrando l’inganno di  Adamo ed Eva, ma dobbiamo riconoscere la nostra malvagità senza concederci attenuante alcuna. Muta diventi la lingua ingannatrice che esalta la bontà della natura umana. Sia innalzata fino al cielo la bocca che confessa la malvagità dei figli di Adamo e proclama la bontà e la giustizia  del Signore.

17 Se infatti per la caduta di uno solo la morte regnò a causa di uno solo, molto più i riceventi l’abbondanza della grazia e del dono della giustificazione, in vita regneranno a causa del solo Gesù Cristo.

Per la colpa di Adamo la morte ha instaurato il suo regno in noi tutti, ma molto di più coloro che accolgono la grazia ed il dono di Cristo vivranno in Lui solo. Intendi le parole dell’apostolo Paolo. Non c’è confronto tra il regno del Satana e quello di Dio. Il primo ha un inizio ed una fine, quello del Signore ha un inizio senza fine. L’uno nasce dalla perdita del dono, l’altro dall’abbondanza del dono. Quella vita che abbiamo perso per colpa nostra ci è ridata in Cristo, non semplicemente nella stessa misura, ma in un abbondanza che esclude qualsiasi possibilità di ritorno all’uomo vecchio. Perché ecco tutte le cose sono fatte nuove. Gesù non ha semplicemente restaurato il suo regno,  ne ha creato un altro ancora più bello e più grande.

18 Pertanto dunque come a causa di una sola colpa per tutti gli uomini essa fu a condanna, così anche a causa di un solo atto di giustizia per tutti gli uomini esso fu per giustificazione di vita. 19 Come infatti per la disobbedienza di un solo uomo peccatori sono stati costituiti i molti, così anche per l’obbedienza di uno solo giusti saranno costituiti i molti. 20 Legge poi sopraggiunse affinché abbondasse il peccato. Ma dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia, 21 affinché come regnò il peccato nella morte, così anche la grazia regni per mezzo della giustizia, per vita eterna, attraverso Gesù Cristo nostro Signore.

La caduta di uno solo ha instaurato il regno della morte per tutti quelli che ne sono nati. Se pur abbiamo il nome di vivi noi tutti che siamo generati in Adamo e da Adamo siamo morti.

Per colpa di uno solo la condanna si è riversata sui molti. E non poteva essere diversamente: perché il peccato portò con sé la morte di Adamo e la nascita dei molti. Come si poteva condannare colui che più non esisteva? La condanna è per coloro che sono generati dalla sua morte e con la sua morte, per tutti coloro che sono diventati figli suoi.

Adamo peccò in Eden, quando era uno solo, ma morì fuori di Eden, quando ormai era diventato uno dei molti. Altro è Adamo allorché pecca, altro è Adamo allorché viene condannato. Dapprima è figura del genere umano quando era in Eden ( i molti posti nell’uno ), poi diventa semplicemente il primo uomo che dalla dimensione essenziale passa in quella esistenziale, quando è cacciato fuori di Eden ( uno dei molti generati dal peccato,  il primo in senso temporale ).

19 Come infatti per la disobbedienza di un solo uomo peccatori sono stati costituiti i molti, così anche per l’obbedienza di uno solo giusti saranno costituiti i molti.

Per la disobbedienza del solo e dell’unico Adamo  i molti che erano in lui  sono stati costituiti peccatori, ovvero strutturati con quella forma spirituale che  essi stessi si sono dati… così anche per l’obbedienza di uno solo giusti saranno costituiti i molti.

Per l’obbedienza del solo Cristo i molti ( gli stessi molti che erano nell’uno ) saranno costituiti giusti.

20 Legge poi sopraggiunse affinché abbondasse il peccato. Ma dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia, 21 affinché come regnò il peccato nella morte, così anche la grazia regni per mezzo della giustizia per vita eterna attraverso Gesù Cristo nostro Signore.

Il significato primo ed ultimo della nostra storia va dunque ricercato in due momenti ed in due eventi fondamentali: da un lato la caduta dell’uno che si riversa sui molti, dall’altro la salvezza dell’Uno che ridona la vita ai molti. Ma allora che senso ha tutto ciò che si colloca nel tempo tra Adamo e Cristo? Se la storia conosce soltanto due eventi centrali, la caduta e la salvezza, come interpretare il tempo restante e soprattutto qual è il significato della rivelazione nel suo tempo intermedio? Come intendere la chiamata di Israele, il significato e l’importanza della Legge? Il discorso di Paolo non è di poco conto se consideriamo la centralità della Legge nella mentalità ebraica. Paolo non vuol rinnegare l’importanza ed il valore della legge, ma riconosce ad essa una centralità puramente temporale in rapporto ad Adamo ed in rapporto a Cristo. In rapporto ad Adamo la Legge mette unicamente in evidenza la gravità e la serietà del peccato originale, in rapporto a Cristo la Legge prepara la sua venuta, creando una coscienza di peccato senza la quale non può esserci desiderio e volontà di salvezza.

20 Legge poi sopraggiunse affinché abbondasse il peccato.

Intendi: non la Legge ha fatto sovrabbondare il peccato, ma l’abbondanza del peccato è stata manifestata dalla Legge. La Legge non crea il peccato, semplicemente lo fa apparire in tutta la sua gravità. E’ tolta ogni illusione di una naturale bontà dell’uomo offuscata dalle conseguenze ereditate dal peccato d’origine. Si eredita ciò che è stato di un altro, ma in quanto al peccato d’origine ereditiamo semplicemente quello che è nostro e quello che ci spetta di diritto. Il peccato dell’esistenza si colloca in una sorta di continuità omogenea rispetto al peccato dell’essenza. E’ la sua reiterazione nel tempo fino al colmo di ogni misura. In Genesi è descritto chiaramente questo aggravamento del peccato dell’uomo, che spinge Dio al pentimento ed al rammarico per averci creato. Per nostra fortuna c’è di mezzo il Cristo e la sua opera. Solo questo distoglie il Padre dalla sua ira e dal suo proposito di distruzione. Più avanti Paolo descriverà ampiamente il significato e l’importanza della Legge. L’accento è ora posto su una caduta che non si limita ad essere tale quale era all’origine, ma si viene aggravando sempre più nel tempo. Un peccato che ogni giorno si accresce dovrebbe portare con sé un senso di colpa sempre più grande. Ciò è vero soltanto quando l’uomo si confronta con il Creatore e con la sua Parola. Ma allorché l’uomo perde nella capacità e nella volontà di ascolto della Parola, si crea una dissociazione tra il suo peccato e la sua coscienza di peccato. Chi non ha più orecchi di ascolto non sente più la voce della coscienza: è troppo flebile e basta poco per soffocarla. Il Signore nella sua infinita misericordia è costretto ad intervenire in modo diverso. Poiché l’uomo non intende più la sua parola quale si avverte nel silenzio della coscienza individuale, manda una parola che arriva nel cuore dell’uomo, non dal suo interno, ma dal di fuori: una parola forte, chiara, indiscutibile, incisa su pietra; perché nessuno possa dire di non sentire e di non sapere. La Legge ci libera da una coscienza debole e fiacca: debole nella capacità di ascolto, fiacca nella volontà di accusare se stessa di peccato. Si impara presto a scusare se stessi; basta guardare i bambini. C’è bisogno di qualcuno e di qualcosa che ci riprenda in continuazione. Non ascolti la voce del Padre, ascolta almeno la sua parola, quale si manifesta nella Legge. Certo la voce è prima e molto più della Parola. Solo la voce è riflesso ed espressione immediata della persona. La Parola altro non è che una mediazione della voce: ha bisogno di un suono e di un segno.

Ma per coloro che non sentono più la voce di Dio, non c’è altra via di ritorno al Signore… fino a quando non arriva il Cristo, che ci ridona orecchi di ascolto. “Le mie pecore conoscono la mia voce”: non c’è bisogno  di tante parole. Ma con ciò siamo già all’epilogo della storia:  la Legge segna soltanto l’inizio.

Ma dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia, affinché come regnò il peccato nella morte, così anche la grazia regni per mezzo della giustizia per vita eterna attraverso Gesù Cristo nostro Signore.

Una coscienza estrema di peccato dovrebbe portarci alla disperazione; per grazia di Dio non è così.  Quanto più grande è la consapevolezza di peccato, tanto più grande è il dono di Dio. Abbonda il peccato nella tua vita? Sappi che la grazia del Signore sovrabbonda. Come il peccato di Adamo ha regnato in noi in una vita che è morte, così regni in noi la grazia che ci conduce alla vita eterna, per Gesù Cristo nostro Signore. Mi potresti dire che non sempre il senso di colpa apre i cuori alla fede ed all’amore di Dio. Non c’è senso di colpa che abbia il carisma della verità, se non quello che nasce dal confronto con Dio e con la sua Parola. Vi è anche una coscienza di peccato, chiusa in se stessa, non aperta al Signore, ma in comunione col Satana, da lui creata ed agita. E’ questa coscienza che porta Giuda al suicidio: non una qualsiasi coscienza di peccato conduce alla salvezza, ma soltanto quella che nasce e si alimenta dal confronto con la Parola.

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