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Perchè rimango nella chiesa
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- Categoria: J. Ratzinger
- Pubblicato Martedì, 18 Ottobre 2011 16:15
- Scritto da Cristoforo
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Perché rimango nella Chiesa-
frammento di un discorso tratto da
“ Perché siamo ancora nella chiesa” di Joseph Ratzinger, papa Benedetto XVI - Edizioni Rizzoli
Malgrado tutte le sue debolezze umane, è la Chiesa che ci dà Gesù Cristo e solo grazie a essa noi possiamo riceverlo come una realtà viva, potente, che mi sfida e mi arricchisce qui e ora. Henri de Lubac ha espresso così questa circostanza: “Coloro che accettano ancora Gesù pur rifiutando la Chiesa, non sanno che in ultima analisi è da questa che essi ricevono Cristo?... Gesù è per noi una persona viva; eppure senza la continuità visibile della sua Chiesa, sotto quale cumulo di sabbia non sarebbero stati sepolti non soltanto il suo nome e il suo ricordo, ma anche la sua influenza vitale, l’efficacia del Vangelo e della fede nella sua divina persona?... Senza la Chiesa Cristo dovrebbe darsi alla fuga, disgregarsi, scomparire”. E che cosa sarebbe l’umanità se si togliesse Cristo?”. Questa ammissione elementare deve essere posta all’inizio: per quanto ci sia o ci sia stata infedeltà nella Chiesa, per quanto sia vero che essa ha costantemente bisogno di misurarsi su Gesù Cristo, non vi è alcuna contrapposizione definitiva tra Cristo e la Chiesa. È attraverso la Chiesa che egli rimane vivo, superando la distanza della storia, ci parla oggi, ci è oggi vicino come nostro maestro e Signore, come nostro fratello che ci rende fratelli. Soltanto la Chiesa, dandoci Gesù Cristo, rendendolo vivo e presente nel mondo, facendolo rinascere continuamente nella fede e nelle preghiere degli uomini, dà all’umanità una luce, un sostegno e un criterio, senza i quali il mondo non sarebbe più concepibile. Chi vuole la presenza di Gesù Cristo nell’umanità, non la può trovare contro la Chiesa, ma solo in essa. In questo modo è chiarito anche il punto successivo. Io sono nella Chiesa per gli stessi motivi per i quali sono cristiano: poiché non si può credere da soli. Si può avere fede solo in comunione con gli altri. La fede è, per sua natura, una forza che unisce. Il suo archetipo è l’evento della Pentecoste, il miracolo di comprensione che accadde tra uomini che per provenienza e storia erano estranei gli uni agli altri. La fede o è ecclesiale o non esiste. Bisogna inoltre aggiungere che così come non è possibile credere da soli, ma soltanto in comunione con gli altri, nello stesso modo non è possibile credere per propria iniziativa o invenzione, ma solo se vengo reso capace di credere, il che non è in mio potere, non viene dalla mia forza, ma mi precede. Una fede che fosse una invenzione personale sarebbe una contraddizione in termini, poiché potrebbe garantirmi e dirmi solo ciò che io già sono oppure so, ma non potrebbe superare i limiti del mio io. Perciò anche una Chiesa, una comunità che si creasse da sola, che si fondasse solo sulla grazia propria, sarebbe una contraddizione in termini. La fede esige una comunità che abbia autorità e che sia superiore a me, non una mia creazione, che sia lo strumento dei miei stessi desideri. Tutto ciò si può formulare anche da un punto di vista più storico: o questo Gesù fu più che un uomo, con un potere assoluto superiore a un prodotto del proprio arbitrio, e quindi fu capace di tramandarsi attraverso i secoli; oppure egli non ebbe tale potere e non poté neppure lasciarlo in eredità. In questo ultimo caso sarei abbandonato alle mie personali ricostruzioni e quindi egli non sarebbe niente di più che una qualsiasi altra grande figura di fondatore, di cui si rinnova la presenza col pensiero. Ma se Egli è qualcosa di più, allora non dipende dalle mie ricostruzioni e anche oggi vale il potere che egli ha lasciato in eredità. Ma torniamo al punto precedente: si può essere cristiani solo nella Chiesa, non accanto a essa. E non temiamo di porci ancora una volta in piena obiettività una domanda alquanto patetica: che cosa sarebbe il mondo senza Cristo? Senza un Dio che parli e che conosca gli uomini, e che quindi possa essere conosciuto dall’uomo? Sappiamo molto bene qual è la risposta oggi, se il tentativo di creare un mondo simile viene praticato con tanta accanita ostinazione: un esperimento assurdo, senza criterio. Per quanto il cristianesimo possa aver fallito concretamente nella sua storia ( e lo ha fatto in modo sconcertante ), i criteri della giustizia e dell’amore sono tuttavia arrivati a noi, persino contro la nostra volontà, dal messaggio custodito in esso, spesso contro la Chiesa stessa, eppure mai senza la forza silenziosa di ciò che in essa è depositato. In altre parole: rimango nella Chiesa perché considero la fede, realizzabile solo in essa e comunque mai contro di essa, una necessità per l’uomo, anzi per il mondo, che vive di essa anche se non la condivide. Infatti dove non c’è più Dio – e un Dio che tace non è Dio – non c’è più nemmeno la verità che precede il mondo e l’uomo. E in un mondo senza verità non si può vivere a lungo; là dove si rinuncia alla verità, si continua a vivere in silenzio solo perché essa non si è ancora spenta, così come se si spegnesse il sole, la sua luce rimarrebbe ancora per qualche tempo e potrebbe ingannare sulla notte dei mondi, che in realtà sarebbe già cominciata. Si può esprimere lo stesso concetto ancora da un altro punto di vista: rimango nella Chiesa perché solo la fede della Chiesa redime l’uomo. Può sembrare un’affermazione molto tradizionale e dogmatica, ma è intesa in modo del tutto obiettivo e realistico. Nel nostro mondo di costrizioni e di frustrazioni il desiderio di redenzione è riemerso con una forza primordiale. Gli sforzi di Freud e di Jung non sono altro che tentativi di dare redenzione agli irredenti. Partendo da altre premesse, Marcuse, Adorno, Habermas continuano a loro modo a cercare e ad annunciare la redenzione. Sullo sfondo sta Marx e anche il suo è un problema di redenzione. Quanto più l’uomo diventa libero, illuminato, potente, tanto più lo tormenta il desiderio di redenzione, tanto più si ritrova non libero. Agli sforzi di Marx, di Freud, e Marcuse è comune la ricerca della redenzione, l’aspirazione a un mondo senza sofferenza, malattia e povertà. Un mondo libero dalla tirannia, dalla sofferenza, dall’ingiustizia è diventato il grande ideale della nostra generazione; a questa promessa mirano le ribellioni violente dei giovani, mentre il risentimento dei vecchi imperversa, perché essa non è ancora realizzata ed esistono ancora la tirannia, l’ingiustizia, la sofferenza. La lotta contro la sofferenza e l’ingiustizia nel mondo è in realtà un impulso assolutamente cristiano, ma l’idea che si possa creare un mondo senza dolore e il desiderio di ottenerlo subito con le riforme sociali, con l’abolizione del potere e dell’ordinamento giuridico sono un’eresia, una profonda incomprensione della natura dell’uomo. In questo mondo la sofferenza non deriva in verità solo dalla disparità di ricchezza e potere e la sofferenza non è l’unico fastidio di cui l’uomo dovrebbe liberarsi: chi lo pensa deve rifugiarsi nel mondo illusorio della droga, finendo solo per essere ancora più distrutto e in contrasto con la realtà. L’uomo ritrova se stesso, la propria verità, la propria gioia e felicità soltanto sopportando se stesso e liberandosi dalla tirannide del proprio egoismo. La crisi della nostra epoca dipende dal fatto che ci si vuole convincere che sia possibile diventare persona senza il dominio di se stessi, senza la pazienza della rinuncia e lo sforzo del superamento; che non è necessario il sacrificio di mantenere gli impegni presi né la fatica per soffrire con pazienza la tensione tra ciò che si dovrebbe essere e quello che si è in realtà. Un uomo che venga privato della fatica e condotto nel paese della cuccagna dei suoi sogni perde se stesso, smarrisce la sua vera natura. In realtà l’uomo non viene redento se non attraverso la croce, con l’accettazione della sofferenza di se stesso e del mondo, che insieme alla sofferenza di Dio è diventata il luogo del significato che libera. Solo così, in questa accettazione, l’uomo diventa libero. Tutte le altre offerte, più facili e comode, falliranno e si dimostreranno illusorie. La speranza del cristianesimo, l’occasione della fede dipende in ultima istanza molto semplicemente dal fatto che esso dice la verità. La chance della fede è la chance della verità, che può essere offuscata e calpestata, ma non può soccombere. Veniamo all’ultimo punto. Un uomo vede sempre soltanto nella misura in cui egli ama. Certo esiste anche la chiaroveggenza della negazione e dell’odio. Ma questi possono vedere solo ciò che è loro conforme: gli aspetti negativi. Possono così preservare l’amore da una cecità nella quale esso finge di non vedere i propri limiti e pericoli, ma non sono in grado di costruire. Senza una certa quantità d’amore non si trova nulla. Chi non si inoltra almeno per un po’ nell’esperimento della fede, chi non accetta di fare esperienza della Chiesa, chi non affronta il rischio di guardarla con gli occhi dell’amore, finisce soltanto per arrabbiarsi. Il rischio dell’amore è il presupposto per giungere alla fede. Chi lo ha osato, non ha bisogno di nascondersi nessuno dei lati oscuri della Chiesa, ma scopre che essa non si riduce di certo solo a questi, perché si accorge che accanto alla storia della Chiesa degli scandali, c’è anche quella della forza liberatrice della fede, che si è mantenuta feconda nei secoli in personaggi meravigliosi come Agostino, Francesco d’Assisi, il domenicano Las Casas con la sua appassionata battaglia per gli indios, Vincenzo de’ Paoli, Giovanni XXIII. Chi affronta questo rischio trova che la Chiesa ha proiettato nella storia un fascio di luce tale da non poter essere ignorato. Anche l’arte che è nata sotto l’impulso del suo messaggio, e che ancora oggi ci si mostra in opere impareggiabili, diventa una testimonianza di verità: ciò che è stato in grado di esprimersi a simili livelli non può essere soltanto tenebre. La bellezza delle grandi cattedrali, la bellezza della musica che si è sviluppata nell’ambito della fede, la dignità della liturgia della Chiesa, la stessa realtà della festa, che non si può fare da soli ma si può solo accogliere, il ciclo dell’anno liturgico, nel quale convivono l’ieri e l’oggi, il tempo e l’eternità – tutto questo non è a mio avviso un’insignificante casualità. La bellezza è lo splendore del vero, ha detto Tommaso d’Aquino, e l’offesa del bello è l’autoironia della verità perduta – si potrebbe aggiungere.
Le espressioni nelle quali la fede è stata in grado di tradursi nella storia sono testimonianza della verità che è in essa. Non vorrei tralasciare un’ulteriore osservazione, anche se può sembrare che indulga molto nel soggettivo. Se si tengono aperti gli occhi, anche oggi è possibile di certo incontrare persone che sono testimonianza vivente della forza liberatrice della fede cristiana. E non è una vergogna essere e rimanere cristiani anche grazie a questi uomini che, dandoci esempio di un cristianesimo autentico, con le loro vite lo hanno reso ai nostri occhi degno di amore e di fede. In fin dei conti l’uomo si illude quando vuole fare di sé una sorta di soggetto trascendentale, che considera valido solo ciò che non è casuale. È certamente doveroso riflettere su tali esperienze, esaminare il loro grado di responsabilità, purificarle e dar loro un nuovo contenuto. Ma anche in questo necessario processo di oggettivazione non risulta forse come una prova rilevante a favore del cristianesimo il fatto che esso renda gli uomini più umani, legandoli a Dio? L’elemento più soggettivo non è qui anche un dato del tutto soggettivo, del quale non dobbiamo più vergognarci di fronte a nessuno? Ancora un’osservazione in chiusura. Quando, come abbiamo fatto qui, si afferma che senza l’amore non si può vedere nulla e che quindi si deve amare anche la Chiesa, per poterla riconoscere, oggi molti diventano inquieti. L’amore non è forse il contrario della critica? E non è in fondo il pretesto dei potenti che vogliono eliminare la critica e vogliono mantenere lo status quo a loro favore? Si giova di più agli uomini tranquillizzandoli e abbellendo la realtà, oppure intervenendo in loro favore continuamente contro la perdurante ingiustizia e contro l’oppressione delle strutture? Si tratta di questioni molte ampie, che non possono essere indagate qui nello specifico. Ma una cosa dovrebbe essere ben chiara: il vero amore non è né statico né acritico. L’unica possibilità di cambiare in positivo un altro uomo è quella di amarlo e aiutarlo quindi a cambiare lentamente, da ciò che egli è a ciò che egli può essere. Lo stesso vale per la Chiesa. Guardiamo alla storia più recente: nel rinnovamento liturgico e teologico della prima metà di questo secolo è maturato un vero movimento di riforma, che ha portato cambiamenti positivi. Ciò fu possibile soltanto perché vi furono uomini che amarono la Chiesa in modo vigile, con spirito “critico”, e furono pronti a soffrire per essa. Se oggi non riusciamo più in nulla, è solo perché tutti siamo troppo preoccupati di affermare solo noi stessi. Rimanere in una Chiesa che avesse bisogno di essere fatta da noi per diventare degna di essere abitata non ha senso; è una contraddizione in termini. Rimanere nella Chiesa perché essa è in sé degna di rimanere nel mondo; perché essa è in sé degna di essere amata e di un amore che la porti sempre a trasformarsi di nuovo in ciò che deve essere veramente – questo è il cammino che anche oggi viene indicato dalla responsabilità della fede.
Padre nostro
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- Pubblicato Martedì, 18 Ottobre 2011 16:14
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Benedetto XVI
da Gesù di Nazareth
Commento al Padre nostro
Il Padre nostro ci è stato tramandato da Luca in una forma più breve, da Matteo nella forma accolta dalla Chiesa e utilizzata nella sua preghiera.
Il dibattito su quale testo sia più vicino all’origine non è superfluo, ma nemmeno decisivo. Nell’una come nell’altra redazione noi preghiamo insieme con Gesù e siamo grati che nella forma matteana delle sette domande si presenti chiaramente sviluppato ciò che in Luca sembra in parte solo accennato.
Prima di addentrarci nell’interpretazione delle singole parti, vediamo ora brevemente la struttura del Padre nostro, così come ci è stata tramandata da Matteo.
Consiste di un’invocazione iniziale e sette domande. Tre di queste sono alla seconda persona singolare, quattro alla prima persona plurale. Le prime tre domande riguardano la causa stessa di Dio in questo mondo; le quattro che seguono riguardano le nostre speranze, i nostri bisogni e le nostre difficoltà.
Si potrebbe paragonare la relazione tra i due tipi di domande del Padre nostro con quella tra le due tavole del Decalogo che, in fondo, sono spiegazioni delle due parti del comandamento principale – l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo -, parole guida nella via dell’amore.
Così anche nel Padre nostro viene affermato dapprima il primato di Dio, dal quale deriva da sé la preoccupazione per il retto modo di essere uomo. Anche qui si tratta innanzitutto della via dell’amore, che è allo stesso tempo una via di conversione.
Perché l’uomo possa chiedere nel modo giusto, deve essere nella verità. E la verità è: “prima Dio, il regno di Dio” ( cfr. Mt 6,33 ).
Dobbiamo innanzitutto uscire da noi stessi e aprirci a Dio. Niente può diventare retto, se noi non stiamo nel retto ordine con Dio.
Perciò il Padre nostro comincia con Dio e, a partire da Lui, ci conduce sulle vie dell’essere uomini. Alla fine scendiamo sino all’ultima minaccia per l’uomo, dietro cui si apposta il Maligno – può affiorare in noi l’immagine del drago apocalittico che fa guerra agli uomini “che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù”. ( Ap. 12,17 ).
Ma sempre resta presente l’inizio “Padre nostro” – sappiamo che egli è con noi, ci tiene nella sua mano, ci salva…
Possano entrambi i cammini quello ascendente e quello discendente, ricordarci che il Padre nostro è sempre una preghiera di Gesù e che essa si dischiude a partire dalla comunione con Lui.
Noi preghiamo il Padre celeste, che conosciamo attraverso il Figlio; e così sullo sfondo delle domande c’è sempre Gesù, come vedremo nelle singole spiegazioni.
Infine, poiché il Padre nostro è una preghiera di Gesù, è una preghiera trinitaria: con Cristo mediante lo Spirito Santo preghiamo il Padre.
Padre nostro nei cieli
Iniziamo con l’invocazione “Padre”.
Nella sua interpretazione del Padre nostro Reinhold Schneider scrive a questo proposito: “Il Padre nostro inizia con una grande consolazione; noi possiamo dire Padre. In questa sola parola è racchiusa l’intera storia della redenzione.
Possiamo dire Padre, perché il Figlio era nostro fratello e ci ha rivelato il Padre; perché per opera di Cristo siamo tornati ad essere figli di Dio”. L’uomo di oggi, però, non avverte immediatamente la grande consolazione della parola “padre”, poiché l’esperienza del padre è spesso o del tutto assente o offuscata dall’insufficienza dei padri. Così dobbiamo imparare a partire da Gesù, innanzitutto che cosa “padre” propriamente significhi. Nei discorsi di Gesù il Padre appare come la fonte di ogni bene, come il criterio di misura dell’uomo divenuto retto ( “perfetto” ): “Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni…” ( Mt 5,44 s ).
“L’amore sino alla fine” ( cfr Gv 13,1 ), che il Signore ha portato a compimento sulla croce pregando per i suoi nemici, ci mostra la natura del padre: Egli è questo amore.
Poiché Gesù lo pratica, Egli è totalmente “figlio” e ci invita a diventare a nostra volta “figli” – a partire da questo criterio.
Prendiamo ancora un altro testo. Il Signore ricorda che i padri non danno una pietra ai loro figli che chiedono un pane e continua:
“Se voi, dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!” ( Mt 7,9 ss ).
Luca specifica le “cose buone” che dà il Padre dicendo: “Quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono! ( Lc 11,13 ). Ciò vuol dire: il dono di Dio è Dio stesso. La “cosa buona” che Egli ci dona è Lui stesso.
A questo punto diviene sorprendentemente palese che cosa è in gioco quando si prega: non si tratta di questo o di quello, ma di Dio che vuole donarsi a noi – questo è il dono dei doni, la “sola cosa di cui c’è bisogno” ( cfr Lc 10,42 ).
La preghiera è una via per purificare a poco a poco i nostri desideri, correggerli e conoscere pian piano di che cosa abbiamo veramente bisogno: di Dio e del suo Spirito.
Quando il Signore insegna a conoscere la natura di Dio Padre a partire dall’amore per i nemici e a trovare in ciò la propria “perfezione” così da diventare noi stessi figli, allora la relazione tra Padre e Figlio è perfettamente manifesta. Allora diventa evidente che nello specchio della figura di Gesù noi conosciamo chi è e come è Dio: attraverso il Figlio troviamo il Padre.
“Chi ha visto me ha visto il Padre”, dice Gesù nel cenacolo a Filippo in risposta alla sua richiesta: “Mostraci il Padre” ( Gv 14,8s ).
“Signore, mostraci il Padre”, ripetiamo in continuazione a Gesù e la risposta, sempre di nuovo, è il Figlio: attraverso di Lui, solo attraverso di Lui impariamo a conoscere il Padre.
E così diventa poi evidente il criterio della vera paternità.
Il Padre nostro non proietta un’immagine umana nel cielo, ma a partire dal cielo – da Gesù – ci mostra come dovremmo e come possiamo diventare uomini.
Ora, però, dobbiamo guardare ancora meglio, per renderci conto che, secondo il messaggio di Gesù, in Dio l’essere Padre presenta per noi due dimensioni. Dio è innanzitutto nostro Padre in quanto è nostro Creatore. Poiché Egli ci ha creato, noi apparteniamo a Lui: l’essere come tale viene da Lui e perciò è buono, è partecipazione di Dio. Ciò vale per l’uomo in modo tutto particolare.
Il salmo 33,15, secondo la traduzione latina dice: “Egli che ha plasmato i cuori di tutti… fa attenzione a tutte le loro opere”.
Il pensiero che Dio ha creato ogni singolo essere umano fa parte dell’immagine biblica dell’uomo. Ogni uomo, individualmente e come tale, è voluto da Dio. Egli conosce ciascuno singolarmente. In questo senso, già in virtù della creazione l’essere umano è in modo speciale “figlio” di Dio, Dio è il suo vero Padre: che l’uomo sia immagine di Dio è un altro modo di esprimere questo pensiero.
Questo ci conduce alla seconda dimensione della paternità di Dio. Cristo è in modo unico “immagine di Dio” ( cfr. 2 Cor 4,4; Col 1,15 ). In base a ciò i Padri della chiesa dicono che Dio, quando creò l’uomo “a sua immagine”, guardò in anticipo a Cristo e creò l’uomo a immagine del “nuovo Adamo”, dell’Uomo che è il canone dell’umanità.
Soprattutto, però, Gesù è “il Figlio” in senso proprio – è della stessa sostanza del Padre. Egli vuole accoglierci tutti nel suo essere uomo e così nel suo essere Figlio, nella piena appartenenza a Dio. Così la filiazione è divenuta un concetto dinamico: noi non siamo già in modo compiuto figli di Dio, ma dobbiamo diventarlo ed esserlo sempre di più mediante una nostra sempre più profonda comunione con Gesù. Essere figli diventa l’equivalente di seguire Cristo. La parola che qualifica Dio come Padre diviene così un appello per noi: a vivere come “figlio” e “figlia”.
“Tutte le cose mie sono tue”, dice Gesù al Padre nella preghiera sacerdotale ( Gv 17,10 ), e la stessa cosa ha detto il padre al fratello maggiore del figlio prodigo ( cfr. Lc 15,31 ).
La parola “Padre” ci invita a vivere sulla base di questa consapevolezza. Così viene superata anche la smania della falsa emancipazione che stava all’ inizio della storia del peccato dell’umanità. Adamo, infatti, sulla parola del serpente, vuole essere lui stesso dio e non avere più bisogno di Dio. Diviene evidente che “essere figli” non significa dipendenza, ma quel rimanere nella relazione di amore che sostiene l’esistenza umana, le dà senso e grandezza.
Rimane infine ancora la domanda: Dio non è anche madre? Il paragone dell’amore di Dio con l’amore di una madre esiste: “Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò” ( Is 66,13 ).
“Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai” ( Is 49,15 ). In modo particolarmente toccante appare il mistero dell’amore materno di Dio nella parola ebraica “rahamim”, che originariamente significa “grembo materno”, ma poi diventa il termine per il con-patire di Dio con l’uomo, per la misericordia di Dio. Nell’Antico Testamento, organi del corpo umano vengono spesso impiegati per indicare atteggiamenti fondamentali dell’uomo o anche i sentimenti di Dio, così come “cuore” o “cervello” sono ancor oggi impiegati per esprimere qualche aspetto della nostra esistenza. In questo modo l’Antico Testamento illustra gli atteggiamenti fondamentali dell’esistenza non con termini astratti, ma con il linguaggio di immagini tratte dal corpo.
Il grembo materno è l’espressione più concreta dell’intimo intreccio di due esistenze e delle attenzioni verso la creatura debole e dipendente che, in corpo ed anima, è totalmente custodita nel grembo della madre.
Il linguaggio figurato del corpo ci offre così una comprensione dei sentimenti di Dio per l’uomo più profonda di quanto permetterebbe un qualsiasi linguaggio concettuale.
Se nel linguaggio plasmato a partire dalla corporeità dell’uomo l’amore della madre appare inscritto nell’immagine di Dio, è tuttavia vero che Dio non viene mai qualificato né invocato come madre, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento.
“Madre” nella Bibbia è un’immagine ma non un titolo di Dio. Perché? Solo a tastoni possiamo cercare di comprenderlo. Naturalmente Dio non è né uomo né donna, ma appunto Dio, il Creatore dell’uomo e della donna. Le divinità –madri, che circondavano il popolo d’Israele come anche la chiesa del Nuovo Testamento, mostravano un’immagine del rapporto tra dio e mondo decisamente antitetica rispetto all’immagine biblica di Dio. Esse includevano sempre e forse inevitabilmente concezioni panteistiche, nelle quali la differenza tra Creatore e creatura scompariva. Partendo da questo presupposto, l’essere delle cose e degli uomini appare necessariamente come un’emanazione dal grembo materno dell’Essere che, entrando nella dimensione del tempo, si concretizza nella molteplicità delle realtà esistenti.
Al contrario, l’immagine del padre era ed è adatta a esprimere l’alterità tra Creatore e creatura, la sovranità del suo atto creativo. Solo mediante l’esclusione delle divinità-madri l’Antico Testamento poteva portare a maturità la sua immagine di Dio, la pura trascendenza di Dio. Ma anche se non possiamo dare delle ragioni assolutamente cogenti, resta per noi normativo il linguaggio della preghiera di tutta la Bibbia, nella quale, come detto or ora, nonostante le grandi metafore dell’amore materno, “madre” non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sulla sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace.
Solo così preghiamo nel modo giusto.
Da ultimo dobbiamo ancora riflettere sulla parola “nostro”. Solo Gesù poteva dire “Padre mio” a pieno diritto, perché solo Lui è davvero il Figlio unigenito di Dio, della stessa sostanza del Padre. Noi tutti dobbiamo invece dire:
“Padre nostro”. Solo nel “noi” dei discepoli possiamo dire “Padre” a Dio, perché solo mediante la comunione con Gesù Cristo diventiamo veramente “figli di Dio”.
Così questa parola “nostro” è decisamente impegnativa: ci chiede di uscire dal recinto chiuso del nostro “io”. Ci chiede di abbandonare ciò che è soltanto nostro, ciò che separa. Ci chiede di accogliere l’altro, gli altri – di aprire a loro il nostro orecchio, il nostro cuore. Con questa parola “nostro” diciamo “sì” alla Chiesa vivente, nella quale il Signore ha voluto raccogliere la sua nuova famiglia.
Così il Padre nostro è una preghiera molto personale e insieme pienamente ecclesiale. Nel recitare il Padre nostro noi preghiamo totalmente col nostro cuore, ma preghiamo allo stesso tempo in comunione con l’intera famiglia di Dio, con i vivi e con i defunti, con gli uomini di ogni estrazione sociale, di ogni cultura, di ogni razza.
Il Padre nostro fa di noi una famiglia al di là di ogni confine.
A partire da questo “nostro” comprendiamo ora anche l’ulteriore aggiunta: “che sei nei cieli”.
Con queste parole noi non collochiamo Dio, il Padre, su un qualche astro lontano, ma affermiamo che noi, pur avendo padri terreni diversi, proveniamo tutti da un unico Padre, che è misura e origine di ogni paternità. “Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome”, dice san Paolo ( Ef 3,14s ). Sullo sfondo udiamo la parola del Signore: “Non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo” ( Mt 23,9 ).
La paternità di Dio, è più reale della paternità umana, perché ultimamente il nostro essere lo abbiamo da Lui; perché Egli ci ha pensati e voluti fin dall’eternità; perché è Lui che ci dona l’autentica casa del Padre, quella eterna. E se la paternità terrena separa, quella celeste unisce: cielo significa dunque quell’altra altezza di Dio, dalla quale tutti noi veniamo e verso la quale tutti noi dobbiamo essere in cammino.
La paternità “nei cieli” ci rimanda a quel “noi” più grande che oltrepassa ogni frontiera, abbatte tutti i muri e crea la pace.
Sia santificato il tuo nome
La prima domanda del Padre nostro ci ricorda il secondo comandamento del Decalogo: “Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio” ( Es 20,7; cfr Dt 5,11).
Ma che cos’è “il nome di Dio “? Quando ne parliamo, ci torna in mente l’immagine di Mosè, che nel deserto vede un roveto che arde, ma non si consuma. In un primo momento, spinto dalla curiosità, si avvicina per vedere questo avvenimento misterioso quand’ecco che dal roveto, una voce lo chiama, e questa voce gli dice: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” ( Es 3,6 ).
Questo Dio lo rimanda in Egitto con l’incarico di condurre fuori dall’Egitto il popolo d’Israele e guidarlo nella terra promessa. Nel nome di Dio, Mosè dovrà chiedere al faraone la liberazione di Israele. Ma nel mondo di allora c’erano molti déi; così Mosè chiede a Dio il suo nome, il nome con il quale questo Dio dimostra la sua particolare autorità di fronte agli altri dei. L’idea del nome di Dio appartiene quindi inizialmente al mondo politeistico; in esso anche questo Dio deve darsi un nome. Ma il Dio che chiama Mosè è veramente Dio. Dio nel senso vero e proprio non esiste nella pluralità. Dio è per sua natura uno solo. Per questo non può entrare nel mondo degli déi come uno dei tanti, non può avere un nome di mezzo agli altri nomi.
Così la risposta di Dio è insieme rifiuto e assenso. Egli dice di sé semplicemente: “Io sono colui che sono” – Egli è, e basta.
Questa affermazione è insieme nome e non-nome. Perciò era assolutamente corretto che in Israele non si pronunciasse questa auto definizione di Dio percepita nella parola YHWH; che non la si degradasse a una specie di nome idolatrico.
E pertanto non è corretto che nelle nuove traduzioni della Bibbia si scriva come un qualsiasi nome questo nome per Israele sempre misterioso e impronunciabile, riducendo così il mistero di Dio, del quale non esistono né immagini né nomi pronunciabili, all’ordinarietà di una comune storia delle religioni.
Resta però vero che Dio non ha semplicemente rifiutato la richiesta di Mosè, e per comprendere questo strano intreccio di nome e non-nome dobbiamo renderci conto di che cos’è veramente un nome. Potremmo dire in modo molto semplice: il nome crea la possibilità dell’invocazione, della chiamata. Stabilisce una relazione. Se Adamo dà un nome agli animali, ciò non significa che egli esprima la loro natura, ma che li integra nel suo mondo umano, li mette nella condizione di poter essere chiamati da lui. Da lì capiamo ora che cosa, positivamente sia inteso col nome di Dio: Dio stabilisce una relazione tra sé e noi. Si rende invocabile. Egli entra in rapporto con noi e ci dà la possibilità di stare in rapporto con Lui. Ma ciò significa: Egli si consegna in qualche modo al nostro mondo umano.
È divenuto accessibile e perciò anche vulnerabile. Affronta il rischio della relazione, dell’essere con noi.
Ciò che giunge a compimento nell’incarnazione ha avuto inizio con la consegna del nome. Di fatto vedremo nella riflessione sulla preghiera sacerdotale di Gesù che Egli lì si presenta come il nuovo Mosè: “Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini…” ( Gv 17,6 ).
Ciò che ebbe inizio presso il roveto ardente nel deserto di Sinai si compie presso il roveto ardente della croce. Dio ora è davvero divenuto accessibile nel suo Figlio fatto uomo. Egli fa parte del nostro mondo, si è consegnato, per così dire, nelle nostre mani.
Da qui comprendiamo che cosa significhi la richiesta della santificazione del nome di Dio. Ora del nome di Dio si può abusare e così macchiare Dio stesso.
Possiamo impadronirci del nome di Dio per i nostri scopi e deturpare così l’immagine di Dio. Quanto più Egli si consegna nelle nostre mani, tanto più noi possiamo oscurare la sua luce ; quanto più noi possiamo oscurare la sua luce; quanto più Egli è vicino, tanto più il nostro abuso può renderlo irriconoscibile.
Martin Buber ha detto una volta che con tutto l’infame abuso fatto del nome di Dio potremmo perdere il coraggio di pronunciarlo. Ma tacerlo sarebbe ancor più un rifiuto del suo amore che ci viene incontro. Buber dice che potremmo quindi solo con profondo rispetto raccogliere di nuovo i frammenti del nome imbrattato e cercare di purificarli. Ma da soli non ne siamo affatto capaci. Possiamo soltanto implorare Lui stesso che non lasci annientare la luce del suo nome in questo mondo.
E questa supplica affinché Egli stesso si prenda cura della santificazione del suo nome, protegga il meraviglioso mistero della sua accessibilità da parte nostra e, sempre di nuovo, esca dalla sua vera identità dalla deformazione causata da noi – questa supplica, tuttavia, costituisce sempre per noi anche un gran esame di coscienza: come tratto io il santo nome di Dio?
Sto con timore reverenziale davanti al mistero del roveto ardente, davanti all’incomprensibile modalità della sua vicinanza fino alla presenza nell’Eucaristia, nella quale Egli si consegna davvero totalmente nelle nostre mani? Mi preoccupo che la santa coabitazione di Dio con noi non trascini Lui nel sudiciume, ma elevi noi nella sua purezza e santità?
Venga il tuo regno
Riflettendo sulla domanda relativa al regno di Dio ci torneranno in mente tutte le considerazioni che abbiamo fatto in precedenza sull’espressione “regno di Dio”.
Con questa domanda riconosciamo anzitutto il primato di Dio: dove Lui non c’è, niente può essere buono. Dove non si vede Dio, decade l’uomo e decade il mondo. E’ in questo senso che il Signore ci dice: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” ( Mt 6,33 ).
Con questa parola viene stabilito un ordine di priorità per l’agire umano, per il nostro atteggiamento nella vita di tutti i giorni.
Non ci viene affatto promesso un paese della cuccagna per il caso che si sia pii o in qualche modo desiderosi del regno di Dio.
Non viene prospettato alcun automatismo di un mondo funzionante come quello proposto nell’utopia della società senza classi, nella quale tutto dovrebbe andar bene da sé, solo perché non esiste la proprietà privata. Gesù non ci offre ricette così facili. Stabilisce piuttosto – come detto – una priorità decisiva per tutto: “regno di Dio” vuol dire “signoria di Dio” e ciò significa che la sua volontà è assunta come criterio.
Questa volontà crea giustizia, nella quale è insito che noi riconosciamo a Dio il suo diritto e in ciò troviamo il criterio su cui misurare il diritto tra gli uomini.
L’ordine delle priorità che Gesù qui ci indica può ricordarci la narrazione veterotestamentaria circa la prima preghiera di Salomone dopo la sua intronizzazione. Lì si racconta che il Signore di notte apparve in sogno al giovane re e gli concesse di porgli una richiesta per la quale gli assicurava l’esaudimento.
Un classico tema dei sogni dell’umanità!
Che cosa chiede Salomone? “Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male. E perciò Salomone ottiene poi anche il resto in aggiunta. Con la domanda “venga il tuo regno” ( non il nostro ! ) il Signore vuole condurci proprio a questo modo di pregare e di stabilire le priorità del nostro agire. La prima cosa, quella essenziale, è il cuore docile, perché sia Dio a regnare e non noi.
Il regno di Dio viene attraverso il cuore docile. Questa è la sua via. E per questo noi dobbiamo pregare sempre.
A partire dall’incontro con Cristo questa domanda assume una valenza ancora più profonda, diventa ancora più concreta.
Abbiamo visto che Gesù è il regno di Dio in persona; dove è Lui, là è “regno di Dio”. Così la domanda per avere il cuore docile è divenuta la domanda per la comunione con Gesù Cristo, la domanda di poter diventare sempre di più “uno” con Lui ( cfr Gal 3,28 ). E’ la domanda per la vera sequela, che diventa comunione e ci rende un solo corpo con Lui.
Reinhold Schneider lo ha espresso in modo penetrante: “La vita di questo regno è la prosecuzione della vita di Cristo nei suoi; nel cuore che non viene più alimentato dalla forza vitale di Cristo, il regno finisce; nel cuore che da essa viene toccato e trasformato, comincia… Le radici dell’albero inestirpabile cercano di penetrare in ogni cuore. Il regno è uno; sussiste soltanto mediante il Signore che è la sua vita, la sua forza, il suo centro…” ( p.31 s ). Pregare per il regno di Dio significa dire a Gesù: Facci essere tuoi, Signore! Pervadici, vivi in noi; raccogli nel tuo corpo l’umanità dispersa, affinché in te tutto venga sottomesso a Dio e tu poi possa consegnare l’universo al Padre, cosicché “Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15,26-28 ).
Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra
Dalle parole di questa domanda si rendono immediatamente evidenti due cose: c’è una volontà di Dio con noi e per noi che deve diventare il criterio del nostro volere e del nostro essere.
E ancora: la caratteristica del “cielo” è che lì immancabilmente viene fatta la volontà di Dio, o con altre parole: dove si fa la volontà di Dio, è cielo.
L’essenza del cielo è l’essere una cosa sola con la volontà del Dio, l’unione tra volontà e verità. La terra diventa “cielo”, se e in quanto in essa vien fatta la volontà di Dio, mentre è solo “terra”, polo opposto al cielo, se e in quanto essa si sottrae alla volontà di Dio.
Perciò noi chiediamo che le cose in terra vadano come in cielo, che la terra diventi “cielo”.
Ma cosa significa “volontà di Dio” ? Come la riconosciamo? Come possiamo adempierla? Le Sacre Scritture partono dal presupposto che l’uomo nel suo intimo sappia la volontà di Dio, che esista una comunione di sapere con Dio, profondamente iscritta in noi, che chiamiamo coscienza ( cfr., per es., Rm 2,15 ).
Ma esse sanno anche che questa comunione di sapere con il Creatore, che Egli stesso ci ha dato creandoci “a sua somiglianza”, è stata sepolta nel corso della storia – mai estinguibile totalmente, essa tuttavia è stata ricoperta in molti modi; una fiamma debolmente guizzante, che troppo spesso rischia di essere soffocata sotto la cenere di tutti i pregiudizi immessi in noi. E per questo Dio ci ha parlato nuovamente, con parole nella storia che si rivolgono a noi dall’esterno e danno un aiuto al nostro sapere interiore ormai troppo velato.
Il nucleo di queste “lezioni sussidiarie” della storia, nella rivelazione biblica, è il Decalogo del monte Sinai che – come abbiamo visto – dal Discorso della montagna non viene per nulla abolito o reso una “legge vecchia” ma, sviluppato ulteriormente, risplende ancora più chiaramente in tutta la sua profondità e grandezza.
Questa Parola – l’abbiamo visto – non è una cosa che all’uomo viene imposta dall’esterno. Essa è – nella misura in cui siamo capaci di riceverla – rivelazione della natura di Dio stesso e con ciò spiegazione della verità del nostro essere: ci viene svelato lo spartito della nostra esistenza, di modo che possiamo leggerlo e tradurlo nella vita. La volontà di Dio deriva dall’essere di Dio e ci introduce quindi nella verità del nostro essere, ci libera dall’autodistruzione mediante la menzogna.
Poiché il nostro essere proviene da Dio, possiamo, nonostante tutte le sozzure che ci ostacolano, metterci in cammino verso la volontà di Dio. Il concetto veterotestamentario di “giusto” significava proprio questo: vivere della parola di Dio e così della volontà di Dio ed entrare progressivamente in sintonia con questa volontà.
Ma quando Gesù ci parla della volontà di Dio e del cielo, in cui si compie la volontà di Dio, questo ha di nuovo a che fare in modo centrale con la sua missione personale. Presso il pozzo di Giacobbe Egli dice ai discepoli che gli portano da mangiare: “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato” ( Gv 4,34 ).
Ciò significa: essere una cosa sola con la volontà del Padre è la fonte della vita di Gesù. L’unità di volontà col Padre è il nocciolo del suo essere in assoluto. Nella domanda del Padre nostro avvertiamo, però, sullo sfondo soprattutto l’appassionata lotta interiore di Gesù durante il suo dialogo nell’Orto degli ulivi: “Padre mio , se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” – “Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà” ( Mt 26,39.42 ).
Di questa preghiera di Gesù, nella quale Egli ci permette di guardare nella sua anima umana e nel suo diventare “una” con la volontà di Dio, dovremo occuparci ancora in modo particolare quando rifletteremo sulla passione di Gesù.
L’autore della Lettera agli Ebrei ha individuato nella lotta interiore dell’Orto degli ulivi lo svelamento del centro del mistero di Gesù ( cfr. 5,7 ) e – partendo da questo sguardo nell’anima di Gesù – ha interpretato questo mistero con il Salmo 40. Egli legge il Salmo così: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato… Allora ho detto: ecco io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà” ( Eb 10,5 ss; cfr sal 40, 7-9 ).
L’intera esistenza di Gesù è riassunta nella parola: “Ecco io vengo, per fare la tua volontà”. Solo così comprendiamo pienamente la parola: “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato”.
E a partire di là comprendiamo ora che Gesù stesso è il “cielo” nel senso più profondo e più autentico – Egli, nel quale e mediante il quale la volontà di Dio vien fatta pienamente.
Guardando a Lui impariamo che, di nostro, noi non possiamo mai essere pienamente “giusti”: la forza di gravità della nostra volontà ci trascina sempre di nuovo lontano dalla volontà di Dio, ci fa diventare semplice “terra”. Egli invece ci accoglie, ci attrae in alto verso di sé, e nella comunione con Lui apprendiamo anche la volontà di Dio. Così, in questa terza domanda del Padre nostro, chiediamo ultimamente di avvicinarci sempre di più a Lui affinché la volontà di Dio vinca la forza di gravità del nostro egoismo e ci faccia capaci dell’altezza alla quale siamo chiamati.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
La quarta domanda del Padre nostro ci appare come la più “umana” di tutte: il Signore che orienta il nostro sguardo su ciò che è essenziale, sull’ “unica cosa necessaria”, sa però anche delle nostre necessità terrene e le riconosce. Egli, che ai suoi discepoli dice: “Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete” ( Mt 6,25 ), ci invita tuttavia a pregare per il nostro cibo e a trasmettere così la nostra preoccupazione a Dio. Il pane è “frutto della terra e del lavoro dell’uomo”, ma la terra non porta alcun frutto, se non riceve dall’alto sole e pioggia. Questa sinergia delle forze cosmiche, che non è stata consegnata nelle nostre mani, si contrappone alla tentazione della nostra superbia di darci la vita da soli e con le sole nostre capacità.
Tale superbia rende violenti e freddi. Finisce per distruggere la terra; non può essere altrimenti, perché contrasta con la verità, che cioè noi esseri umani siamo destinati a superarci, e che solo nell’apertura a Dio diventiamo grandi, liberi e noi stessi.
Possiamo chiedere e dobbiamo chiedere. Lo sappiamo: se già i padri terreni danno cose buone ai figli quando le chiedono, così Dio non ci rifiuterà i beni che solo Lui può donare ( cfr. Lc 11,9-13 ).
Nella sua interpretazione della preghiera del Signore, san Cipriano richiama l’attenzione su due aspetti importanti della domanda. Come già nell’invocazione “Padre nostro” aveva sottolineato la parola “nostro” nel suo ampio significato, così anche qui pone in risalto che si parla del pane “nostro”.
Anche qui preghiamo nella comunione dei discepoli, nella comunione dei figli di Dio, e pertanto nessuno può pensare solo a se stesso. Ne consegue un secondo passo: noi preghiamo per il nostro pane – chiediamo quindi anche il pane per gli altri.
Chi ha pane in abbondanza è chiamato alla condivisione. San Giovanni Crisostomo, nella sua spiegazione della Prima Lettera ai Corinzi – a proposito dello scandalo che davano i cristiani a Corinto -, sottolinea “che ogni boccone di pane è in qualche modo un boccone del pane che appartiene a tutti, del pane del mondo.
Padre Kolvenbach aggiunge: “Come si può, invocando il Padre nostro sulla mensa del Signore e durante la celebrazione eucaristica nel suo insieme, dispensarsi dall’esprimere l’inalterabile volontà di aiutare tutti gli uomini, propri fratelli, ad ottenere il pane quotidiano?” ( p. 98 ). Con la domanda alla prima persona plurale il Signore ci dice: “Voi stessi date loro da mangiare” ( Mc 6,37 ).
È importante ancora una seconda osservazione di Cipriano. Chi chiede il pane per l’oggi è povero. La preghiera presuppone la povertà dei discepoli. Presuppone persone che, a causa della fede, hanno rinunciato al mondo, alle sue ricchezze e alle sue lusinghe e chiedono ormai solo quanto è necessario per la vita.
“A ragione il discepolo chiede il necessario per vivere solo per il giorno stesso, perché gli è vietato di preoccuparsi del domani.
Per lui sarebbe anche contradditorio voler vivere a lungo in questo mondo, dal momento che chiediamo, appunto, che il regno di Dio venga presto” ( De dom. or. 19 ).
Nella chiesa devono sempre esserci persone che abbandonano tutto per seguire il Signore; persone che in modo radicale si affidano a Dio, alla sua bontà che ci nutre – persone, cioè, che in questa maniera propongono un segno di fede che ci scuote dalla nostra spensieratezza e debolezza nel credere.
Le persone che si affidano a Dio al punto da non cercare altra sicurezza, riguardano anche noi.
Ci incoraggiano a fidarci di Dio – a contare su di Lui nelle grandi sfide della vita.
Questa povertà motivata totalmente dall’impegno per Dio e il suo regno è allo stesso tempo un atto di solidarietà con i poveri del mondo – un atto che nel corso della storia ha creato nuove valutazioni e una nuova disponibilità al servizio, all’impegno per gli altri. La domanda per il pane, per il pane solo per l’oggi, suscita però anche il ricordo dei quarant’anni di peregrinazioni di Israele nel deserto, quando il popolo visse di manna – di quel pane che Dio mandava dal cielo.
Ciascuno poteva raccoglierne sempre solo la quantità necessaria per quel giorno; solo nel sesto giorno se ne poteva raccogliere la razione necessaria per due giorni, per osservare così il precetto del sabato ( cfr Es 16,16-22 ).
La comunità dei discepoli, che ogni giorno rivive della bontà di Dio, rinnova l’esperienza del popolo di Dio peregrinante, che veniva nutrito da Dio anche nel deserto.
Così la domanda per il pane solo per l’oggi apre prospettive che vanno oltre l’orizzonte del necessario nutrimento quotidiano.
Presuppone la sequela radicale della comunità più ristretta dei discepoli, la quale rinuncia al possesso in questo mondo e si associa al cammino di chi stima “l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto” ( Eb 11,26 ).
Appare l’orizzonte escatologico – le cose future che sono più importanti e più reali di quelle presenti.
Con ciò tocchiamo adesso una parola di questa domanda che, nelle nostre abituali traduzioni, suona innocua: dacci oggi il nostro pane “quotidiano”. Con “quotidiano” viene resa la parola greca epioùsios.
Uno dei grandi maestri della lingua greca – il teologo Origene ( “254 circa ) – dice che in greco questo termine non esiste altrove, è stato creato dagli evangelisti.
È vero che nel frattempo è stata trovata una testimonianza di questa parola in un papiro del V secolo dopo Cristo. Ma da sola anch’essa non può dare una certezza sul significato della parola, in ogni caso molta insolita e rara. Si deve pertanto dipendere dalle etimologie e dallo studio del contesto.
Esistono oggi due interpretazioni principali. Una dice che la parola significherebbe “il pane necessario per l’esistenza”; dunque la domanda sarebbe : dacci oggi il pane di cui abbiamo bisogno per poter vivere.
L’altra interpretazione dice che la traduzione giusta sarebbe “il pane
futuro” – quello per il prossimo giorno. Ma la domanda di ricevere oggi il pane per domani, alla luce del modo di vivere dei discepoli, non sembra avere molto senso.
Il rimando al futuro sarebbe più comprensibile, se si pregasse per il pane veramente futuro: per la manna di Dio. Allora si tratterebbe di una domanda escatologica, della domanda per un’anticipazione del mondo a venire, che cioè il Signore voglia donare già “oggi” il pane futuro, il pane del mondo nuovo – se stesso. Allora la domanda otterrebbe un senso escatologico. Alcune traduzioni antiche vanno in questa direzione, come per esempio la Vulgata di san Gerolamo, che traduce la misteriosa parola don supersubstantialis, interpretandola nel senso della “sostanza” nuova superiore, che il Signore ci dona nel santo Sacramento quale vero pane della nostra vita.
I Padri della Chiesa, di fatto, hanno inteso in modo praticamente unanime la quarta domanda del Padre nostro come domanda per l’Eucaristia; in questo senso la preghiera del Signore si trova nella liturgia della santa Messa come preghiera eucaristica.
Questo non vuol dire che, con ciò, sia stato tolto alla domanda dei discepoli il semplice significato terreno, che poc’anzi abbiamo chiarito quale significato immediato del testo.
I Padri pensano a diverse dimensioni di una parola che inizia dalla domanda dei poveri per il pane del giorno corrente, ma proprio così – guardando al Padre celeste che ci nutre – ricorda il popolo di Dio peregrinante che venne nutrito da Dio stesso.
Per i cristiani, alla luce del grande discorso di Gesù sul pane, il miracolo della manna rimandava quasi automaticamente al di là di se stesso al nuovo mondo, nel quale il Logos – l’eterna parola di Dio – sarà il nostro pane, il cibo dell’eterno banchetto nuziale.
È lecito pensare in tali dimensioni o ciò che costituisce una “teologizzazione” sbagliata di una parola che ha invece un significato semplicemente terreno?
Oggi queste “teologizzazioni” incutono un timore che non è del tutto infondato, ma che non si può nemmeno esagerare. Io penso che nella spiegazione della domanda del pane non si debba perdere di vista il più ampio contesto delle parole e delle opere di Gesù, nel quale hanno un ruolo importante contenuti essenziali della vita umana: l’acqua, il pane e – come segni della festosità e della bellezza del mondo – la vite e il vino.
Il tema del pane occupa un posto rilevante nel messaggio di Gesù – dalla tentazione nel deserto attraverso la moltiplicazione dei pani fino all’Ultima Cena.
Il grande discorso sul pane nel sesto capitolo del Vangelo di Giovanni dischiude l’intero spettro di significato di questo tema. All’inizio c’è la fame degli uomini che hanno ascoltato Gesù e che Egli non congeda senza averli sfamati, c’è quindi “il pane necessario di cui abbiamo bisogno per vivere.
Ma Gesù non permette poi che ci si fermi lì, non permette di ridurre il bisogno dell’uomo al pane, alle necessità biologiche e materiali.
“Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” ( Mt 4,4; Dt 8,3 ).
Il pane miracolosamente moltiplicato evoca il ricordo del miracolo della manna nel deserto e rimanda così al contempo oltre se stesso: indica che il vero cibo dell’uomo è il Logos, la Parola eterna, il senso eterno da cui proveniamo e in attesa del quale viviamo.
Se questo primo superamento dell’ambito fisico dice inizialmente solo ciò che anche la grande filosofia ha trovato ed è in grado di trovare, ecco giungere però immediatamente il secondo superamento: il Logos eterno diventa concretamente pane per l’uomo solo perché Egli “si è fatto carne” e ci parla con parole umane. A questo segue il terzo ed essenziale superamento che ora, però, diviene uno scandalo per la gente di Cafarnao: Colui che è diventato uomo si dà a noi nel Sacramento, e solo così la Parola eterna diventa pienamente manna, il dono del pane futuro già oggi.
Poi, però, il Signore unisce ancora una volta il tutto: questa estrema corporeizzazione è appunto la vera spiritualizzazione: “E’ lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla” ( Gv 6,63 ).
Bisogna forse supporre che nella domanda del pane Gesù abbia escluso tutto ciò che ci dice sul pane e che voleva darci come pane?
Se prendiamo il messaggio di Gesù nella sua interezza, allora non si può cancellare la dimensione eucaristica nella quarta domanda del padre nostro. La domanda del pane quotidiano per tutti è essenziale proprio nella sua concretezza terrena.
Altrettanto, però, essa ci aiuta anche a superare l’aspetto puramente materiale e a chiedere già ora la realtà del “domani”, il nuovo pane. E pregando oggi per la realtà del “domani”, veniamo esortati a vivere già ora del “domani”, dell’amore di Dio che ci chiama tutti alla responsabilità reciproca.
A questo punto vorrei dare la parola ancora una volta a Cipriano che sottolinea entrambe le dimensioni di significato.
Egli riferisce però la parola “nostro”, di cui abbiamo parlato più sopra, proprio anche all’Eucaristia che in un senso particolare è pane “nostro”, pane dei discepoli di Gesù Cristo.
Egli dice: noi, che possiamo ricevere l’Eucaristia come il nostro pane, dobbiamo tuttavia sempre pregare, affinché nessuno sia tagliato fuori, separato dal Corpo di Cristo.
“Per questo preghiamo, affinché il “nostro” pane, cioè Cristo, ci sia dato quotidianamente, affinché noi che rimaniamo e viviamo in Cristo non ci allontaniamo dalla sua forza santificante e dal suo Corpo” ( De dom. or. 18 ).
E rimetti a noi i nostri debiti
Come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori
La quinta domanda del Padre nostro presuppone un mondo nel quale esistono debiti – debiti di uomini verso uomini, debiti di fronte a Dio; ogni colpa tra uomini comporta in qualche modo un ferimento della verità e dell’amore e si oppone così a quel Dio che è la Verità e l’Amore.
Il superamento della colpa è una questione centrale di ogni esistenza umana; la storia delle religioni gita intorno a tale questione. Colpa chiama ritorsione; si forma così una catena di indebitamenti, in cui il male della colpa cresce di continuo e diventa sempre più difficile sfuggirvi. Il Signore con questa domanda, ci dice: la colpa può essere superata solo attraverso il perdono, non attraverso la ritorsione.
Dio è un Dio che perdona, perché ama le sue creature; ma il perdono può penetrare, può diventare efficace solo in colui che, da parte sua, perdona.
Il tema “perdono” pervade tutto il Vangelo. Lo incontriamo subito all’inizio del Discorso della montagna nella nuova interpretazione del quinto comandamento, in cui il Signore ci dice: “Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” ( Mt 5,23 s ).
Non si può presentare al cospetto di Dio chi non si è riconciliato con il fratello; prevenirlo nel gesto della riconciliazione, andargli incontro – questo è il presupposto per un giusto culto a Dio. Al riguardo è spontaneo pensare che Dio stesso, sapendo che noi uomini come ribelli eravamo in contrasto con Lui, dalla sua divinità si è mosso incontro a noi, per riconciliarci.
Ci ricorderemo che, prima del dono dell’Eucaristia, Egli si è inginocchiato davanti ai suoi discepoli e ha lavato il loro piedi sporchi, li ha purificati con il suo umile amore.
A metà del Vangelo di Matteo ( cfr 18,23-25 ) c’è la parabola del servo spietato: a lui che era un alto dignitario del re è stato condonato il debito inimmaginabile di diecimila talenti; ma lui poi non è disposto a condonare la somma, al confronto addirittura ridicola, di cento denari: qualunque cosa abbiamo da perdonarci a vicenda, è sempre piccola cosa rispetto alla bontà di Dio che perdona a noi. E infine sentiamo dalla croce la preghiera di Gesù:
“Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno ( Lc 23,24 ).
Se vogliamo comprendere fino in fondo e fare nostra la domanda del Padre nostro, dobbiamo andare ancora un passo avanti e chiedere: che cos’è veramente il perdono? Che cosa avviene lì? La colpa è una realtà, una forza oggettiva; essa ha causato una distruzione che deve essere superata. Perciò perdonare deve essere più di un ignorare, di un semplice voler dimenticare.
La colpa deve essere smaltita, sanata e così superata. Il perdono ha il suo prezzo – innanzitutto – per colui che perdona; egli deve superare in sé il male subìto, deve come bruciarlo dentro di sé e con ciò rinnovare se stesso, così da coinvolgere poi in questo processo di trasformazione, di purificazioni interiori anche l’altro, il colpevole, e ambedue, soffrendo fino in fondo il male e superandolo, diventare nuovi. A questo punto ci imbattiamo nel mistero della croce di Cristo. Ma innanzitutto ci imbattiamo nei limiti della nostra forza di guarire, di superrare il male. Ci imbattiamo nello strapotere del male che, con le sole nostre forze, non riusciamo a dominare.
Reinhold Schneider commenta: “Il male vive in mille forme; occupa i vertici del potere… sgorga dall’abisso. L’amore ha un’unica forma; è il tuo Figlio”( 68 ).
Il pensiero che Dio per il perdono della colpa, per la guarigione degli uomini dal di dentro abbia pagato il prezzo della morte del suo Figlio, ci è diventato oggi assai estraneo: che il Signore si sia “caricato delle nostre sofferenze e addossato i nostri dolori”, che Egli sia “stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità”, che “per le sue piaghe noi siamo stati guariti” ( Is 53,4-6 ) – di tutto ciò non riusciamo più a capacitarci.
Vi si oppone, da una parte, la banalizzazione del male, nella quale ci rifugiamo, mentre dall’altra, prendiamo tuttavia gli orrori della storia, proprio anche di quella più recente, come pretesto irrefutabile per negare un Dio buono e diffamare la sua creatura, l’uomo. Alla comprensione del grande mistero dell’espiazione è poi di ostacolo, però, anche la nostra concezione individualistica dell’uomo: non riusciamo più a capire il significato della vicarietà, perché secondo noi ogni uomo vive isolato in se stesso; non riusciamo più in grado di capire il profondo intreccio di tutte le nostre esistenze e il loro essere abbracciate dall’esistenza dell’Uno, del Figlio fattosi uomo. Quando parleremo della crocifissione di Cristo, dovremo riprendere questi temi.
Per il momento basti un pensiero del Cardinale Newman, il quale disse una volta che Dio fu sì capace di creare il mondo intero dal nulla con una parola, ma la colpa e la sofferenza degli uomini potè superarle solo mettendosi Egli stesso in gioco, divenendo nel suo Figlio Egli stesso un sofferente che ha portato questo peso e lo ha superato per mezzo del dono di se stesso.
Il superamento della colpa richiede il prezzo dell’impegno del cuore – di più: l’impegno dell’intera nostra esistenza. E anche questo impegno non basta; può divenire efficace solo mediante la comunione con Colui che ha portato il peso di tutti noi.
La domanda del perdono è più di un appello morale – è anche questo, e come tale ci sfida nuovamente ogni giorno.
Ma nel più profondo essa è – come anche le altre domande – una preghiera cristologica. Ci ricorda Colui che per il perdono ha pagato il prezzo della discesa nella miseria dell’esistenza umana e della morte in croce. Così ci invita innanzitutto alla gratitudine e poi anche a smaltire con Lui il male mediante l’amore, a consumarlo soffrendo. E se ogni giorno dobbiamo riconoscere quanto poco a ciò bastino le nostre forze, quanto spesso torniamo a essere noi stessi debitori, allora questa domanda ci dona la grande consolazione che il nostro pregare è assunto nella forza del suo amore e con esso, per esso e in esso può, nonostante tutto, divenire forza di guarigione.
E non ci indurre in tentazione
Le parole di questa domanda sono di scandalo per molti: Dio non ci induce certo in tentazione! Di fatto, san Giacomo afferma: “Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono stato tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male” ( 1,13 ).
Ci aiuta a fare un passo avanti il ricordarci della parola del Vangelo: “Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo” ( Mt 4,1 ).
La tentazione viene dal diavolo, ma nel compito messianico di Gesù rientra il superare le grandi tentazioni che hanno allontanato e continuano ad allontanare gli uomini da Dio. Egli deve, come abbiamo visto, sperimentare su di sé queste tentazioni fino alla morte sulla croce e aprirci in questo modo la via della salvezza.
Così non solo dopo la morte, ma in essa e durante tutta la sua vita deve in certo qual modo “discendere negli inferi”, nel luogo delle nostre tentazioni e sconfitte, per prenderci per mano e portarci verso l’alto. La lettera agli Ebrei ha sottolineato in modo tutto particolare questo aspetto, mettendolo in risalto come parte essenziale del cammino di Gesù: “Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” ( 2,18 ).
“Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato Lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato” ( 4,15 ).
Uno sguardo al libro di Giobbe, in cui sotto tanti aspetti si delinea già il mistero di Cristo, può fornirci ulteriori chiarimenti. Satana schernisce l’uomo per schernire in questo modo Dio: la sua creatura, che Egli ha formato a sua immagine, è una creatura miserevole.
Quanto in essa sembra bene, è invece solo facciata. In realtà all’uomo – a ogni uomo – interessa sempre e solo il proprio benessere. Questa è la diagnosi di Satana, che l’Apocalisse definisce “l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte ( Ap 12,10 ).
La diffamazione dell’uomo e della creazione è in ultima istanza diffamazione di Dio, giustificazione del suo rifiuto.
Satana vuol dimostrare la sua tesi con Giobbe, il giusto: se solo gli venisse tolto tutto, allora egli lascerebbe presto perdere anche la sua religiosità: Così Dio concede a Satana la libertà di mettere alla prova Giobbe, anche se entro limiti ben definiti: Dio non lascia cadere l’uomo, ma permette che venga messo alla prova.
Qui traspare già in modo sommesso e non ancora esplicito il mistero della vicarietà, che prende una forma grandiosa in Isaia 53: le sofferenze di Giobbe servono alla giustificazione dell’uomo. Mediante la sua fede provata nella sofferenza, egli ristabilisce l’onore dell’uomo. Così le sofferenze di Giobbe sono anticipatamente sofferenze in comunione con Cristo, che ristabilisce l’onore di noi tutti al cospetto di Dio e ci indica la via per non perdere, neppure nell’oscurità più profonda, la fede in Dio.
Il libro di Giobbe può anche esserci d’aiuto nel discernimento tra prova e tentazione.
Per maturare, per trovare davvero sempre più la strada che da una religiosità di facciata conduce a una profonda unione con la volontà di Dio, l’uomo ha bisogno della prova.
Come il succo dell’uva deve fermentare per divenire vino di qualità, così l’uomo ha bisogno di purificazioni, di trasformazioni che per lui sono pericolose, che possono provocarne la caduta, che però costituiscono le vie indispensabili per giungere a se stessi e a Dio. L’amore è sempre un processo di purificazioni, di rinunce, di trasformazioni dolorose di noi stessi e così una via di maturazione. San Francesco Saverio poté pregare Dio dicendo. “Ti amo, non perché puoi donarmi il Paradiso o l’Inferno, ma semplicemente perché sei quello che sei – mio re e mio Dio”, era stato certamente necessario un lungo percorso di purificazioni interiori per giungere a quest’ultima libertà – un percorso di maturazioni, in cui era in agguato la tentazione, il pericolo della caduta – e tuttavia un percorso necessario.
Così possiamo ora interpretare la sesta domanda del Padre nostro già in maniera un po’ più concreta. Con essa diciamo a Dio: “So che ho bisogno di prove affinché la mia natura si purifichi. Se tu decidi di sottopormi a queste prove, se – come nel caso di Giobbe – dai un po’ di mano libera al Maligno, allora pensa, per favore, alla misura limitata delle mie forze. Non credermi troppo capace. Non tracciare ampi i confini entro i quali posso essere tentato, e siimi vicino con la tua mano protettrice quando la prova diventa troppo ardua per me”. In questo senso san Cipriano ha interpretato la domanda. Dice: quando chiediamo “e non c’indurre in tentazione”, esprimiamo la consapevolezza “che il nemico non può fare niente contro di noi se prima non gli è stato permesso da Dio; così che ogni nostro timore e devozione e culto si rivolgano a Dio, dal momento che nelle nostre tentazioni niente è lecito al Maligno, se non gliene vien data di là la facoltà” ( De dom. or. 25 ).
E poi, ponderando il profilo psicologico della tentazione, egli spiega che ci possono essere due differenti motivi per cui Dio concede al Maligno un potere limitato.
Può accadere come penitenza per noi, per smorzare la nostra superbia, affinché sperimentiamo di nuovo la povertà del nostro credere, sperare e amare e non presumiamo di essere grandi da noi: pensiamo al fariseo che racconta a Dio delle proprie opere e crede di non aver bisogno di alcuna grazia.
Cipriano, purtroppo non specifica poi il significato dell’altro tipo di prova: la tentazione che Dio ci impone ad gloriam – per la sua gloria. Ma in questo caso non dovremmo ricordarci che Dio ha messo un carico particolarmente gravoso di tentazioni sulla spalle delle persone a Lui particolarmente vicine, i grandi santi, da Antonio nel deserto fino a Teresa di Lisieux nel pio mondo del suo Carmelo?
Tali persone stanno, per così dire, sulle orme di Giobbe come apologia dell’uomo, che è al contempo difesa di Dio.
Ancor più: sono in modo del tutto particolare in comunione con Gesù Cristo, che ha sofferto fino in fondo le nostre tentazioni.
Sono chiamate a superare, per così dire, nel proprio corpo, nella propria anima le tentazioni di un’epoca, a sostenerle per noi, anime comuni, e ad aiutarci nel passaggio verso Colui che ha preso su di sé il gravame di tutti noi.
Nella preghiera che esprimiamo con la sesta domanda del Padre nostro deve così essere racchiusa, da un lato, la disponibilità a prendere su di noi il peso della prova commisurata alle nostre forze; dall’altro, appunto, la domanda che Dio non ci addossi più di quanto siamo in grado di sopportare; che non ci lasci cadere dalle sue mani. Pronunciamo questa richiesta nella fiduciosa certezza per la quale san Paolo ci ha donato le parole: “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” ( 1 Cor 10,13 ).
Ma liberaci dal male
L’ultima domanda del Padre nostro riprende ancora la penultima e la volge al positivo; pertanto entrambe le domande sono strettamente connesse. Se nella penultima domanda dominava il “non” ( non dare spazio al Maligno oltre la misura sopportabile ), nell’ultima ci presentiamo al Padre con la speranza centrale della nostra fede. “Salvaci, redimici, liberaci!”. In fin dei conti è la domanda della redenzione. Da che cosa vogliamo essere redenti? Nelle traduzioni recenti del Padre nostro “il male” di cui si parla può indicare sia “il male” impersonale, sia il “Maligno”.
In fondo, i due significati non si possono separare.
Sì, vediamo davanti a noi il drago di cui parla l’Apocalisse ( cfr. capitoli 12 e 13 ). Giovanni ha caratterizzato “la bestia” che ha visto “salire dal mare”, dagli abissi oscuri del male, con gli attributi del potere politico romano, dando così una forma molto concreta alla minaccia che i cristiani del suo tempo vedevano incombere su di loro: il diritto totale sulla persona che veniva rivendicato attraverso il culto dell’imperatore, portando così il potere politico-militare-economico al massimo grado dell’onnipotenza esclusiva – all’espressione del male che minaccia di ingoiarci.
A questo si accompagna la disgregazione degli ordini morali mediante una forma cinica di scetticismo e di illuminismo.
Sotto questa minaccia, il cristiano del tempo della persecuzione invoca il Signore come l’unica potenza in grado di salvarlo: liberaci dal male.
Anche se l’impero romano e le sue ideologie non esistono più – quanto è ancora attuale tutto ciò!
Anche oggi ci sono, da un lato, le potenze del mercato, del traffico d’armi, di droghe e di uomini – potenze che gravano sul mondo e trascinano l’umanità in vincoli ai quali non ci si può sottrarre. Anche oggi c’è, dall’altro lato, l’ideologia del successo, del benessere che ci dice: Dio è solo una finzione, ci fa solo perdere tempo e ci toglie la voglia di vivere. Non ti preoccupare di Lui! Cerca solo di carpire dalla vita quanto puoi! Anche a queste tentazioni sembra impossibile sottrarsi. Il Padre nostro, nella sua interezza, e questa domanda in particolare, vogliono dirci: solo quando hai perduto Dio, hai perduto te stesso; allora sei ormai soltanto un prodotto casuale dell’evoluzione. Allora il “drago” ha vinto davvero. Finché egli non riesce a strapparti Dio, tu, nonostante tutte le sventure che ti minacciano, sei ancora rimasto intimamente sano. Così è giusto che la traduzione dica: liberaci dal male.
Le sventure possono essere necessarie alla nostra purificazione, ma il male distrugge.
Questo dunque chiediamo nel più profondo: che non ci venga strappata la fede che ci fa vedere Dio, che ci unisce a Cristo.
Chiediamo che per i beni non perdiamo il Bene stesso; che anche nella perdita di beni non vada perso per noi il Bene, Dio; che non andiamo persi noi: liberaci dal male!
Anche qui Cipriano, il Vescovo martire, che dovette sostenere di persona la situazione descritta nell’Apocalisse, trovò al riguardo parole splendide: “Quando diciamo “liberaci dal male”, non resta niente che dovremmo ancora oltre ciò chiedere. Una volta ottenuta la protezione chiesta contro il male, noi siamo sicuri e custoditi contro tutto ciò che diavolo e mondo possono mettere in atto. Quale paura potrebbe ancora sorgere dal mondo per colui, il cui protettore nel mondo è Dio stesso?” ( De dom. or. 27 ).
Questa certezza ha sostenuto i martiri e li ha resi lieti e fiduciosi in un mondo colmo di angustie, ha “liberato” essi stessi nel più profondo, li ha liberati alla vera libertà.
È la stessa fiducia che san Paolo ha meravigliosamente espresso con le parole. “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?... Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?
In tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli, né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore ( Rm 8,31-39 )
Pertanto, con l’ultima domanda ritorniamo alle prime tre: chiedendo la liberazione dal potere del male, chiediamo in definitiva il regno di Dio, la nostra unificazione con la sua volontà, la santificazione del suo nome. Gli oranti di tutti i tempi hanno però interpretato la domanda in senso più vasto.
Nelle tribolazioni del mondo pregavano Dio anche di porre un limite ai “mali” che devastano il mondo e la nostra vita.
Questo modo molto umano di interpretare la domanda è entrato nella liturgia: in tutte le liturgie, eccetto solo quella bizantina, l’ultima domanda del Padre nostro viene ampliata in una preghiera particolare che, nell’antica liturgia romana, diceva: “Liberaci, o signore, da tutti i mali, passati, presenti e futuri.
Per l’intercessione… di tutti i santi, concedi la pace ai nostri giorni, affinché, con l’aiuto della tua misericordia, viviamo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento”. Si percepisce l’eco delle necessità in tempi turbolenti, si percepisce il grido per una redenzione completa. Questo “embolismo”, con cui nelle liturgie viene rafforzata l’ultima domanda del Padre nostro, mostra l’aspetto umano della Chiesa. Sì, noi possiamo, noi dobbiamo pregare il Signore anche di liberare il mondo, noi stessi e i molti uomini e popoli sofferenti dalle tribolazioni che rendono la vita quasi insopportabile.
Possiamo e dobbiamo intendere questo ampliamento dell’ultima domanda del Padre nostro anche come esame di coscienza per noi – come esortazione a collaborare affinché venga infranto lo strapotere dei “mali”. Ma con ciò non dobbiamo perdere di vista la vera gerarchia dei beni e il rapporto dei mali con il Male per eccellenza: la nostra richiesta non deve decadere nella superficialità; anche in questa interpretazione della domanda del Padre nostro resta centrale il pensiero che “veniamo liberati dai peccati”, che riconosciamo “il Male” come la vera avversità e che non ci venga mai impedito lo sguardo sul Dio vivente.
La chiesa non è una democrazia
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- Categoria: J. Ratzinger
- Pubblicato Martedì, 18 Ottobre 2011 16:12
- Scritto da Cristoforo
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J. Ratzinger , trascrizione di una conferenza, video in You Tube
La Chiesa non è una democrazia
Cari amici grazie per questa accoglienza così calorosa. Conoscete il titolo di questa mia conferenza: “Una compagnia sempre riformanda” e mi sembra che non ci sia bisogno di molta immaginazione per capire che la compagnia di cui voglio qui parlare è la Chiesa. Non ho formulato io il titolo, ma penso che si è evitato di menzionare nel titolo il termine Chiesa forse perché esso provoca spontaneamente nella maggior parte degli uomini di oggi reazioni di difesa. Essi pensano che della Chiesa ne abbiamo già sentito parlare fin troppo e per lo più non si è trattato di niente di piacevole. La parola e la realtà della Chiesa sono cadute in discredito e perciò anche una riforma permanente non sembra possa cambiare qualcosa. O forse il problema è solamente che finora non è stato scoperto quel tipo di riforma che potrebbe fare della Chiesa una compagnia che valga davvero la pena di essere vissuta. Ma chiediamoci innanzitutto perché la Chiesa riesce sgradita a tante persone e addirittura anche a credenti, anche a persone che fino a ieri potevano essere annoverate tra le più fedeli e che pur tra sofferenze lo sono in qualche modo ancor oggi. I motivi sono tra loro molto diversi, anzi opposti, a seconda delle posizioni. Alcuni soffrono perchè la chiesa si è troppo adeguata ai parametri del mondo di oggi, altri sono infastiditi perché ne resta ancora troppo estranea. Per la maggior parte della gente la scontentezza nei confronti della chiesa comincia col fatto che essa è una istituzione come tante altre e che come tale limita la mia libertà, la sete di libertà e la forma in cui oggi si esprimono il desiderio di liberazione, di redenzione e la percezione di non essere liberi, di essere alienati. L’invocazione di libertà aspira ad una esistenza che non sia limitata da ciò che è già dato e che mi ostacola nel mio pieno sviluppo, presentandomi dal di fuori la strada che io dovrei percorrere. Ma dappertutto andiamo a sbattere contro barriere e blocchi stradali di questo genere che ci fermano impedendoci di andare oltre. Gli sbarramenti che la chiesa innalza si presentano quindi come doppiamente pesanti, perché penetrano fin nella sfera più personale e più intima. Le norme di vita della Chiesa infatti sono ben di più di una specie di regole del traffico affinchè la convivenza umana eviti il più possibile gli scontri. Essi riguardano il mio cammino interiore e mi dicono come devo comprendere e configurare la mia libertà. Essi esigono da me decisioni che non si possono prendere senza il dolore anche della rinuncia. Non si vuol forse negarci i frutti più belli del giardino della vita? Non è forse vero che con la ristrettezza di così tanti comandi e divieti ci viene sbarrata la strada di un orizzonte aperto? Il pensiero non viene forse ostacolato nella sua grandezza, come pure la volontà? Non deve forse la liberazione essere necessariamente l’uscita da una simile tutela spirituale e l’unica vera riforma non sarebbe forse quella di respingere tutto ciò? Ma allora, cosa rimane ancora di questa compagnia? L’amarezza contro la Chiesa ha però anche un motivo specifico. Infatti in mezzo ad un mondo governato da dura disciplina e da inesorabili costrizioni si leva verso la Chiesa ancora e sempre una silenziosa speranza: essa potrebbe rappresentare in tutto ciò come una piccola isola di vita migliore, una piccola oasi di libertà in cui di tanto in tanto ci si può ritirare. L’ira contro la Chiesa o la delusione nei suoi confronti hanno perciò un carattere particolare poiché silenziosamente ci si attende da essa di più che da altre istituzioni mondane. In essa si dovrebbe realizzare il sogno di un mondo migliore, quanto meno si vorrebbe assaporare in essa il gusto della libertà, dell’essere liberati per uscire fuori dalla caverna di cui parla Gregorio Magno ricollegandosi a Platone. Tuttavia dal momento che la Chiesa nel suo aspetto concreto si è talmente allontanata da simili sogni assumendo anch’essa il sapore di un’istituzione e di tutto ciò che è umano, contro di essa sale una collera particolarmente amara. E questa collera non può venir meno proprio perché non si può estinguere quel sogno che ci aveva rivolti con speranza verso di essa. Siccome la Chiesa non è così come appare nei sogni, si cerca disperatamente di renderla come la si desidererebbe, un luogo in cui si possano esprimere tutte le libertà, uno spazio dove siano abbattuti i nostri limiti, dove si sperimenti quell’utopia che ci dovrà pur essere da qualche parte. Come nel campo dell’azione politica si vorrebbe finalmente costruire il mondo migliore, così si pensa che si dovrebbe finalmente, magari come prima tappa sulla via verso di esso, metter su anche la chiesa migliore, una chiesa di piena umanità, piena di senso fraterno e generosa creatività, una dimora di conciliazione di tutto e per tutti. Ma in che modo dovrebbe accadere questo? Come può riuscire una simile riforma? Orbene dobbiamo pur cominciare, si dice. Lo si dice spesso con l’ingenua presunzione dell’illuminato il quale è convinto che le generazioni fino ad ora non abbiano ben compreso la questione oppure che siano state troppo timorose e poco illuminate. Noi però abbiamo ora finalmente nello stesso tempo sia il coraggio che l’intelligenza. Per quanta resistenza possano opporre i reazionari e i fondamentalisti a questa nobile impresa essa deve venire posta in opera. Almeno c’è una ricetta oltremodo evidente per il primo passo. La Chiesa non è una democrazia; da quanto appare essa non ha ancora integrato nella sua costituzione interna quel patrimonio di diritti della libertà che l’illuminismo ha elaborato e che da allora è stato riconosciuto come regola fondamentale della formazione sociale e politiche. Così sembra la cosa più normale del mondo recuperare una buona volta quanto era stato trascurato e cominciare con l’erigere questo patrimonio fondamentale di strutture di libertà. Il cammino conduce, come si suol dire, da una chiesa paternalistica e distributrice di bene, ad una chiesa comunità . Si dice che nessuno più dovrebbe rimanere passivo ricevitore dei doni che fanno essere cristiano; tutti devono invece diventare attivi operatori della vita cristiana. La Chiesa non deve più venire calata giù dall’alto: siamo noi che facciamo la Chiesa e la facciamo sempre nuova; così essa diverrà finalmente la nostra Chiesa e noi i suoi attivi soggetti responsabili. L’aspetto passivo cede a quello attivo: la Chiesa sorge attraverso discussioni, accordi e decisioni. Nel dibattito emerge ciò che ancora oggi può essere richiesto, ciò che oggi può ancora essere riconosciuto da tutti come appartenente alla fede o come linea morale direttiva. Vengono coniate per esempio nuove formule di fede abbreviate. In Germania ad un livello abbastanza elevato è stato detto che anche la liturgia non deve più corrispondere ad uno schema previo già dato, ma deve sorgere invece sul posto, in una data situazione, ad opera della comunità per cui viene celebrata. Anch’essa non deve più essere niente di già precostituito, ma invece qualcosa di fatto da sé, qualcosa che sia espressione di se stessi. Su questa via si rivela essere un po’ di ostacolo per lo più la Parola della Scrittura alla quale però non si può rinunciare del tutto. Si deve allora affrontarla con molta libertà di scelta. Non sono molti però i testi che si lasciano impiegare in modo tale da adattarsi senza disturbi a quella autorealizzazione alla quale la liturgia ora sembra essere destinata. In questa opera di riforma in cui ora finalmente anche nella chiesa l’autogestione deve sostituire l’essere guidati da altri sorgono però presto anche delle domande. Chi ha qui propriamente il diritto di prendere le decisioni? Su quale base ciò avviene? Nella democrazia politica a questa domanda si risponde con il sistema della rappresentanza: nelle elezioni i singoli scelgono i loro rappresentanti i quali prendono le decisioni per loro. Questo incarico è limitato nel tempo e circoscritto anche contenutisticamente in grandi linee dal sistema partitico e comprende solo quegli ambiti dell’azione politica, che dalla Costituzione sono assegnati alle entità statali rappresentative. Anche a questo proposito rimangono delle questioni: la minoranza deve chinarsi alla maggioranza e questa minoranza può essere molto grande. Inoltre non è sempre garantito che il rappresentante che ho eletto agisca e parli davvero nel senso da me voluto; così che anche la maggioranza vittoriosa, osservando le cose più da vicino, ancora una volta non può considerarsi affatto interamente come soggetto attivo dell’evento politico. Al contrario essa deve accettare anche decisioni prese da altri onde per lo meno non mettere in pericolo il sistema nella sua interezza. Più importante per la nostra questione è però un problema generale. Tutto quello che gli uomini fanno può anche essere annullato da altri. Tutto ciò che proviene da un gusto umano può non piacere ad altri. Tutto ciò che una maggioranza decide può venire abrogato da un’altra maggioranza. Una Chiesa che riposi sulle decisioni di una maggioranza diventa una chiesa puramente umana. Essa è ridotta a livello di ciò che è fattibile e plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni ed opinioni. L’opinione comincia a sostituire la fede ed effettivamente nelle formule di fede coniate da sé che io conosco il significato dell’espressione credo non va mai al di là del significato: noi pensiamo che sia così. La Chiesa fatta da sé ha alla fine il sapore di se stessi, che agli altri se stessi non è mai gradito e ben presto rivela la propria piccolezza. Essa si è ritirata nell’ambito dell’empirico e così si è dissolta anche come ideale sognato. L’attivista, colui che vuole costruire tutto da sé è il contrario di colui che ammira, dell’ ammiratore. Egli, l’attivista, restringe l’ambito della propria ragione e perde così di vista il mistero. Quanto più nella Chiesa si estende l’ambito delle cose decise da sé e fatte da sé, tanto più angusta essa diventa per noi tutti. In essa la dimensione grande, liberante non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da quello che a noi tutti è donato, quello che non proviene dal nostro volere e inventare, bensì è un precederci, un venire a noi di ciò che è inimmaginabile, di ciò che è più grande del nostro cuore. La reformatio, quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la nostra Chiesa come più ci piace che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di sostegno in favore della luce purissima, che viene dall’alto e che è nello stesso tempo l’irruzione della pura libertà. Lasciatemi dire con un’immagine ciò che io intendo, un’immagine che ho trovato in Michelangelo, il quale riprende in questo, da parte sua, antiche concezioni della mistica e della filosofia cristiana. Con lo sguardo dell’artista, Michelangelo vedeva già nella pietra che gli stava davanti l’immagine viva che nascostamente attendeva di venire liberata e messa in luce. Il compito dell’artista secondo lui era solo quello di togliere via quello che ancora ricopriva l’immagine. Michelangelo concepiva l’autentica azione artistica come un riportare alla luce, un rimettere in libertà, non come un fare. La stessa idea applicata però all’ambito antropologico si trovava già in san Bonaventura, il quale spiega il cammino attraverso cui l’uomo diviene autenticamente se stesso, prendendo lo spunto dal paragone con l’intagliatore di immagini, cioè con lo scultore. Lo scultore, dice, non fa qualcosa: la sua opera è invece una ablatio; essa consiste nell’eliminare, nel togliere via ciò che è non autentico. In questa maniera attraverso l’ablatio emerge la nobilis forma, cioè la figura preziosa. Così anche l’uomo, affinchè risplenda in lui l’immagine di Dio, deve soprattutto e prima di tutto accogliere quella purificazione, attraverso la quale lo scultore, cioè Dio, lo libera da tutte quelle scorie che oscurano l’aspetto autentico del suo essere, facendolo apparire solo come un blocco di pietra grossolano, mentre invece inabita in lui la forma divina. Se la intendiamo giustamente, possiamo trovare in questa immagine anche il modello guida per la vera riforma ecclesiale. Certo la Chiesa avrà sempre bisogno di nuove strutture umane di sostegno per poter parlare ed operare ad ogni epoca storica. Tali istituzioni ecclesiastiche di diritto umano con le loro configurazioni giuridiche, lungi dall’essere qualcosa di cattivo, sono al contrario, in un certo grado, semplicemente necessarie ed indispensabili; ma esse invecchiano, rischiano di presentarsi come la cosa più essenziale e distolgono così lo sguardo da quanto è veramente essenziale. Per questo esse sempre devono venire portate via come impalcature divenute superflue. Riforma è sempre nuovamente una ablatio, un togliere via affinchè divenga visibile la nobilis forma, il volto della sposa e insieme con esso anche il volto dello sposo stesso, il Signore vivente. Una simile ablatio è una via verso un traguardo del tutto positivo. Solo così il divino penetra e solo così sorge una congregatio, un’assemblea, un raduno, una purificazione, quella comunità pura a cui giustamente aneliamo, una comunità in cui un io non sta più contro un altro io, un sé contro un altro sé; piuttosto quel donarsi, quel affidarsi con fiducia che fa parte dell’amore, diventa il reciproco ricevere tutto il bene e tutto ciò che è puro. E così per ciascuno vale la parola del padre generoso, il quale al figlio maggiore invidioso richiama alla memoria quanto costituisce il contenuto di ogni libertà e di ogni utopia realizzata. “Tutto ciò che è mio è tuo”. La vera riforma è dunque una ablatio che come tale diventa congregatio. Cerchiamo di afferrare in modo più concreto questa mia idea di fondo. In un primo approccio avevamo contrapposto all’attivista l’ammiratore e ci eravamo espressi in favore di quest’ultimo. Ma cosa esprime questa contrapposizione? L’attivista, colui che vuol sempre fare, pone la sua propria attività al di sopra di tutto. Ciò limita il suo orizzonte all’ambito del fattibile, di ciò che può diventare oggetto del suo fare. Propriamente parlando, egli vede soltanto degli oggetti, non è affatto in grado di percepire ciò che è più grande di lui, perché ciò porrebbe un limite alla sua attività. Egli restringe il mondo a ciò che è empirico. L’uomo viene amputato. L’attivista si costruisce da sé una prigione contro la quale poi egli stesso protesta ad alta voce. Invece l’autentico stupore è un no alla limitazione dentro ciò che è empirico, dentro ciò che è solamente l’al di qua. Esso prepara l’uomo all’atto della fede che gli spalanca dinanzi l’orizzonte dell’eterno e dell’infinito. E solamente ciò che non ha limiti è sufficientemente ampio per la nostra natura, solamente l’illimitato è adeguato alla vocazione del nostro essere. Dove questo orizzonte scompare ogni residuo di libertà diventa troppo piccolo e tutte le liberazioni che di conseguenza possono venire proposte sono un insipido surrogato che non basta mai. La prima fondamentale ablatio che è necessaria per la chiesa è sempre nuovamente l’atto della fede stessa. È l’atto di fede che lacera le barriere del finito e apre così lo spazio per giungere sino allo sconfinato. La fede ci conduce in terre sconfinate come dicono i salmi. Il moderno pensiero scientifico ci ha sempre più rinchiusi nel carcere del positivismo condannandoci così al pragmatismo. Per merito suo si possono raggiungere molte cose, si può viaggiare sin sulla luna e ancora più lontano, nell’illimitatezza del cosmo. Tuttavia nonostante questo si rimane sempre allo stesso punto, perché la vera e propria frontiera, la frontiera del quantitativo e del fattibile non viene oltrepassata. Albert Camus ha descritto l’assurdità di questa forma di libertà nella figura dell’imperatore Caligola. Tutto è a sua disposizione, ma ogni cosa gli è troppo stretta. Nella sua folle bramosia di avere sempre di più e cose sempre più grandi egli grida: “Voglio avere la luna, datemi la luna”. Ora nel frattempo è divenuto per noi possibile avere in qualche modo anche la luna, ma finchè non si apre la vera e propria frontiera, la frontiera tra terra e cielo, fra Dio e il mondo, anche la luna è solamente un ulteriore pezzetto di terra e il raggiungerla non ci porta neanche di un passo più vicini alla libertà e alla pienezza che desideriamo. La fondamentale liberazione che la Chiesa può darci è lo stare nell’orizzonte dell’eterno, è l’uscire fuori dai limiti del nostro sapere e del nostro potere. La fede stessa in tutta la sua grandezza e ampiezza è perciò sempre nuovamente la riforma più essenziale di cui noi abbiamo bisogno. A partire da essa noi dobbiamo sempre di nuovo mettere alla prova quelle istituzioni che nella chiesa noi stessi abbiamo fatto. Ciò significa che la Chiesa deve essere il ponte della fede e che essa specialmente nella sua vita associazionistica intramondana non può divenire fine a se stessa. È diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici abbastanza elevati, l’idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica dell’attività, del darsi da fare. A ciascuno si cerca di assegnare un comitato o in ogni caso almeno un qualche impegno all’interno della Chiesa. In un qualche modo, così si pensa, ci deve sempre essere un’attività ecclesiale, si deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa in essa. Ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio. Una finestra che, invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo fra il Salvatore e il mondo, ha perso il suo senso. Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistica ecclesiale e tuttavia non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro viva solo semplicemente della Parola e del Sacramento e pratichi l’amore che proviene dalla fede, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto parte di sinodi e senza aver votato esse e tuttavia egli è un vero cristiano. Non è quindi di una chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una chiesa più divina e solo allora essa sarà anche veramente umana e per questo tutto ciò che è fatto dall’uomo all’interno della Chiesa deve riconoscersi nel suo puro carattere di servizio, e ritrarsi davanti a ciò che più conta ed è essenziale. La libertà che noi ci aspettiamo con ragione dalla Chiesa e nella Chiesa non si realizza per il fatto che noi introduciamo in essa il principio della maggioranza. Essa non dipende dal fatto che la maggioranza più ampia possibile prevalga sulla minoranza più esigua possibile. Essa, questa libertà, dipende invece dal fatto che nessuno può imporre il suo proprio volere agli altri, bensì tutti si riconoscono legati alla Parola e alla volontà dell’unico che è il nostro Signore e la nostra libertà. Nella Chiesa l’atmosfera diventa angusta e soffocante se i portatori del ministero dimenticano che il sacramento non è una spartizione di potere, ma è invece espropriazione di me stesso in favore di Colui nella persona del quale io devo parlare ed agire, dove alla sempre maggiore responsabilità corrisponde la sempre maggiore auto espropriazione. Lì nessuno è schiavo dell’altro, lì domina il Signore e perciò vale il principio che il Signore è lo Spirito; dove però c’è lo Spirito del Signore ivi c’è la libertà.
Quanti più apparati noi costruiamo, siano anche i più moderni, tanto meno c’è spazio per lo spirito, tanto meno c’è spazio per il Signore, tanto meno c’è libertà. Io penso che noi dovremmo sotto questo punto di vista iniziare nella Chiesa a tutti i livelli un esame di coscienza senza riserve. A tutti i livelli questo esame di coscienza dovrebbe avere conseguenze assai concrete e recare con sé una ablatio, che lasci di nuovo trasparire il volto autentico della Chiesa. Esso potrebbe ridare a noi tutti il senso della libertà e del trovarsi a casa propria, in maniera completamente nuova. Guardiamo un attimo prima di andare avanti a quanto fin qui abbiamo messo in luce. Abbiamo parlato di un doppio toglimento ( ablatio ) di un atto di liberazione che è un duplice atto di purificazione e di rinnovamento. Dapprima il discorso aveva toccato la fede che infrange le mura del finito e libera lo sguardo verso le dimensioni dell’eterno e non solo lo sguardo, ma anche la strada. La fede è infatti non soltanto riconoscere, ma operare non soltanto una frattura nel muro, ma una mano che salva, che tira fuori dalla caverna. Da ciò abbiamo tratto la conseguenza per le istituzioni che l’essenziale ordinamento di fondo delle istituzioni della chiesa ha si bisogno sempre di nuovi sviluppi concreti e di concrete configurazioni affinchè la sua vita si possa sviluppare in un tempo determinato, ma che però queste configurazioni non possono diventare la cosa essenziale. La Chiesa infatti non esiste allo scopo di tenerci occupati come una qualsiasi associazione intramondana e di conservarsi in vita essa stessa, ma esiste invece per divenire in noi tutti accesso alla vita eterna. Ora dobbiamo compiere un passo ulteriore e applicare tutto questo non più a livello generale ed oggettivo qual era finora, ma all’ambito personale. Infatti anche qui nella sfera personale è necessario un toglimento che ci liberi. Su un piano personale non è sempre e senz’altro la forma preziosa, l’immagine di Dio che è iscritta in noi a balzare all’occhio. Come prima cosa noi vediamo invece soltanto l’immagine di Adamo, l’immagine dell’uomo non del tutto distrutto, ma pur sempre decaduto. Vediamo le incrostazioni di polvere e sporcizia che si sono posate sopra l’immagine. Noi tutti abbiamo bisogno del vero scultore, il quale toglie via ciò deturpa l’immagine. Abbiamo bisogno con altre parole del perdono che costituisce il nucleo di ogni vera riforma. Per me non è certamente un caso che nelle tre tappe decisive del formarsi della Chiesa raccontate dai Vangeli, la remissione dei peccati giochi un ruolo essenziale. C’è in primo luogo la consegna delle chiavi a Pietro. La potestà a lui conferita di legare e sciogliere, di aprire e chiudere, di cui qui si parla è, nel suo nucleo, incarico di lasciar entrare, di accogliere in casa, di perdonare. La stessa cosa si trova di nuovo nell’ultima cena che inaugura la nuova comunità a partire dal corpo e nel corpo di Cristo. Essa diviene possibile per il fatto che il Signore versa il suo sangue per i molti in remissione dei peccati e infine il risorto nella sua prima apparizione agli undici fonda la comunione della sua pace nel fatto che egli dona loro la potestà di perdonare. La Chiesa non è una comunità di coloro che non hanno bisogno del medico, bensì una comunità di peccatori convertiti che vivono della grazia del perdono trasmettendola a loro volta ad altri. Se leggiamo con attenzione il Nuovo Testamento scopriamo che il perdono non ha in sé niente di magico. Esso però non è nemmeno un far finta di dimenticare, non è un fare come se non, ma invece un processo di cambiamento del tutto reale, quale lo scultore lo compie. Il togliere via la colpa rimuove davvero qualcosa. L’evento del perdono in noi si mostra nel sopraggiungere della penitenza. Il perdono è in tal senso un processo attivo e passivo; la potente parola creatrice di Dio su di noi opera il dolore del cambiamento e diventa così un attivo trasformarsi: perdono e penitenza, grazia e propria personale conversione non sono in contraddizione, ma sono invece due facce dell’unico e medesimo evento. Questa fusione di attività e di passività esprime la forma essenziale dell’esistenza umana. Infatti tutto il nostro creare comincia con l’essere creati, con il nostro partecipare all’attività creatrice di Dio. E qui siamo giunti ad un punto veramente centrale. Credo infatti che il nucleo della crisi spirituale del nostro tempo abbia le sue radici nell’oscurarsi della grazia del perdono. Vorrei notare però dapprima l’aspetto positivo del nostro tempo presente. La dimensione morale comincia oggi nuovamente a poco a poco a venire tenuta in onore. Si riconosce, anzi è divenuto evidente che ogni progresso tecnico è discutibile e diventerebbe ultimamente distruttivo se ad esso non corrisponde una crescita morale. Si riconosce oggi che non c’è riforma dell’uomo e dell’umanità senza un rinnovamento morale. Ma l’invocazione di moralità rimane alla fine senza energia, poiché i parametri si nascondono in una fitta nebbia di discussione. In effetti l’uomo non può sopportare la pura e semplice morale, non può vivere di essa. Essa diviene per lui una legge che provoca il desiderio di contraddirla e genera il peccato, come dice san Paolo, così anche oggi. Perciò là dove il perdono, il vero perdono pieno di efficacia non viene riconosciuto o non vi si crede, la morale deve venire tratteggiata in modo tale che le condizioni del peccare per il singolo uomo non possono mai propriamente verificarsi. A grandi linee si può dire che l’odierna discussione morale tende a liberare gli uomini dalla colpa facendo sì che non subentrino mai le condizioni della sua possibilità. E viene in mente qui la mordace frase di Pascal: “Ecce patres qui tollent peccata mundi”. Ecco i padri che tolgono i peccati del mondo. Secondo questi moralisti non c’è semplicemente più alcuna colpa. Naturalmente tuttavia questa maniera di liberare il mondo dalla colpa è troppo a buon mercato. Dentro di loro gli uomini così liberati sanno assai bene che tutto questo non è vero, che il peccato c’è, che essi stessi, noi stessi siamo peccatori e che dovrebbe pur esserci una maniera effettiva di superare il peccato. Gesù stesso non chiama coloro che si sono già liberati da sé e che perciò come essi ritengono non hanno bisogno del medico, ma chiama invece coloro che si sanno peccatori e che perciò hanno bisogno di lui. La morale conserva la sua serietà solamente se c’è il perdono, un perdono reale, efficace, altrimenti essa ricade nel puro e vuoto condizionale. Ma il vero perdono c’è solo se c’è il prezzo da Cristo, l’equivalente nello scambio, se la colpa è stata espiata, se esiste l’espiazione. La circolarità che esiste tra morale, perdono e espiazione non può essere spezzata. Se manca un elemento cade anche tutto il resto. Dall’indivisa esistenza di questo circolo dipende se per l’uomo c’è redenzione oppure no. Nella Torha, nei cinque libri di Mosè, questi tre elementi sono indivisibilmente annodati uno all’altro e non è possibile perciò da questo centro compatto appartenente al canone dell’Antico Testamento scorporare alla maniera illuminista una legge morale sempre valida, abbandonando tutto il resto alla storia passata. Questa modalità moralistica, di attualizzazione dell’Antico Testamento finisce necessariamente in un fallimento. In questo punto preciso stava già l’errore di Pelagio, il quale ha oggi molti più seguaci di quanto non sembri a prima vista. Gesù ha invece adempiuto a tutta la Legge, non solamente a una parte di essa e così l’ha rinnovata dalla base, dai fondamenti. Egli stesso che ha patito espiando ogni colpa è espiazione e perdono contemporaneamente e perciò è anche l’unica sicura e sempre valida base della nostra morale. Non si può disgiungere la morale dalla cristologia, poiché non la si può separare dall’espiazione e dal perdono. In Cristo tutta quanta la Legge è adempiuta e quindi la morale è diventata una vera adempibile esigenza rivolta nei nostri confronti. A partire dal nucleo della fede, si apre così sempre di nuovo la via del rinnovamento per il singolo, per la chiesa nel suo insieme e per l’umanità. Su questo ci sarebbe molto da dire. Cercherò però solo molto brevemente di accennare, come conclusione, ancora a ciò che nel nostro contesto mi appare come la cosa più importante. Il perdono e la sua realizzazione in me attraverso la via della penitenza e della sequela è in primo luogo il centro del tutto personale di ogni rinnovamento. Ma proprio perché il perdono concerne la persona nel suo nucleo più intimo, esso è in grado di raccogliere in unità ed è anche il centro di rinnovamento della comunità. Se infatti vengono tolte via da me la polvere e la sporcizia che rendono irriconoscibile in me l’immagine di Dio, allora in tal modo io divengo davvero anche simile all’altro, il quale è anche lui immagine di Dio; e soprattutto io divengo simile a Cristo, che è l’immagine di Dio senza limite alcuno, il modello secondo il quale noi tutti siamo stati creati. Paolo esprime questo processo in termini assai drastici. “Le vecchie realtà sono passate, ecco è divenuta una realtà nuova. Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Si tratta di un processo di morte e di nascita. Io sono strappato al mio isolamento e sono accolto in una nuova comunità soggetto. Il mio io è inserito nell’io di Cristo e così è unito a quello di tutti i miei fratelli. Solamente a partire da questa profondità di rinnovamento del singolo nasce la Chiesa, nasce la comunità che unisce e sostiene in vita e in morte. Solamente quando prendiamo in considerazione tutto ciò, vediamo la Chiesa nel suo giusto ordine di grandezza. La Chiesa non è soltanto il piccolo gruppo degli attivisti che si trovano insieme in un certo luogo per dare avvio ad una vita comunitaria. La Chiesa non è nemmeno semplicemente la grande schiera di coloro che alla domenica si radunano insieme per celebrare l’Eucarestia. Infine la chiesa è anche di più di papa, vescovi e preti, di coloro che sono investiti del ministero sacramentale. Tutti costoro che abbiamo nominato fanno parte della Chiesa, ma il raggio della compagnia in cui entriamo mediante la fede va più in là, và persino al di là della morte. Di essa fanno parte tutti i santi, a partire da Abele da Abramo e da tutti i testimoni della speranza di cui racconta l’Antico Testamento, passando attraverso Maria, la madre del Signore, ai suoi apostoli, attraverso Thomas Bekhet e Tommaso Moro per giungere fino a Massimiliano Kolbe ad Edith Stein, a Piergiorgio Frassati e tanti altri. Di essa fanno parte tutti gli sconosciuti e i non nominati, la cui fede nessuno conobbe tranne Dio, di essa fanno parte gli uomini di tutti i luoghi, di tutti i tempi, il cui cuore si protende sperando ed amando verso Cristo, l’autore e perfezionatore della fede, come lo chiama la lettera agli Ebrei. Non sono le maggioranze occasionali che si formano qui o là nella Chiesa a decidere il suo e nostro cammino. Essi, i santi sono la vera determinante maggioranza secondo la quale noi ci orientiamo. Ad essa noi ci atteniamo. Essi traducono il divino nell’umano, l’eterno nel tempo. Essi sono i nostri maestri d’umanità che non ci abbandonano nemmeno nel dolore e nella solitudine, anzi anche nell’ora della morte camminano al nostro fianco. E qui noi tocchiamo qualcosa di molto importante: una visione del mondo che non può dare un senso anche al dolore per renderlo prezioso non serve a niente. Essa fallisce proprio là dove fa la sua comparsa la questione decisiva dell’esistenza. Coloro che sul dolore non hanno nient’altro da dire se non che si deve combatterlo, ci ingannano. Certamente bisogna fare di tutto per alleviare il dolore di tanti innocenti e per limitare la sofferenza nel mondo; ma una vita umana senza dolore non c’è e chi non è capace di accettare il dolore si sottrae a quelle purificazioni che sole ci fanno diventare maturi. Nella comunione con Cristo il dolore diviene pieno di significato, non solo per me stesso come processo di ablatio, in cui Dio toglie da me le scorie che oscurano la sua immagine, ma anche al di là di me stesso esso è utile per il tutto, cosicchè noi tutti possiamo dire con san Paolo:”Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Thomas Bekhet che insieme con l’ammiratore e con Stein ci ha guidato nelle riflessioni di questi giorni ci incoraggia ancora ad un ultimo passo. La vita va più in là della nostra esistenza biologica. Dove non c’è più motivo per cui vale la pena morire, là anche la vita non vale più la pena. Dove la fede ci ha aperto lo sguardo e ci ha reso il cuore più grande, ecco che qui acquista tutta la sua forza di illuminazione anche quest’altra frase di san Paolo: “Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore se moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo sia che moriamo siamo dunque del Signore”. Quanto più noi siamo radicati nella compagnia con Gesù Cristo e con tutti coloro che a lui appartengono, tanto più la nostra vita sarà sostenuta da quella irradiante fiducia a cui ancora una volta san Paolo ha dato espressione dicendo: “Di questo io sono certo: né morte né vita né angeli né potestà né presente né futuro né potenze né altezze né profondità né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù nostro Signore”. Cari amici, da simile fede noi dobbiamo lasciarci riempire. Allora la chiesa cresce come comunione nel cammino verso e dentro la vera vita e allora essa si rinnova di giorno in giorno. Allora essa diventa la grande casa con tante dimore. Allora la molteplicità dei doni dello Spirito può operare in essa, allora noi vedremo come è buono e bello che i fratelli vivano insieme. È come rugiada dell’Ermon che scende sul monte di Sion. Là il Signore dona benedizione e vita in eterno.
La resurrezione
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- Categoria: J. Ratzinger
- Pubblicato Martedì, 18 Ottobre 2011 16:13
- Scritto da Cristoforo
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Da Ratzinger
La speranza della resurrezione dei morti rappresenta in primo luogo semplicemente la forma fondamentale della speranza biblica dell’immortalità; essa compare nel Nuovo Testamento non proprio come idea integrante di una immortalità dell’anima precedente e perciò indipendente, bensì come l’affermazione essenziale sul destino dell’uomo. Certamente vi erano già a partire dal tardo giudaismo accenni a una dottrina dell’immortalità di stampo greco, e questo sarà uno dei motivi per cui molto presto la pretesa completa del pensiero della resurrezione non verrà più compresa nel mondo greco – romano. Piuttosto, il concetto greco dell’immortalità dell’anima e il messaggio biblico della resurrezione dei morti furono considerati ognuno come una mezza risposta alla questione del destino eterno dell’essere umano ed entrambi vennero sommati come complementari l’uno all’altro. Alla conoscenza greca già data dell’immortalità dell’anima, la Bibbia aggiungerebbe la rivelazione che alla fine dei giorni anche i corpi risorgeranno per condividere in seguito per sempre il destino dell’anima, la dannazione o la beatitudine.
Rispetto a ciò, noi dovremo ricordare che originariamente non si trattava proprio di due idee complementari. Piuttosto ci troviamo di fronte a due diverse concezioni generali, che non possono essere semplicemente sommate…
Alla base della concezione greca sta l’idea che nell’uomo siano combinate due sostanze sconosciute l’una all’altra, delle quali una deperisce ( il corpo ), mentre l’altra ( l’anima ) è in sé immortale e perciò continua a esistere esternamente, indipendente da qualsiasi altra essenza. Anzi, solo nella separazione dal corpo, che le è essenzialmente estraneo , l’anima giungerebbe alla sua completa verità intrinseca.
Il concetto biblico al contrario presuppone l’unità indivisa dell’essere umano. La Scrittura, per esempio, non conosce nessun termine che definisca solo il corpo ( diviso e differenziato dall’anima ). Viceversa, la parola anima significherebbe nella maggior parte dei casi anche l’uomo che esiste in modo del tutto corporeo…
Conformemente a ciò, la resurrezione dei morti ( non dei corpi ) di cui parla la Bibbia tratta della salvezza dell’unico essere umano indiviso, non solo del destino di una ( se possibile ancora secondaria ) metà dell’uomo.
Con ciò è ora chiaro che il vero nucleo del pensiero della resurrezione non consiste affatto in quell’idea della restituzione dei corpi, a cui noi lo abbiamo tuttavia ridotto nel nostro pensiero; e questo vale anche se nella Bibbia questa immagine viene continuamente usata.
Ma qual è allora il vero senso di ciò che la Bibbia vuole annunciare agli uomini come loro speranza espressa con la resurrezione dei morti? Penso che si possa più facilmente ricavare ciò che è suo proprio, contrapponendola alla concezione dualistica dell’antica filosofia.
L’idea dell’immortalità che la Bibbia annuncia con la parola della resurrezione si riferisce a una immortalità della persona, dell’unica forma uomo. Mentre nel mondo greco l’essenza tipica dell’uomo è un prodotto di decadimento, che come tale non sopravvive, bensì segue due percorsi secondo la sua natura eterogenea di corpo e anima, per la fede biblica è proprio quest’essenza dell’uomo che continua a esistere come tale, anche se trasformata.
Si tratta di una immortalità “dialogica” ( ritorno alla vita ). Ciò significa che l’immortalità non risulta semplicemente dall’ovvietà del non poter morire dell’indivisibile, bensì dall’azione salvifica di Colui che ama, che ha il potere di farlo. L’essere umano perciò non può più morire, poiché egli è conosciuto e amato da Dio. Se tutto l’amore rivendica l’eternità, l’amore di Dio non solo la vuole, bensì la esercita e la rappresenta.
In effetti il pensiero biblico della resurrezione è derivato direttamente da questo motivo dialogico: chi prega sa nella fede che Dio ristabilirà il giusto (Gb 19,25 ss, Sal 73,23 ss); la fede è convinta che colui che ha sofferto per la causa di Dio prenderà parte anche all’adempimento della promessa ( 2 Mac 7,9 ss). Poiché l’immortalità presentata nella Bibbia non deriva dall’arbitrio dell’essere indistruttibile in sé, bensì dall’essere incluso nel dialogo con il Creatore, per questo motivo essa si deve chiamare ritorno alla vita.
Poiché il Creatore si riferisce non solo all’anima bensì all’essere umano che si realizza nel mezzo della corporeità della storia e a lui dà l’immortalità, essa si deve chiamare ritorno alla vita dei morti, cioè degli esseri umani.
Qui bisogna notare che anche nella formula del nostro simbolo apostolico, che parla di resurrezione della carne, la parola carne corrisponde al mondo dell’uomo ( nel senso del modo biblico di esprimersi, per esempio: “Tutta la carne vedrà la salvezza di Dio” eccetera ); anche qui il termine non è inteso nel senso di una corporeità isolata dall’anima.
Il fatto che il ritorno alla vita venga atteso nel giorno del giudizio universale alla fine della storia e nella comunione di tutti gli uomini, mostra il carattere co-umano dell’immortalità umana, che sta in rapporto con l’intera umanità, dalla quale, verso la quale e con la quale il singolo ha vissuto e perciò diviene beato o dannato. In sostanza, questa connessione deriva dal fatto che l’idea biblica dell’immortalità è un carattere comune all’umanità.
L’anima pensata in modo greco è completamente esterna al corpo e quindi anche alla storia, essa continua a esistere del tutto sciolta da essi e non ha quindi bisogno di nessun altra essenza. Per l’uomo inteso come unità, al contrario, la co-umanità è costitutiva: se egli deve continuare a vivere, allora questa dimensione non può essere esclusa…
Tutti questi pensieri furono possibili nelle loro piene dimensioni solo nella concretizzazione neotestamentaria della speranza Biblica. L’Antico Testamento da solo lascia la questione del futuro dell’uomo in ultima istanza certamente nel dubbio. Solo con Cristo, l’uomo che è tutt’uno con il Padre, l’uomo con il quale l’essenza dell’essere umano è entrata nell’eternità di Dio, si mostra definitivamente aperto il futuro dell’essere umano. Solo in lui, il secondo Adamo, si avvicina alla risposta quel problema rappresentato dall’uomo stesso. Cristo è del tutto uomo; per questo è in lui presente il problema che noi uomini rappresentiamo. Ma egli, allo stesso tempo, costituisce il modo che ha Dio di rivolgere la parola a noi, è “parola di Dio”. Il dialogo tra Dio e gli uomini, che prosegue sin dall’inizio della storia, è entrato con lui in un nuovo stadio: in lui la parola di Dio è diventata “carne”, realmente inserita nella nostra esistenza. Ma se il dialogo di Dio con l’uomo significa vita; se è vero che chi dialoga con Dio ha vita proprio attraverso il suo essere interpellato da colui che vive in eterno, allora questo significa che Cristo, come il discorso di Dio, è per noi esso stesso “la resurrezione e la vita” ( Gv 11,25 ). Questo significa inoltre che l’entrare in Cristo, ovvero la fede, diventa in senso qualificato un entrare in quell’essere conosciuti e amati da Dio, che costituisce l’immortalità: “Chi crede nel Figlio, ha la vita eterna” ( Gv 3,36; 5,24; 3,15 ). Solo a partire da qui si può comprendere il pensiero del quarto evangelista, il quale nella sua rappresentazione della storia di Lazzaro vuole rendere chiaro al lettore che la resurrezione non è un mero accadimento lontano, alla fine dei giorni, bensì esso accade ora attraverso la fede. Chi crede è in un dialogo con Dio, il quale è vita e sopravvive alla morte. Così si intrecciano anche la linea “dialogica”, direttamente riferita a Dio, e la linea della co-umanità del pensiero biblico sulla immortalità. Poiché in Cristo, l’uomo, noi incontriamo Dio; in Lui troviamo però anche la comunione degli altri, il cui cammino verso Dio ha luogo attraverso di Lui e quindi gli uni con gli altri.