Articoli

1introduzione

Atti dei martiri
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera. (Sunto di Cristoforo)
Gli atti dei martiri (latino: Acta Martyrum ) sono, in senso stretto, i resoconti ufficiali dei processi dei primi martiri cristiani redatti dai notai della corte.
In senso più ampio, l’espressione si usa per tutti i racconti dei processi e delle morti dei martiri. Una classificazione più attenta degli Atti dei martiri li riunisce in tre categorie:
1 ) Rapporti ufficiali degli interrogatori (in latino acta, gesta). Quelli più importanti sono pochi di numero e ci sono giunti soltanto in edizioni preparate allo scopo di edificare i fedeli.
“La passione di Cipriano” e gli “Atti dei martiri Scillitani” sono tipici esempi di questa classe. Dei due, il primo è un lavoro composito costituito da tre documenti con un minimo di aggiunte editoriali, consistente in alcune frasi di connessione. Il primo documento tratta del processo di Cipriano del 257, il secondo del suo arresto e processo del 258, il terzo del suo martirio.
2 ) Resoconti non ufficiali redatti da testimoni oculari o per lo meno da contemporanei, che pongono per iscritto testimonianze di testimoni oculari. Tale è il “martirio di San Policarpo”, in gran parte dovuto all’immaginazione dei testimoni oculari. Gli “Atti di Perpetua e Felicita” sono forse i più belli e famosi di tutti gli Acta che si sono conservati, perché includono le note autografe di Perpetua e di Saturo e una relazione del martirio risalente a un testimone oculare. A questi poi bisogna aggiungere la “Lettera della Chiesa di Vienne e Lione” che racconta la storia dei martiri di Lione, e anche altri acta non ugualmente famosi.
3 ) Documenti più tardivi rispetto alla data del martirio, redatti in base agli acta del primo o secondo tipo e perciò soggetti a revisioni di vario genere. Quello che distingue questi acta dalle classi precedenti sono gli aspetti letterari: il redattore non stava scrivendo qualcosa che doveva essere fedele alla tradizione orale o spiegare un avvenimento. Stava piuttosto redigendo un documento letterario a suo proprio gusto e secondo i suoi scopi. La terza categoria è quella in cui rientrano il maggior numero di acta.
Anche gli scritti dei Padri della Chiesa contengono molti riferimenti ai martiri: vedi ad esempio le omelie di Basilio, Giovanni Crisostomo, Agostino, Pietro Crisologo e Giovanni Damasceno.
Infine bisogna considerare le raccolte di vite che sono state scritte per essere lette pubblicamente o in privato. La più importante è la Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea (265 – 340).
Gli “Atti dei primi martiri scritti in maniera sincera e selezionati” del benedettino Theodore Ruinart (Parigi 1689) sono considerati una pietra miliare e furono frequentemente ristampati. Lo studio critico degli Atti dei martiri è stato portato avanti vigorosamente a partire dall’inizio del ventesimo secolo, ed il punto di vista dei critici cambiò notevolmente rispetto a quello che aveva Ruinart quando fece la sua raccolta. Molti acta, che Ruinart considerava veridici, non sono più considerati tali. D’altro canto, la scoperta di testi antichi e le ricerche archeologiche del De Rossi e di altri hanno confermato varie storie di martirio. Il problema principale, quindi, per gli storici moderni, è scoprire la storia letteraria degli acta che sono pervenuti sino a noi. Non si può negare che furono fatti tentativi di mantenere intatta la storia dei martiri della Chiesa. Di fatto la lettura pubblica degli acta nelle chiese sarebbe una garanzia della loro autenticità.
Durante la persecuzione di Diocleziano ci deve essere stata una grossa distruzione di documenti, col risultato che la Chiesa avrebbe perso i criteri della storia dei suoi martiri. Ciò sembra essere specialmente vero nel caso di Roma, che nonostante il numero e la fama dei suoi martiri possiede così pochi acta autentici. Apparentemente già nella seconda metà del quarto secolo i cristiani di Roma avevano perso il filo di queste tradizioni. La Roma cristiana aveva i suoi martiri sotto i piedi, celebrava la loro memoria con devozione intensa, e tuttavia conosceva ben poco della loro storia.

Introduzione di Cristoforo
Volendo noi proporre la lettura degli Atti dei martiri, ci siamo indirizzati in un primo momento alla raccolta del Ruinart.
La vastità dell’opera e le riserve riguardo all’autenticità di alcuni atti, portate avanti dagli studiosi odierni, hanno poi rivolto altrove il nostro interesse.
È così che alla fine abbiamo privilegiato la raccolta di acta fatta da Sant’Alfonso di Liguori.
Come si potrà leggere nella sua prefazione, Sant’Alfonso ha cercato di fare una selezione fra i numerosi scritti a noi pervenuti, scegliendo quelli che, a suo parere, sembrano più autentici e in ogni caso edificanti.
Quale migliore giudizio e spirito critico potevamo noi trovare di colui che la Chiesa annovera tra i suoi Dottori?
Detto questo, alcune nostre considerazioni.
È indubbio che gli atti dei martiri sono giunti a noi in forma in parte riveduta. È evidente in alcuni casi una sorta di esagerazione per quel che riguarda la crudezza delle torture a cui venivano sottoposti. E questo per far meglio risaltare il coraggio e la forza di sopportazione della sofferenza, che veniva loro data dalla fede in Cristo. Se si può mettere in discussione la descrizione dettagliata dei tormenti, la loro durata, la capacità di sopravvivenza agli stessi, resta il fatto che il coraggio con cui i martiri affrontavano la morte si può dare per storicamente certo.  Se così non fosse, si sarebbe perso il ricordo di una loro diversità  rispetto ai comuni mortali, non solo per la santità dimostrata in vita, ma ancora di più nel momento del loro supplizio.
Quello che è per noi di maggior interesse, perché storicamente più fondato, è l’interrogatorio a cui venivano sottoposti dai giudici e le risposte che davano loro.
Troviamo qui la schiettezza della fede, così come esce dall’immediatezza del cuore, che mette il timore di Dio al di sopra di ogni altro timore.
L’incalzare delle domande e un giudizio di condanna già scontato in partenza, rendono conto in alcuni casi della secchezza delle risposte, che non ammettono ulteriori, inutili, insistenze nella richiesta di un sacrificio agli dei, che per un cristiano è aperto e conclamato rinnegamento della fede in Cristo.
Se possiamo distinguere in alcuni atti la sostanza del discorso da quello che può essere un suo corollario aggiunto dallo scrittore, dobbiamo dire che nei testi ritenuti più autentici non si indugia poi più di tanto sui particolari ad effetto e non si prolunga il discorso oltre lo strettamente necessario.
Cosa dobbiamo ritenere più edificante e più importante per la fede del moderno lettore?
Innanzitutto abbiamo un quadro veritiero della Chiesa dei primi anni, che vive un’autenticità di fede non più riscontrabile nei secoli successivi.
È fuori discussione che il rapporto di fede con il Signore può solo avere un valore assoluto, conforme al primo e più grande dei comandamenti: “ Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima con tutte le tue forze”. Si vive per Dio e solo per Dio, a Lui offrendo la totalità della propria vita, senza riserva alcuna, fino al martirio cruento, qualora sia richiesto da una testimonianza che vuole essere secondo verità. Non esistono cristiani di serie A e di serie B: ci possono essere condizioni di esistenza diverse, ma tutti siamo ugualmente chiamati a donare la nostra vita. Il martirio unisce in un unico abbraccio persone vergini e persone sposate, giovani e vecchi, ricchi e poveri.  Per Cristo si lascia tutto, per riavere tutto in un modo infinitamente più grande e più vero, in quella comunione di cuori e di volontà che è data soltanto dal Figlio di Dio,  fondamento e fine della vita, nostro Salvatore e Redentore, che non ha operato soltanto in un tempo e per un tempo, ma che è e sarà con noi fino alla fine dei tempi. Se grande è il timore per la sofferenza che è data dal martirio, ancora più grande è la gioia che viene dal Signore quando la nostra vita è interamente abbandonata nelle Sue mani, perché si faccia di noi la Sua volontà; come anche Cristo ha fatto la volontà del Padre e siede perciò alla Sua destra , nell’attesa che si compia il numero degli eletti. Se noi siamo deboli, Lui è forte, se noi siamo dei perdenti, Lui è il trionfatore, che sempre ed ovunque in virtù della Sua grazia ci dona la vittoria sulle potenze del Maligno. I persecutori non sono dei nemici, ma uomini schiavi del Satana, strumenti docili del suo volere, degni del nostro amore: sia il nostro sacrificio un’offerta a Dio gradita per la conversione di tutti gli uomini. Nessun rancore, nessuna ostilità o volontà di ritorsione per coloro che ci perseguitano, ma un desiderio, da Dio benedetto, che il Signore converta i loro cuori e li  faccia entrare nella comunità degli eletti che ha nome di Chiesa.
Non c’è salvezza fuori dal Cristo e dalla sua Chiesa. E questo deve essere testimoniato con l’esempio di una vita ubbidiente ai Suoi comandamenti e con l’annuncio di una Parola, che non ammette altri salvatori e salvezze diverse. O si è con Cristo o si è contro di Cristo. Non si scende a patti, se pur ragionevoli, con il nemico, che è il mondo, ovvero con quella mentalità dominante nelle masse, creata e agita dal Satana. Con quale intento? Con l’unico intento di sradicare dai cuori ogni coscienza di Dio e far tacere ogni lingua che proclami Gesù Cristo,  Salvatore di tutti gli uomini. Non c’è salvezza se non in Lui e per Lui. Va proclamato il suo Nome in maniera aperta e conclamata, senza timore di quello che potrà soffrire la nostra carne. Gli Atti dei martiri sono di perenne attualità. Un richiamo forte, senza  discussioni, ad una fede che non conosce le incertezze , i dubbi, le scappatoie sottili offerte dal Satana alla ragione umana, per amore del quieto vivere, per una felice concordia  tra spiriti che non si possono ridurre ad unità. La pervicace ed ostinata proclamazione della fede in Cristo, come unica salvezza, fatta non solo nell’assemblea dei credenti, ma anche davanti  ai magistrati dello stato, infastidiscono gli spiriti meno illuminati. La secchezza e la nettezza delle domande e delle risposte, un dialogo impossibile tra sordi , possono anche fare nascere il sospetto di quel fanatismo, che è sempre attuale in alcuni gruppi o movimenti religiosi di ogni tempo.  Siamo molto lontani e, all’antipodo, di quello spirito ecumenico tanto esaltato oggi, che vuole mettere tutti insieme, ad ogni costo, in nome dei principi e dei criteri dettati dal buon senso e dalle superiori ragioni di una pacifica convivenza. Non c’è pace, ma guerra continua tra i figli delle tenebre e i figli della luce. Qualsiasi accomodamento, qualsiasi concessione fatta alla non fede del mondo è un tradimento del Cristo e una vanificazione della salvezza che Egli ci ha ottenuto in virtù del suo sacrificio. Non esiste fede in Gesù né testimonianza alcuna di fronte al mondo che non sia a caro prezzo, perché a caro prezzo il Figlio di Dio ci ha riscattato dal potere del Maligno. Il martirio è  assimilazione piena all’amore del Cristo, che dopo aver donato tutto se stesso al Padre, nelle sue mani rimette la sua stessa vita, fino all’accettazione della morte e della morte in croce. Non esiste nella Chiesa dei primi secoli aspirazione o tensione ad una vita migliore che non sia  desiderio vivo, attesa continua e perseverante di un regno che non è di questo mondo.
Nella primitiva comunità di fede troviamo ben viva ed operante quella dimensione escatologica dell’esistere che fa di noi uomini pellegrini e viandanti su questa terra. Non in senso ideale, ma reale, calato nella concretezza della esistenza quotidiana, a tutti manifesto allorchè si rinuncia a questa mondo per entrare in un altro. La morte del martire è proclamazione ed affermazione indiscutibile ed incontestabile dell’unica vita che ha valore: quella che ci riunisce per sempre nell’Uno che è il Cristo, nell’eterno Amore, nella gloria dell’eterno Padre.
Chi si accosta alla testimonianza di fede dei martiri vedendo in essi l’eccezione e non la norma della fede, si sbaglia ed è fuori strada. C’è un martirio di sangue, che è proprio di certi tempi e spazi della storia, e c’è un martirio che è sempre vivo e sempre opera e dà frutti nella Chiesa. È quello dei cristiani che testimoniano in ogni tempo che non si vive se non per Cristo, annunciando il Suo Vangelo,  proclamando ad alta voce, a pochi e a tutti, che vi è un unico Salvatore e Redentore .
Se non siamo fermamente convinti che non vi è altra salvezza all’infuori di Cristo, vano è il sangue da Lui versato; ancora più vano  quello versato dai suoi santi in ogni tempo.
Possiamo avere anche dubbi riguardo alla correttezza storica del racconto: può anche essere che il martirio di questi santi sia stato in tono più semplice e dimesso, come semplice e dimessa, non senza terrore e pianto, fu la morte in croce di Cristo, in tutto fatto simile a noi. Ma che i martiri siano dei vittoriosi, dei vincenti per la vita eterna, ben è testimoniato dallo Spirito Santo in tutti i cuori di  coloro che vivono  per il Signore. Nei momenti della prova, dello sconforto, della supplica a Dio Padre, essi sono accanto a noi, insieme con il Cristo e gli angeli, per dare coraggio e forza alla nostra fede. Non c’è solitudine per chi ha fede in Cristo: c’è solitudine soltanto nei cuori che hanno rifiutato la salvezza donata dal cielo. Miriadi di angeli e di santi vivono accanto a noi, pregano il Signore per la nostra salvezza, si tengono pronti per portare aiuto e soccorso ovunque si innalzi al cielo una preghiera di supplica a Dio.
Non ci può essere amore a Dio che non sia al contempo amore per tutte le creature, angeli e santi, che vedono faccia a faccia la Sua gloria. Dallo splendore di questa gloria celeste essi attingono grazia e benedizione per tutti noi, che viviamo nell’attesa della venuta del Signore: pellegrini e viandanti su questa terra, ma già cittadini della Gerusalemme celeste.

Breve prefazione all’opera da parte del suo autore, San Maria Alfonso de Liguori ( adattamento del testo alla lingua corrente di Cristoforo )

Si parla di alcuni martiri in particolare, poiché non intendiamo in questo libro fare una storia di tutti i martiri che sono stati nella Chiesa, ma solamente  narrare alla rinfusa, senza ordine di tempo, o di persone, le vittorie di alcuni santi che dimostrarono maggior coraggio nei loro combattimenti e soffrirono i più acerbi tormenti che poté inventare la crudeltà dei tiranni. In alcuni racconti che qui esporremo, sembra incredibile come i persecutori della fede abbiano potuto infierire in tal modo contro dei santi martiri, che erano innocenti e non facevano male ad alcuno. Ma ecco donde nasceva questa crudeltà dei tiranni: nasceva innanzitutto dall’odio che generalmente portavano ai cristiani, i quali con le loro azioni virtuose erano un forte rimprovero per la loro vita infame: nasceva anche dalle istigazioni dei demoni, che odiavano con maggior furore quei santi che con il loro esempio promuovevano maggiormente la fede ed incitavano gli altri ad imitarli. Ma particolarmente nasceva dalla stizza che questi tiranni concepivano verso i martiri, nel vedersi vinti da fanciulli, da giovani ragazze e anche da uomini semplici ed ignoranti, che rinfacciavano ad essi la loro pazzia nel voler seguire una falsa religione, che ammetteva tutti i vizi e faceva adorare dèi falsi e malvagi, che nella loro vita (secondo quanto gli stessi Gentili insegnavano) non avevano dato altri esempi se non di turpitudini e scelleratezze tali che erano detestate da tutti gli uomini. Aumentava poi la loro rabbia il vedere i molti miracoli che avvenivano per mezzo di quei santi. Vedevano le fiere accucciarsi ai loro piedi, vedevano i carboni ardenti, i piombi liquefatti, che non bruciavano più e cose simili. Essi si mettevano a gridare: magie, magie prodigi, incantesimi! Ma i popoli a quei prodigi si convertivano ed abbracciavano la fede a migliaia. E così i giudici fremevano di maggiore rabbia. Credevano essi di portare spavento inventando nuovi tormenti e di spegnere la fede uccidendo i cristiani; ma quanto più moltiplicavano i tormenti e quanti più ne uccidevano, invece di diminuire cresceva il numero dei fedeli che si offrivano al martirio. Narra Tertulliano che essendo governatore in Asia un certo Arrio, un giorno gli si presentò una moltitudine così grande di cristiani, che confessavano Gesù Cristo, che egli ebbe rincrescimento di far morire tanta gente. Perciò ne fece uccidere solo alcuni e a tutti gli altri disse: “In quanto a voi, se avete voglia di morire, non vi mancano precipizi in cui gettarvi; andate via!”. E così li licenziò. Dunque come si è detto sopra non si intende qui fare una storia generale dei martiri ma solo di alcuni di loro più illustri. Né qualcuno si meravigli, se io parlando di qualche martire non riferirò tutte quelle circostanze che si trovano scritte in altri libri; dal momento che io ho cercato di esporre solo quei fatti che sono più accertati e ricavati da autori approvati, tralasciando alcune cose che non asserisco essere false, ma che ho trovato essere dubbiose, essendo dedotte da atti non sicuri e sospetti di falsità. Scrive il cardinale Baronio nei suoi annali che nello scrivere le vite dei santi “è meglio preferire poche cose e certe che molte ed incerte; perché le poche fedeli alla verità sono accolte con soddisfazione dal lettore che può trarne profitto. Al contrario, quando sono proposte cose non sicure, mescolate con le vere, allora accade che si sospetti anche di quelle vere”. E perciò conviene tralasciare quei fatti sospetti di falsità, purché (aggiungo) il sospetto non sia campato in aria, ma fondato su qualche ragionevole indizio. Poiché del resto quando l’autore che li riporta non è reputato comunemente di mala fede, che faccia di ogni erba fascio, ma antico, oppure  probo, dotto e diligente e non vi è argomentazione positiva che gli atti del martire siano falsi, non è giusto rigettare le cose che asserisce, soprattutto quando vi è di quei fatti una indiscussa ed antica tradizione. Dico ciò, perché alcuni autori sembra che si facciano un merito col dubitare di ogni cosa. La critica e il discernimento nella scelta dei fatti e degli autori  sono ben necessari per onore della verità; ma quando la critica è eccessiva, anche essa nuoce alla verità. Come è segno di debolezza voler credere tutte le cose che si scrivono senza fondamento, così all’incontrario è temerarietà voler mettere in dubbio ogni cosa; e specialmente voler togliere credito ai fatti più prodigiosi dei santi, solo perché sono molto prodigiosi. Dobbiamo persuaderci che Dio può molto più di quello che noi possiamo comprendere con i lumi infermi della nostra mente. Io nel descrivere i seguenti trionfi dei martiri ho usato tutta la diligenza che mi è stata possibile, ricavandoli da più autori dotti ed accurati. Ho tolto tutte le parole in  eccesso, ed anche certe cose che non facevano al caso ed ho procurato di scrivere in breve la sola sostanza, e con chiarezza, scegliendo fra i trionfi dei martiri quelli che sono più pieni di fatti eroici, di insegnamenti utili: quelli insomma che sono per noi di maggiore edificazione. Orsù cominciamo a descrivere le loro vittorie.

 

2 POLICARPO, IGNAZIO, PIONIO, GIUSTINO, PERPETUA E FELICITA, CRISOSTOMO

S. Policarpo, vescovo di Smirne
S. Policarpo fu discepolo dell’apostolo S. Giovanni. Egli nacque verso l’anno 70 di Gesù Cristo. Dalla sua infanzia fu cristiano, e per la sua gran pietà fu caro agli apostoli suoi maestri. Scrive san Ireneo che egli ebbe la fortuna di conoscerlo nella sua gioventù, quando il santo era già molto vecchio. E dice che gli restarono impresse le sante istruzioni che il santo dava agli altri. Gli sembrava di sentire narrare dalla sua bocca i discorsi che egli aveva tenuto con S. Giovanni ed altre persone che avevano conosciuto Gesù Cristo. S. Policarpo fu fatto vescovo di Smirne dallo stesso S. Giovanni, prima che questi fosse esiliato nell’isola di Patmos. È cosa certa che le lodi date dall’apostolo nella sua Apocalisse all’angelo, ossia al vescovo di Smirne, siano state dirette a S. Policarpo con cui gli disse Gesù Cristo: “Conosco la tua tribolazione e la tua povertà, ma sei ricco. Sii dunque fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita”. Il santo resse per settanta anni la Chiesa di Smirne, con tanta lode e saggezza che egli divenne come il capo di tutti i vescovi dell’Asia, per la grande venerazione che gli portavano. Egli all’età di quasi ottanta anni andò a Roma per consigliarsi con il Papa Aniceto su alcuni punti di disciplina, e specialmente riguardo al giorno in cui si dovesse celebrare la Pasqua. La dimora di San Policarpo in Roma molto giovò ai fedeli, poiché egli confuse le nuove eresie che andavano allora serpeggiando. Un giorno, incontrandosi con lui, l’eresiarca Marcione gli domandò se lo conosceva: il santo rispose:  “Sì, ti conosco primogenito del demonio.”
Ritornato San Policarpo nell’Asia ebbe a soffrire la persecuzione che l’imperatore Marco Aurelio mosse contro la Chiesa e specialmente contro la chiesa di Smirne, dove il proconsole Stazio Quadrato usò molte crudeltà contro i cristiani. Tra le altre fece  qui divorare dalle fiere dodici fedeli condotti da Filadelfia. Dalla qual cosa animati, gli idolatri, che erano molti, chiedevano la morte dei cristiani e soprattutto di Policarpo, il quale insisteva nel dare loro coraggio, per soffrire ogni tormento ed ogni morte per Gesù Cristo. Il santo, tuttavia, nonostante quei clamori contro la sua persona, voleva restare nella città per fare la solita vita pastorale, ma importunato dai fedeli fu costretto a ritirarsi in una casa di campagna, dove quel tempo che vi dimorò lo spese tutto nel pregare giorno e notte. Ma non vi dimorò che pochi giorni, poiché fu presto preso dai soldati. Tre giorni prima di essere preso ebbe in sogno una visione, in cui gli parve di vedere che il guanciale dove teneva appoggiata la testa andava in fiamme. Dalla qual cosa egli comprese che gli aspettava un martirio di fuoco. Svegliatosi disse ai suoi fratelli che certamente egli doveva essere bruciato vivo. I soldati continuavano a cercarlo, per cui i cristiani di nuovo lo costrinsero a nascondersi in un’altra casa e il santo per compiacerli si ritirò altrove. Ma in quella casa, avendo i nemici trovato un servo, lo torturarono al punto che alla fine rivelò dove San Policarpo si era ritirato. Il santo fu avvisato di ciò ma non volle fuggire da quel luogo e disse allora: “Sia fatta la volontà di Dio”. Pieno di santo coraggio, prima si offrì a Dio quale vittima destinata ad onorarlo e lo pregò di accettare il sacrificio della sua vita e poi con giubilo egli stesso andò incontro ai ministri della giustizia che già erano venuti a catturarlo. Li fece entrare in quella casa dove diede loro una cena abbondante. Domandò che egli concedessero un po’ di tempo per raccomandarsi a Dio ed ottenutolo si mise in preghiera e vi rimase due ore. Il comandante e i soldati restarono tutti pieni di confusione nel vedere quel vescovo così venerabile, ma dovettero eseguire la loro commissione. Allo spuntare del giorno partirono e, poiché il viaggio a Smirne era lungo, posero quel santo vecchio sopra un asinello, ma per la via, incontrandosi con due ufficiali di primo grado chiamati Erode e Niceta, essi lo fecero salire sul loro cocchio. Discorrendo poi nel cocchio cercarono a tutta forza di convincerlo ad ubbidire agli imperatori. Fra le altre cose gli dissero: “Ma che male c’è nel sacrificare agli dei per salvare la vita?”. Il santo rispose con fortezza che avrebbe sofferto tutti i supplizi e la morte piuttosto che consentire a quello che gli consigliavano. Ma dopo questa risoluta risposta, quelli, sdegnati, lo trattarono da ostinato e per la rabbia lo sbalzarono dal cocchio con tanta violenza che il santo, cadendo, si ruppe l’osso della gamba. Nonostante ciò, conservando San Policarpo la sua tranquillità, andò lieto all’anfiteatro, dove doveva lasciare la vita. All’entrare in quel luogo, udì una voce del cielo che gli disse: “Coraggio, Policarpo, sta saldo”. Qui, essendosi presentato al proconsole, questi cominciò a corromperlo dicendogli: “Policarpo tu sei vecchio, bisogna che ti liberi dai tormenti che non hai la  forza di sopportare. Giura per la fortuna di Cesare e di’ con il popolo: “Siano sterminati gli empi”. Il santo subito rispose: “Sì, siano sterminati gli empi”; ma intendendo per empi gli idolatri. Il proconsole credendo con ciò di averlo guadagnato gli disse: “Orsù, a questo punto maledici  Gesù Cristo ed io ti manderò assolto”. Allora il santo, udendo ciò rispose: “Sono ottantasei anni che io servo Gesù Cristo ed egli non mi ha fatto alcun male, anzi ne ho ricevuto tanti favori. E come posso ora maledirlo? Come posso maledire il mio Creatore, il mio Salvatore, che è anche il mio giudice, il quale giustamente punisce chi lo nega?”. Continuando il tiranno ad insistere perché rinnegasse Gesù Cristo, rispose Policarpo che egli era cristiano e che stimava sua gloria dare la vita per Cristo. Il proconsole minacciò che l’avrebbe fatto sbranare dalle fiere. Il santo disse: “Falle venire presto, io non posso convertirmi dal bene al male. Queste mi gioveranno per passare dalle sofferenze alla gloria del cielo”. Quello replicò che l’avrebbe fatto bruciare vivo e il santo rispose: “Il fuoco non dura che un momento: vi è un altro fuoco eterno e questo io temo. Perché tardi ad eseguire il tuo proposito?”. Gli disse ciò con tanta intrepidezza che lo stesso tiranno ne restò confuso. Ma tuttavia fece gridare dal banditore che Policarpo aveva confessato con la sua bocca di essere cristiano; per cui la turba dei Gentili gridò: “Muoia questo distruttore dei nostri dei”. Ma poiché la festa era terminata e il combattimento delle fiere era finito, si decise che Policarpo, invece di essere divorato dalle fiere, fosse fatto morire nel fuoco. Subito fu preparata la catasta dagli idolatri ed anche dai Giudei che si aggiunsero a fare da carnefici. Il santo si spogliò da se stesso delle vesti e vedendo che quelli si preparavano ad inchiodarlo al palo disse: “Lasciate questi chiodi. Colui che mi dà forza di soffrire  il fuoco  mi darà anche la forza di star fermo nel fuoco senza i vostri chiodi”. Tralasciarono dunque di inchiodarlo, ma solamente gli legarono le mani dietro la schiena e lo posero sulla catasta, dove il santo alzò gli occhi al cielo. Essendosi già alzata la fiamma disse: “O Dio Onnipotente, ti ringrazio, perché mi fai partecipe della passione di Gesù Cristo, tuo Figlio, col rendermi degno di sacrificarmi in tuo onore, perché io venga a lodarti in cielo e a benedirti per tutta l’eternità”. Essendosi poi acceso il fuoco alla legna, le fiamme non toccavano il santo, ma si fece di loro un cerchio come una capanna a lui d’intorno, spirando  un soave profumo dalle sue carni. I pagani, vedendo che il fuoco lo risparmiava, sdegnati, per così dire, contro lo stesso fuoco, lo trafissero con una spada e dalle ferite uscì tanto sangue che spense il fuoco e così compì San Policarpo il suo sacrificio, come si narra nella lettera dei fedeli di Smirne inviata a tutte le chiese. Il suo martirio avvenne verso l’anno 160.

San Ignazio martire
S. Ignazio, vescovo di Antiochia, chiamato anche Teoforo, cioè portatore di Dio, visse nel primo secolo della Chiesa. Egli fu discepolo degli apostoli e specialmente di S. Giovanni. Da essi fu battezzato e poi ordinato vescovo della chiesa di Antiochia, che fu fondata e governata prima dall’apostolo San Pietro, e dove i discepoli di Gesù Cristo presero il nome di cristiani.
San Ignazio prese il governo di quella chiesa dopo la morte di San Evodio, succeduto a San Pietro e morto nell’anno 69 del Signore… Il Santo governò quella chiesa con tanto zelo che tutte le chiese della Siria ricorrevano a lui come ad un oracolo. Durante la persecuzione di Domiziano ebbe molto a patire e a faticare con grande rischio della sua vita per la conservazione della fede, dando coraggio a tutti perché non prevaricassero. Del resto sin da allora sospirava il martirio, solendo dire che non credeva di amare Gesù Cristo se non quando avesse dato per esso la vita. Morto Domiziano nell’anno 96 e succedutogli Nerva, si calmò la tempesta. Ma in questo frattempo non cessavano gli eretici di turbare la Chiesa. Per questo il santo, nella lettera che scrisse ai fedeli di Smirne, li esortò a guardarsi di parlare con loro: Contentatevi, dice, di pregare Dio per costoro, che si astengono dall’eucaristia, perché negano che vi sia in essa la carne di Gesù Cristo, che ha patito per i nostri peccati. Nell’anno 105 tornò la tempesta sotto l’imperatore Traiano, il quale avendo vinto gli Sciti e i Daci, per onorare i suoi dei, obbligò tutti con un suo editto a sacrificare in loro onore sotto pena di morte. Marciando poi egli contro i Parti e ritrovandosi in Antiochia, seppe qui con quanto zelo e frutto S. Ignazio promuoveva la religione cristiana. Per questo lo chiamò alla sua presenza e venuto gli disse: “Sei tu quel cattivo demonio chiamato Teoforo, che  prendi  piacere a violare i nostri comandi di sacrificare ai nostri dei e seduci questa città predicando la legge di Cristo?”. Rispose Ignazio: “Sì, principe, io mi chiamo Teoforo, ma da nessuno Teoforo può essere chiamato demonio, perché i demoni vanno lontano dai servi di Dio. Se mi chiami demonio, perché ad essi io sono molesto con il dissipare le loro insidie, ben merito tale nome”. Traiano lo interrogò che cosa significasse il nome di Teoforo. Rispose: “Significa portatore di Dio”. Replicò Traiano: “Tu porti Dio nel cuore? E non abbiamo in noi anche gli dei che ci aiutano?”. Allora Ignazio con santo ardire disse: “E’ un errore, o principe, dare il nome di dei ai demoni che voi altri adorate; uno è il vero e solo Dio: creatore del cielo e della terra e non vi è che un solo Gesù Cristo, unico suo Figlio. L’imperatore riprese: “Parli tu di colui che fu crocifisso sotto Ponzio Pilato?”. E il santo replicò: “Sì, parlo di colui che ha condannato la malizia dei demoni a stare sotto i piedi dei cristiani, che portano Gesù nel cuore.” E poi gli disse che egli sarebbe stato molto felice e felice il suo regno se avesse creduto in Gesù Cristo. Ma l’imperatore riguardo a ciò non gli diede ascolto e promise di farlo sacerdote di Giove e padre del Senato se avesse sacrificato ai suoi dei. Il santo rispose che gli bastava essere sacerdote di Gesù Cristo, per cui anelava di spargere il sangue. Allora Traiano sdegnato pronunciò la sentenza che Ignazio fosse condotto incatenato dai soldati a Roma, per essere pasto delle fiere e servire di spettacolo al popolo.
S. Ignazio, sentita la sentenza, alzando gli occhi al cielo disse: Ti ringrazio, Signore, che ti sei degnato di farmi degno di darti una prova del mio amore, sacrificandoti la mia vita. E perciò desidero che presto vengano le fiere a sbranarmi e così ti offra il sacrificio di tutto me stesso. Poi presentò le mani per essere incatenato e in ginocchio baciò le catene e lieto se le cinse. Raccomandò poi a Dio con lacrime la Chiesa e subito fu consegnato ai soldati; ed andò a Seleucia con due suoi diaconi, Filone ed Adatopode, i quali poi si crede abbiano scritto gli atti del suo martirio. Da Seleucia passò a Smirne. Ovunque il santo passava non smetteva di confortare i fedeli a perseverare nella fede e nella preghiera, ad amare i beni del cielo e a disprezzare quelli della terra. I cristiani in folla gli andavano incontro, per riceverne la benedizione; specialmente i vescovi e i presbiteri delle chiese dell’Asia venivano insieme a salutarlo e nel vederlo andare così allegro alla morte piangevano per tenerezza. Giunto a Smirne, si abbracciò con San Policarpo con vicendevole consolazione. Di là scrisse tre lettere alle chiese di Efeso, di Magnesia, di Tralli, piene di Santo Spirito. Scrisse fra le altre cose agli Efesini: “Io per Gesù Cristo porto le mie catene, che sono per me perle spirituali, di cui faccio più conto  di tutti i tesori del mondo.”
Sapendo poi che da Smirne dovevano andare a Roma alcuni di Efeso, per via più corta della sua, scrisse per essi la lettera, che  è la più celebre, ai fedeli romani.
La lettera è lunga; io ne trascrivo qui le cose più rilevanti in succinto. Scrisse loro così: “Lasciatemi esser cibo delle fiere, e per loro mezzo  giungere al possesso del mio Signore. Sono strumento di Dio, devo essere macinato dai denti delle fiere, per essere un pane puro di Cristo. Goda io delle bestie, e desideri trovarle pronte a divorarmi. Io stesso le alletterò, affinché presto lo facciano, né mi rispettino, come hanno fatto con altri martiri. Quando esse non volessero venire, io le costringerò a sbranarmi. Perdonatemi, figli miei, io ben so quello che mi giova. Ora comincio ad essere discepolo di Cristo, mentre nulla desidero delle cose visibili, per ritrovare Gesù Cristo. Il fuoco, la croce, le fiere, lo spezzamento delle ossa, la divisione delle membra, lo sbranamento del corpo, e tutti i tormenti inventati dal demonio vengano sopra di me, purché io mi unisca con Gesù Cristo. Meglio è per me morire per Gesù Cristo, che essere re di tutto il mondo. Perdonatemi, fratelli; non  impeditemi di giungere alla vita, e non  opponetevi alla mia morte. Lasciatemi imitare la passione del mio Dio. Non  invidiatemi la mia buona sorte. E se quando sarò da voi, io vi parlassi altrimenti, non mi ascoltate, ma attenetevi a quello che ora vi scrivo. Ogni mio amore (eros, passione ) è stato crocifisso, non mi curo di alcun cibo corruttibile; desidero il pane della vita che è la carne di Gesù Cristo e la bevanda del suo sangue. Se consumerò il mio sacrificio sarà segno che voi l’avete voluto e che veramente mi amate.”
Giunse poi a Troade, dove scrisse altre lettere a Filadelfia, a Smirne, ed un’altra al suo amico Policarpo, a cui raccomandò la chiesa di Antiochia. Temendo i soldati di giungere a Roma troppo tardi, dal momento che i giochi pubblici stavano per finire, affrettarono il cammino; per altro con piacere del santo, che anelava arrivare presto al suo supplizio. Giunti che furono in Roma, i cristiani vennero in folla ad incontrarlo e a salutarlo. Pensavano essi di indurre il popolo a non chiedere la sua morte; ma il santo rispose loro ciò che aveva scritto prima nella sua lettera e li quietò.. Entrato in Roma si inginocchiò con gli altri cristiani, offrendosi a Dio per quel suo prossimo sacrificio, e pregò per la pace della Chiesa. Subito fu condotto nell’anfiteatro, ove erano accorsi innumerevoli Gentili. Udendo egli i ruggiti delle fiere replicò quelle parole: “Sono frumento di Dio, devo essere macinato dai denti delle bestie, per essere offerto come pane puro a Gesù Cristo”. Il santo in un momento fu divorato dai leoni, come  già aveva desiderato e qui allora, mentre spirava, fu inteso pronunciare il santo nome di Gesù. Altro non restò del suo corpo che le ossa più dure, le quali furono prese dai suoi due diaconi e trasportate in Antiochia. Nella notte seguente apparve loro sant’Ignazio risplendente in una grande luce. Il suo martirio avvenne il 20 dicembre dell’anno 107. Essendo poi stata Antiochia distrutta dai Saraceni, le reliquie del santo furono portate a Roma nella chiesa di San Clemente, ove ora si venerano con grande devozione. Gli atti del martirio di Sant’Ignazio sono riportati dal Ruinart nella sua raccolta degli Atti sinceri dei martiri.

San Pionio
San Pionio fu prete della Chiesa di Smirne. Egli fu molto dotto ed ardeva di un grande amore verso Gesù Cristo. Per lo zelo che aveva della sua gloria si impiegò nell’acquisto delle anime ed ebbe la sorte di convertire molti infedeli e di ritrarre molti peccatori dalla loro malvagia vita. Ardeva in quel tempo, verso l’anno 250, la persecuzione contro i cristiani, sotto l’impero di Decio. Il santo stava in continua preghiera preparandosi al martirio nel caso che fosse preso dagli idolatri. Un giorno, mentre esso pregava con Asclepiade, uomo molto devoto e con un’altra donna chiamata Sabina pure devota, gli fu rivelato che il giorno seguente tutti e tre sarebbero stati arrestati a motivo della fede. Tutti e tre allora offrirono di buon animo le loro vite a Gesù Cristo e si posero una fune al collo per fare intendere ai soldati che sarebbero venuti a prenderli che essi erano pronti al martirio. Ed ecco che la mattina seguente venne un certo Palemone, il quale soprintendeva alla custodia dei templi, con molti soldati e disse loro: “Sapete voi dell’ordine del principe  di sacrificare tutti agli dei dell’impero?”. Rispose San Pionio: “Quel che sappiamo noi è l’ordine di Dio, di non sacrificare ad altri che ad esso, unico Signore del tutto”. Detto ciò, furono imprigionati e condotti alla piazza, dove giunto San Pionio, rivolto ai nemici della fede… manifestò che esso non avrebbe mai, per qualunque tormento, adorato i loro idoli che empiamente chiamavano dei. Palemone gli disse: “Perché vuoi, Pionio, privarti della vita presente e della bellezza della luce nei giorni che godi?”. Rispose il santo: è bella questa luce, ma vi è una luce più bella e una vita più amabile alla quale aspirano i cristiani”. Il popolo insisteva che sacrificasse ed egli rispose: “Il nostro proposito è di vivere nella nostra fede, ed in questo vogliamo perseverare”. Il popolo desiderava che il santo parlasse nel teatro per poterlo udire più comodamente, ma alcuni dissero a Palemone che se gli dava libertà di parlare sarebbe forse  nata qualche sollevazione nel popolo. Pertanto quegli disse a Pionio: “Se ti rifiuti di sacrificare, vieni almeno con noi nel tempio”. Replicò il santo: “Non torna conto ai vostri dei che noi entriamo nei vostri templi”. Dunque, ripigliò Palemone, non vuoi lasciarti persuadere?. E Pionio: “Piacesse a Dio che avessi io potuto persuadere voi a essere cristiani!”. Risposero alcuni idolatri: “Non potresti costringerci a questo anche se fossimo bruciati vivi”. E il santo disse: “Ma peggio sarà bruciare nel fuoco dopo morte, per sempre”. Palemone desiderava salvare la vita a Pionio, per questo non cessava di esortarlo a sacrificare. Ma il santo risolutamente gli rispose: “Tu hai ordine o di persuadere me o di punirmi; giacché non puoi persuadermi devi punirmi”. Sdegnato allora Palemone gli disse: “Ma perché non vuoi sacrificare?”. E Pionio: “Perché sono cristiano”. Quegli lo interrogò: “E qual è il Dio che tu adori?”. E il santo: “Adoro il Dio onnipotente, che ha creato il tutto e noi, come ho imparato da Gesù Cristo”. Sacrifica almeno all’imperatore, aggiunse Palemone. E il Santo: “Non sia mai vero che io sacrifichi ad un uomo”. Il giudice allora gli chiese giuridicamente come si chiamasse e di quale chiesa fosse. Il santo rispose: “Mi chiamo cristiano, e sono della Chiesa cattolica”. E lo stesso risposero gli altri suoi tre compagni, che furono poi tutti mandati in prigione. Mentre andavano, alcuni dissero che molti cristiani avevano idolatrato e il santo rispose: “Ognuno è padrone della propria volontà: io mi chiamo Pionio”. Volendo con ciò dar coraggio agli altri ad imitarlo nel conservarsi costanti nella fede. Giunti che furono al carcere, molti cristiani gli fornirono qualunque ristoro e rinfresco che desiderasse, ma il santo ricusò tutto dicendo: “Io ora ad altro non penso che al martirio che mi aspetta”. Le guardie vedendo tanti cristiani che venivano a visitare san Pionio lo trasportarono con i suoi compagni in un luogo più sicuro e più nascosto. I santi ringraziarono Dio per questo, perché qui potevano trattenersi con Dio più familiarmente, dal momento che stavano più soli. Ma con tutto ciò andarono a trovarlo più cristiani, che per la violenza dei tormenti avevano rinnegato. Il santo pianse la loro caduta e li esortò a fare penitenza e a sperare il perdono della pietà di Gesù Cristo. Sopraggiunse  quindi Palemone con una truppa di soldati, con ordine del proconsole di condurre Pionio e i compagni ad Efeso. Il santo chiese di vedere un tale ordine ma un ufficiale, che presiedeva alla truppa, gli gettò una fune al collo e lo strinse talmente che quasi lo soffocò. Poi il santo fu trascinato in piazza con quella stessa corda che gli impediva il respiro. Giunti che furono i santi martiri al tempio, si gettarono a terra per non entrarvi, ma i soldati con la violenza li trascinarono dentro quello e li posero ai piedi dell’altare sacrilego. Qui si trovava Eudemone, vescovo di Smirne, il quale miseramente aveva sacrificato agli dei e speravano che l’esempio di quell’infelice li muovesse a rinnegare. Vi fu anche uno che volle mettere sul capo di san Pionio una corona di quelle che portavano coloro che sacrificavano; ma il santo la fece a pezzi e la gettò. Non sapendo più cosa fare per convincerli, di nuovo li richiusero in prigione. Mentre stava Pionio per entrarvi, un soldato gli diede una grande botta in testa. Il santo la sopportò con grande pazienza, ma Dio castigò subito il percussore con il fargli infiammare e gonfiare la mano ed i fianchi, in modo che non poteva respirare. Dopo alcuni giorni, il proconsole venuto a Smirne e fattosi presentare san Pionio, gli chiese di quale setta fosse. Il santo rispose: “Sono prete della Chiesa cattolica”. Quello replicò: “Dunque tu eserciti l’ufficio di dottore e sei maestro di stoltezza?”. E il santo: “No, ma della pietà”. E di quale pietà? “Di quella pietà che ha per oggetto il dio che ha fatto il cielo e la terra. Il proconsole gli disse: sacrifica! Rispose il Santo: “Io ho imparato ad adorare un solo Dio vivente”. Il tiranno comandò allora che fosse posto alla tortura ed in quella continuava a esortarlo a sacrificare come, diceva, avevano fatto molti cristiani. Dopo avergli ripetuto ciò più volte lo condannò a morire nel fuoco. Andando san Pionio al luogo del supplizio, camminava con fretta e con faccia serena. Giunto qui, da se stesso si spogliò delle vesti e da sé si adattò al palo per esservi inchiodato. Allora gli fu detto da dei pagani: “Pentiti, Pionio, prometti di ubbidire e sarai schiodato”. Egli rispose: “Io ho già sentito il dolore dei chiodi; io desidero morire, perché il popolo conosca che un giorno alla morte dovrà succedere la resurrezione”. Dato già fuoco alla legna, il santo chiuse gli occhi, per cui il popolo credette che fosse già morto; ma il santo pregava. Terminata la preghiera, aprendo gli occhi disse amen, e quindi con faccia allegra spirò, dicendo: “Ricevi, Signore il mio spirito”. Di certo non si conosce la fine dei suoi compagni, ma si deve credere che anch’essi consumarono in pace il loro martirio.

San Giustino
San Giustino fu un santo molto glorioso nella Chiesa. Egli con dotte scritture la difese contro i Gentili, contro i Giudei e contro gli eretici. Inoltre presentò agli imperatori e al Senato Romano due famose apologie, dove dimostrò l’innocenza dei cristiani e che tutti i delitti che imputavano a loro i pagani erano pure calunnie. Di più con la sua santa vita e con le sue istruzioni convertì molti infedeli e alla fine coronò i suoi giorni con un generoso martirio. Giustino nacque all’inizio del secondo secolo in Neapoli, capitale della Samaria, da genitori greci e idolatri. Egli, dopo i primi studi delle lettere umane, si sentì ardentemente ispirato a conoscere il sommo bene. Cercò di indagare questa verità prima dagli stoici, poi dai peripatetici, poi dai pitagorici, e alla fine dai platonici, ma nessuno lo soddisfece. Iddio, ciò nonostante, lo accontentò in modo prodigioso. Essendo egli andato un giorno in un luogo solitario per fare le sue meditazioni con maggior quiete, si incontrò qui con un vecchio venerabile, il quale gli disse che se voleva raggiungere la vera conoscenza di Dio doveva lasciare i filosofi e cominciare a leggere i profeti, che nelle divine scritture hanno rivelato agli uomini i misteri di Dio, ed annunziato Gesù Cristo, suo Figlio, in virtù del quale unicamente si può giungere a conoscere il vero Dio. Ma prima di tutto, aggiunse il vecchio, devi pregare il Signore che ti illumini, poiché tali cose non si possono comprendere se non da coloro ai quali Dio ne dona l’intelligenza. E, dette queste parole, disparve dai suoi occhi. Dopo questo discorso, San Giustino si applicò tutto alla lettura delle Sacre Scritture, da cui ricavò poi quelle sante conoscenze che gli fecero abbracciare la fede e ricevere il battesimo circa l’anno 133, all’età di anni trenta. E confessava aver molto contribuito a questa decisione il vedere la costanza dei martiri, che nei tormenti erano così forti a dare la vita per Gesù Cristo. Da quel tempo pertanto si consacrò tutto all’amore del crocifisso ed al bene della religione. Prese il sacerdozio e si impegnò da allora in poi a convertire gli infedeli e gli eretici, considerandosi un eletto da Dio a difendere la sua Chiesa. Per questo diceva: “Avendo io ottenuto da Dio la grazia di comprendere le Scritture, mi adopero per farle comprendere anche agli altri, per timore di essere condannato nel giudizio divino, se in ciò vengo meno. E sono disposto, dice in un altro luogo, di manifestare la verità anche se dovessi essere fatto a pezzi. Essendosi poi portato a Roma, qui gli riuscì di ammaestrare molta gente nei dogmi della fede e qui compose e presentò, circa nell’anno 150, all’imperatore Antonino Pio e al Senato la sua prima apologia, dove dimostrò la santità della religione e le virtù che praticavano i cristiani, aggiungendo che più persone sino all’età di 60 e 70 anni avevano conservato il celibato. Noi, diceva, o non abbracciamo il matrimonio, se non per avere figli o viviamo in perpetua continenza. Aggiungeva che l’unica speranza dei cristiani era la vita eterna che aspettavano per la morte di Gesù Cristo. Parlando poi della verità della fede cristiana, riportava le profezie, che tanti secoli prima avevano predetto le cose credute dai fedeli: profezie scritte negli stessi libri conservati dai Giudei nemici dei cristiani. Noi vediamo, diceva il santo, avverate ai tempi nostri queste profezie con la nascita di Gesù Cristo da una vergine, con la predicazione del medesimo, con i suoi miracoli, con la sua passione, risurrezione ed ascensione al cielo, con la riprovazione dei Giudei, la distruzione di Gerusalemme, la conversione dei Gentili e con lo stabilirsi  della Chiesa in tutto il mondo. Queste profezie, aggiungeva il santo, avveratesi in modo così perfetto, ci convincono che Gesù Cristo è vero figlio di Dio, che un giorno deve venire a giudicare tutti gli uomini, come era predetto e come noi crediamo. Inoltre benché la Chiesa in quei tempi tenesse nascosti ai Gentili i sacrosanti suoi misteri, nondimeno San Giustino credé allora di spiegarli per togliere gli iniqui sospetti con cui si tacciavano i cristiani di incesti nascosti e di infanticidi. Perciò, dopo aver spiegato la sacra cerimonia del battesimo, spiega il mistero e il sacramento dell’eucarestia e scrive così: “Poi a colui che presiede all’assemblea viene presentato del pane ed un calice di vino e di acqua, ed egli nel nome del Figlio e dello Spirito Santo rende gloria al Padre. E per tali doni rende le grazie che da tutto il popolo sono ratificate con la parola amen. Terminate così le preghiere, le lodi, le azioni di grazie, i diaconi prendono il pane e il vino mescolato con l’acqua, sopra cui furono recitate tutte quelle sante preghiere e dopo che li hanno distribuiti ai presenti li portano anche agli assenti. Questo alimento è chiamato da noi eucaristia, di cui nessuno può partecipare che non creda nella nostra dottrina e non sia lavato dai peccati e rigenerato in quel lavacro celeste. Non è questo un pane, né una bevanda comune; ma siccome in virtù della divina Parola, Gesù Cristo, nostro Salvatore, fu composto di sangue e carne per la nostra salvezza, così quell’alimento di cui siamo nutriti, sappiamo che in virtù della preghiera contenente le sue divine parole è la carne e il sangue dello stesso Verbo incarnato. Ecco che al presente si crede nella Chiesa cattolica quello stesso che fu osservato e creduto sin dai tempi apostolici nei quali viveva san Giustino. Poi espone san Giustino come si facevano dai fedeli nei giorni di feste le sacre adunanze e scrive: “Così pure nel primo giorno della settimana, detto del sole, così chiamavano i pagani il giorno della domenica, si fa una generale adunanza nello stesso luogo e, secondo che il tempo lo permette, si leggono gli scritti dei profeti ed i commentari degli apostoli. Terminata poi dal lettore la lettura, colui che presiede fa una esortazione al popolo, per eccitarlo ad imitare cose così degne. Quindi tutti insieme ci alziamo, e ci mettiamo in preghiera. Finita la quale, si presenta, come si è detto sopra, il pane, il vino, e l’acqua, sopra i quali il vescovo o sacerdote recita le preghiere e i  rendimenti di grazie, e il popolo risponde amen. Finalmente si fa per i diaconi la distribuzione dei doni consacrati. I più ricchi fanno liberamente una certa offerta, che è distribuita da colui che presiede a vedove, piccoli, infermi, carcerati, pellegrini o altri bisognosi. Il motivo per cui ci raduniamo nel giorno del sole è perché questo fu il primo giorno in cui Dio creò il mondo ed in esso Gesù Cristo nostro Salvatore risorse da morte a vita.” Si crede che questa apologia di San Giustino,  se non fece affatto cessare la persecuzione, almeno la rallentò nell’animo dell’imperatore Antonino, come si argomenta da una sua lettera che scrisse poco dopo in favore dei cristiani alle città dell’Asia minore, riferita da Eusebio di Cesarea. Intanto il santo compose più opere per il bene della religione contro i marcioniti, contro i valentiniani e contro il giudeo Trifone, in riprovazione della perfidia dei Giudei. Essendo poi succeduto nell’impero Marco Aurelio ad Antonino, si riaccese la persecuzione. Un certo filosofastro gridava più forte in Roma contro i cristiani: si chiamava esso Crescente, della setta dei cinici. A costui si oppose San Giustino il quale più volte lo convinse in pubbliche dispute di somma malizia e di somma ignoranza delle cose dei cristiani. Quindi pubblicò una seconda apologia e la presentò all’imperatore, dove specialmente difende la religione contro le calunnie di Crescente e di altri filosofi che la perseguitavano. In questa seconda apologia egli narra un fatto allora avvenuto di una certa donna incontinente che aveva un marito pure incontinente. La donna, essendosi fatta cristiana, fece quanto poté per ritrarre il marito dai peccati. Quegli però, invece di emendarsi, l’accusò al prefetto come cristiana e poiché era stata essa convertita da un certo Tolomeo, accusò anche lui. Questi, avendo confessato di essere cristiano dinanzi al prefetto, fu condannato a morte. A queste inique sentenze si trovò presente un altro cristiano di nome Lucio, il quale disse al prefetto Urbico: “Con quale coscienza, o Urbico, condanni un uomo che non è reo di altro delitto che di essere cristiano? Allora il prefetto, comprendendo che Lucio pure era cristiano, lo condannò allo stesso supplizio. Venne un terzo cristiano e anche quello fu condannato a morte. Poco tempo dopo fu arrestato anche San Giustino con sei altri cristiani di sua compagnia. Presentato che fu il santo al prefetto di Roma di nome Rustico, fu da quello esortato ad ubbidire agli editti imperiali. Il santo rispose che non può essere ripreso né condannato chi obbedisce ai precetti di Gesù Cristo nostro Salvatore. Il prefetto poi gli chiese a quale genere di erudizione si era egli applicato. Il santo disse che prima aveva cercato di sapere le dottrine di varie sette, ma finalmente aveva abbracciato quella dei cristiani, benché essa non piacesse a coloro che sono sedotti dagli errori delle false opinioni. Tu dunque, infelicissimo, soggiunse il prefetto, ti diletti di questa sorta di erudizione? Replicò Giustino: “Sì, ed io la seguo con la sua retta dottrina”. E qual è questa dottrina? Domandò quello. E il Santo: “La retta dottrina che noi seguiamo consiste nel credere in un solo Dio, creatore di tutte le cose visibili ed invisibili e nel confessare Gesù Cristo figlio di Dio, annunciato già dai profeti, portatore della salvezza agli uomini, e maestro di coloro che, per loro buona sorte, seguono i suoi divini precetti. Ma né la mia mente è abile a concepire né la mia lingua a proferire alcuna cosa che sia degna della sua infinita dignità. Per fare ciò c’è bisogno della mente e dello spirito dei profeti, che da Dio ispirati predissero la sua venuta nel mondo”. Passò poi il prefetto a domandargli ove fossero soliti radunarsi i cristiani. E Giustino: “Si raduna  ciascuno dove vuole e dove può”. Credi tu forse che tutti ci raduniamo in uno stesso luogo? Il Dio dei cristiani non è circoscritto da luogo, Egli è invisibile; per questo riempie il cielo e la terra ed in ogni luogo è adorato e lodato dai cristiani”. Ma io voglio sapere, replicò Rustico, dove tu e i tuoi discepoli vi radunate. Rispose il Santo: “Quanto a me io abito al bagno detto Timiotino. Questa è la seconda volta che  sono venuto a Roma e non conosco quasi altro luogo della città. Se qualcuno viene a trovarmi sono sempre pronto ad istruirlo della vera dottrina”. Dunque tu sei cristiano? Concluse il prefetto. E il santo: “Così è, sono cristiano”. Allora il prefetto si rivolse agli altri compagni di san Giustino ed  interrogatili uno per uno circa la loro fede, tutti confessarono di essere cristiani e di essere pronti a morire per Gesù Cristo Poi Rustico disse a Giustino: “Dimmi, tu che credi di avere la vera sapienza: se dopo una dura flagellazione ti sarà tagliata la testa, sei persuaso di salire in cielo?”. E il santo rispose: “Spero che soffrendo questi supplizi conseguirò quel premio che è preparato a coloro che osservano i precetti di Cristo”. Il prefetto replicò: “Tu, dunque, pensi di salire in cielo?”. E il santo disse: non ne ho opinione, ma sicura conoscenza che esclude ogni dubbio”. Alla fine, rivolto il prefetto a tutti quei confessori di Gesù Cristo, disse loro: “Suvvia , unitevi insieme e sacrificate agli dei”. Rispose per tutti Giustino: “Nessuno uomo di mente sana abbandona la pietà per precipitare nell’empietà”. Ma, riprende Rustico, se voi non ubbidirete, sarete tormentati senza pietà. E san Giustino: “Questo appunto è quello che ardentemente desideriamo, di soffrire tormenti per amore di Gesù Cristo e così ottenere la salvezza. In questo modo ci presenteremo con faccia allegra al tribunale dello stesso nostro Salvatore, davanti al quale tutto il mondo deve necessariamente comparire”. Tutti gli altri martiri dissero la stessa cosa e aggiunsero: “Fa’ presto quanto ti piace; noi tutti siamo cristiani e non sacrifichiamo agli idoli. Il prefetto, udite tali cose, pronunciò contro di essi questa sentenza: “Costoro, che non hanno voluto sacrificare agli dei né ubbidire alla volontà dell’imperatore, prima siano flagellati e poi sia tagliata loro la testa, come prescrivono le leggi. E così i santi martiri furono condotti al supplizio dove, dopo essere stati flagellati, furono decapitati e gloriosamente ricevettero la corona del martirio nell’anno 166 o nel seguente. I loro corpi furono presi di nascosto da alcuni fedeli e sepolti in luogo decente.

Santa Perpetua e Santa Felicita
Sant’Agostino fece grandi elogi di queste due sante nelle sue opere e spesso le proponeva al popolo per animare tutti ad essere fedeli a Gesù Cristo. L’imperatore Severo aveva ordinato che fossero fatti morire tutti i cristiani che ricusassero di sacrificare agli dei. Minuzio, proconsole, che comandava in Africa, fece tra gli altri  arrestare in Cartagine cinque giovani, che erano ancora catecumeni ed insieme le due sante nominate, Perpetua e Felicita, con altri due santi, Saturnino e Secondolo. Perpetua era una donna giovane di ventidue anni che conduceva una vita molto devota; essa era sposata ed aveva un solo figlio. Felicita poi era più giovane ed era pure sposata e di santi costumi.  Stando le sante martiri in una casa, custodite dai soldati, venne il padre di Perpetua a visitarla e poiché era pagano si adoperò in tutti i modi e persino con le lacrime per convincerla ad abbandonare la fede. Qui giova sapere che la stessa santa Perpetua  il giorno prima della sua morte scrisse la storia del suo martirio, come si trova negli atti antichi, dove sta estesa a lungo; noi qui ne descriveremo le cose più essenziali: “Mio padre (sono le parole scritte dalla santa) adoperò tutte le arti per dissuadermi; io gli risposi risolutamente: Padre mio, io sono cristiana. Egli allora tutto sdegnato si avventò per cavarmi gli occhi e mi caricò di mille ingiurie. Pochi giorni dopo ricevemmo tutti il santo battesimo e poi fummo posti in prigione, dove io restai spaventata dall’oscurità, dalla puzza e dal calore che vi era a motivo dei molti carcerati che ivi si trovavano. Ottenni qui la grazia di avere con me il mio figliolo e ciò mi consolò. Venne a trovarmi in questo luogo mio fratello e mi disse che  pregassi il Signore perché mi facesse conoscere se mi aspettava il martirio. Io mi misi a pregare e mi fu data a vedere una scala d’oro che si stendeva al cielo, ma molto stretta e ai lati essa era piena di rasoi e di punte di ferro. Ai piedi della scala vi era poi un dragone, che minacciava di ingoiare chiunque volesse salirvi. Il primo che vi salì fu un certo cristiano di nome Saturo, che mi invitò a salire. Io andai e mi trovai in alto  in un grande giardino nel quale incontrai un uomo di bell’aspetto che mi disse: “Sii tu benvenuta, figliola mia”. E dopo tale visione conobbi che noi tutti eravamo destinati al martirio e lo dissi a mio fratello.
Mio padre venne a trovarmi anche in prigione e struggendosi in lacrime, buttato ai miei piedi mi disse: Figlia, abbi compassione di me, povero vecchio, che sono tuo padre; almeno abbi pietà di tuo figlio; non essere la causa con la tua ostinazione della rovina di tutti noi. Io mi intenerii, ma restai forte nel mio proposito. Il giorno seguente fui presentata all’esaminatore Ilarione il quale, essendo morto il proconsole, faceva da giudice. Con me si presentò anche mio padre con il mio figlio in braccio e il giudice mi disse: “Perpetua abbi pietà di tuo padre e di tuo figlio e sacrifica agli dei”. Io risposi che ero cristiana e che tutti noi altri eravamo pronti a morire per la nostra fede”. Il giudice allora ci condannò tutti a morire sbranati dalle fiere; ma noi con gioia accettammo la sentenza, e fummo ricondotti in prigione dove di nuovo venne mio padre e, strappandosi la barba ed e i capelli, si gettò con la faccia a terra, lamentandosi di esser vissuto sino a quel tempo. Egli aveva cercato di tirarmi giù  dal palco; ma il giudice lo aveva fatto allontanare con un colpo di bacchetta, la qual cosa mi intenerì, ma il Signore continuò a darmi forza”.
Secondolo era morto nel carcere di puro stento. Saturo ebbe già la sorte di morire martire. Felicita desiderava morire con gli altri; ma essendo gravida, la legge non permetteva di giustiziarla. Tutti  pregarono Dio per lei ed essa nello stesso giorno partorì una bambina. La santa si lamentava per i dolori del parto, ragion per cui uno gli disse: Tu ora ti lamenti? E come farai quando sarai divorata dalle fiere? Ella rispose: Ora sono io che patisco, ma nell’arena Gesù Cristo patirà per me e con la sua grazia io sopporterò tutto per amore suo. Nel giorno del supplizio andavano tutti al campo con tanta gioia che in tutto si rendeva evidente. Gli altri santi erano già morti sbranati dalle fiere. Santa Perpetua e santa Felicita furono denudate e avvolte dentro alcune reti per essere esposte ad una vacca infuriata. Santa Perpetua fu investita e sollevata in alto dalla fiera e cadendo indietro si mise a sedere. Vide poi la sua veste lacerata sul fianco e la tirò per coprirsi. Fu percossa di nuovo con più violenza dalla vacca. Ella si alzò in piedi e vedendo santa Felicita tutta pesta le diede la mano e la sollevò da terra. Il popolo si mosse a compassione; tuttavia furono ambedue condotte in mezzo all’ anfiteatro e qui furono uccise dai gladiatori; e così andarono con gli altri martiri a prendere possesso del Paradiso. Il 7 marzo dell’anno 203 le loro reliquie furono portate in Roma. Sant’ Agostino cita gli atti di questo loro martirio e Tertulliano e San Fulgenzio fanno glorioso elogio di queste due sante martiri. Di più la santa Chiesa ne fa memoria speciale nel sacrificio della messa.

S. Giovanni Crisostomo
Sebbene questo grande santo non sia morto per la fede e per mano di carnefice, non di meno ben può dirsi martire, avendo egli perduto la vita a motivo dei maltrattamenti sofferti per difendere l’onore di Dio e il bene della Chiesa. Nacque S. Giovanni ad Antiochia, circa l’anno 347, da una delle prime famiglie di quella città. La madre, rimasta vedova all’età di anni venti, ebbe tutta la cura di bene educare questo figlio. Gli fece studiare sotto eccellenti maestri la retorica e la filosofia. Il santo giovane dimostrava di dover fare grande fortuna nel mondo, ma egli sino dall’età di anni venti si applicò allo studio delle Sacre Scritture e alla preghiera e si consacrò tutto all’amore del Crocifisso. Per questo san Melezio, suo vescovo, gli si affezionò e lo istruì e lo fece lettore nella sua chiesa. Quindi, dopo essere stato sei anni circa ad Antiochia, impegnato a santificarsi con una vita tutta ritirata e mortificata, tuttavia credette di avere bisogno di maggior ritiro e mortificazione. Per questo si ritirò su di una montagna e di là passò ad abitare in una caverna, dove dimorò altri anni, in continue preghiere e penitenze così grandi che molto ne restò indebolita la sua salute. Per questo fu costretto a ritornare in Antiochia, dove san Melezio lo ordinò sacerdote. Conoscendo la sua grande abilità sul pulpito, gli impose la carica di predicatore nella sua chiesa. Questo incarico fu da lui esercitato con tanto frutto e piacere del popolo che dagli uditori veniva talvolta lodato in pubblico con acclamazioni clamorose e battimenti di mani. Ma il santo diceva loro: A cosa mi servono questi vostri applausi? Quello che solo desidero è che mettiate in pratica quello che vi predico. Questo è tutto l’applauso che aspetto e desidero da voi. Avvenne poi che nell’anno 397 morì Nettario, patriarca di Costantinopoli. Poiché il nome del nostro santo si era già fatto celebre per tutte quelle province, l’imperatore Arcadio, pregato dal clero e dal popolo, decise di eleggerlo come vescovo di quella città. Per questo fece venire san Giovanni a Costantinopoli e, senza manifestargli il suo disegno, lo prese nel suo cocchio e lo condusse in una chiesa fuori della città e qui lo fece consacrare dai vescovi, benché con grande ritrosia del santo. La città di Costantinopoli aveva per sua disgrazia avuto per vescovo, nello spazio di sedici anni, Nettario, uomo senza scienza e senza zelo; per questo quella grande città piena di forestieri e di eretici aveva grande bisogno di riforma. A questa riforma tutto si applicò san Giovanni. E poiché trovò molto rilassati anche i costumi del clero, il santo, che era pieno di zelo, faticò molto per riformarli, come anche ebbe da affaticarsi per correggere l’avarizia e la superbia dei grandi, che servivano all’imperatore. Per questo si acquistò molti nemici. In questo tempo in Costantinopoli capitarono alcuni individui cacciati dall’Egitto da Teofilo, vescovo di Alessandria, con il pretesto che fossero origenisti. Poiché san Giovanni li trovò innocenti, scrisse a Teofilo in loro favore e lo pregò di lasciarli in pace. Ma quello, che era uomo superbo, sdegnato con il santo perchè aveva preso la loro protezione, risolse di rovinare il nostro  e gli riuscì. Sebbene Teofilo fosse stato chiamato dall’imperatore in Costantinopoli a giustificarsi, egli, essendovi giunto, si unì con alcuni vescovi e signori della corte e molti altri del clero, nemici di Giovanni. In tal modo da reo diventò attore, poiché avendosi guadagnato anche il favore dell’imperatrice Eudossia, trovandosi essa in quel tempo sdegnata contro il santo, perché l’aveva ripresa per i denari tolti alla vedova Callitropa e per un campo tolto ad un’altra vedova, convocò un conciliabolo di 36 vescovi del suo partito in un certo luogo detto Della Quercia, dove con certe false calunnie portate contro il santo, lo fece deporre. Ottenne dall’imperatore l’ordine che san Giovanni fosse scacciato dalla sua chiesa e mandato in esilio. Il popolo, udendo ciò, circondò la chiesa e la casa, perché non gli fosse tolto il suo vescovo. Ma il santo per evitare una sedizione,  di cui già si temeva, uscì da una porta segreta e si mise nelle mani dei soldati che lo condussero in Bitinia. Nella notte del giorno seguente in Costantinopoli vi fu un grande terremoto, che tutti considerarono come un segno della divina vendetta.  La stessa imperatrice ne fu atterrita in modo che costrinse l’imperatore a richiamare nella città il santo vescovo. Fu subito spedito l’ordine che ritornasse e, a tale avviso, tutto il popolo gli corse incontro, cantando inni e  con torce accese in mano. Giunto che fu S. Giovanni alla chiesa, il popolo lo costrinse, benché con sua ripugnanza, a porsi sul trono episcopale. Teofilo, al contrario, all’arrivo del santo, insieme con gli altri del suo partito, fuggì spaventato da Costantinopoli. Il santo riprese le sue sacre funzioni  e sollecitava presso l’imperatore che si convocasse un Concilio per giustificare la sua innocenza. Ma un fatto nuovo fece mutare faccia alle cose. Nella piazza della chiesa cattedrale, detta di Santa Sofia,  era stata alzata una statua d’argento dell’imperatrice e perciò si erano fatti balli e spettacoli e rumore  tali che avevano turbato nella chiesa i divini uffici. Il santo riprese fortemente il popolo di quella irriverenza portata alla chiesa. Ma di ciò si incolpò Eudossia l’imperatrice e questa per vendicarsi si servì di Teofilo e dei vescovi nemici del santo, i quali, con il pretesto che egli aveva ripreso l’esercizio del suo vescovado senza prima giustificarsi in un Concilio, si radunarono in un altro conciliabolo e lo condannarono e lo deposero. Dopo questa ingiustissima deposizione, venne l’ordine dall’imperatore a san Giovanni che non entrasse nella sua chiesa, per cui esso uscì dalla città. Poiché era giorno di sabato andò in una chiesa di campagna a celebrare gli uffici. Ma i nemici ottennero una truppa di quattrocento soldati, che entrarono con le spade in mano in quella chiesa dove si amministrava il battesimo, così che restarono feriti alcuni preti e le fanciulle che si preparavano alla battesimo furono oltraggiate. E si giunse a tale punto d’insolenza da calpestare il sacramento dell’altare. Insomma fu tale lo sconvolgimento che le genti andarono per lo spavento a rifugiarsi nelle valli e nei boschi. Finalmente Arcadio, benché non odiasse S. Giovanni, nondimeno, spinto dalle insinuazioni di sua moglie e dei vescovi contrari al santo, gli impose l’esilio e che partisse subito. Il santo, a tale ordine sceso in chiesa, si licenziò dai vescovi suoi amici ed uscendo da una porta segreta si diede in mano ai soldati, che lo condussero, camminando di giorno e notte, senza riposo, a Cucuso, piccola città dell’ Armenia. Il santo benché fosse afflitto da una febbre terzana, dovette viaggiare senza compassione. Il viaggio durò settanta giorni, dei quali trenta ne passò san Giovanni sempre con una febbre violenta addosso. Giunto che fu a Cucuso, il vescovo di quel luogo lo alloggiò a casa sua e così trovò qualche riposo a tanti disagi patiti. Qui poi il santo non rimase in ozio. Si mise ad istruire quella gente e a sollevare i poveri, per quanto poteva. Di là scrisse più lettere per consolare i suoi ed anche per aiutare le nuove chiese fondate in Persia, cioè nella Gozia e nella Fenicia. Intanto il Papa Innocenzo primo, informato delle ingiustizie fatte a S. Giovanni si adoperò per convocare un Concilio universale, dove definitivamente si dichiarasse l’innocenza del santo. Ma i nemici impiegarono tutte le loro forze per impedirlo e lo ottennero. Arcadio, ingannato dai vescovi del partito avverso e dai suoi ministri, fece fallire il concilio. Anzi i nemici del santo, non potendo sopportare la gloria che esso si acquistava nel luogo del suo esilio, ottennero un ordine da Arcadio che San Giovanni fosse trasportato a Pitionto, città nel deserto e l’ultima dell’impero. Pertanto, dovendo partire di là, S. Giovanni fu consegnato a due ufficiali, uno dei quali, essendo uomo bestiale ed usato dagli stessi nemici per far morire il santo per la strada in quel viaggio, lo faceva camminare quando pioveva dirottamente e lo esponeva ai più grandi calori del sole, né permetteva che si fermasse nei paesi con più comodità, ma lo faceva alloggiare in villaggi ove mancava tutto. Essendo poi arrivati nella città di Cumana, nel Ponto, volle il barbaro proseguire il viaggio e giungere cinque miglia più lontano, sino alla chiesa dove era sepolto il martire santo Basilisco, già vescovo di Cumana. Presero qui alloggio in una casa vicina alla chiesa e la stessa notte apparve a san Giovanni il santo martire e lo confortò a stare di buon animo dicendogli: “Domani saremo insieme”. Il Crisostomo, dando fede all’oracolo e vedendo prossima la fine dei suoi strazi, pregò i soldati di differire la partenza fino al mattino. Non potè ottenere questo, ma appena dopo poche miglia di viaggio furono costretti a ritornare nella stessa casa, poiché videro il santo ridotto in pessimo stato. Ritornati che furono, il santo si vestì di una veste bianca. Sentendosi mancare la vita, prese il santo viatico e fatta la sua ultima preghiera, ripetendo quelle parole che aveva sempre in bocca, disse: “Gloria a Dio per tutte le cose, amen!” E rese l’anima a Dio il 14 settembre dell’anno 407, dopo sessanta anni di vita e nove anni e sette mesi circa di vescovato. Accorse subito dalle province vicine una grande moltitudine di monaci e di altre persone illustri per onorare la sua sepoltura. Pochi giorni dopo la morte di san Crisostomo, Iddio non lasciò impuniti i suoi nemici. Soprattutto nel giro di pochi giorni morì Eudossia. Non molto dopo finì di vivere anche Arcadio all’età di anni trentuno. Queste morti furono reputate effetti della divina vendetta. Tuttavia non cessò la persecuzione contro i seguaci di san Giovanni e particolarmente contro un sacerdote chiamato Tigrio ed un chierico lettore chiamato Eutropio. Dopo che  il santo fu cacciato per la seconda volta da Costantinopoli, accadde che andò a fuoco la grande chiesa di Santa Sofia e il palazzo del Senato e tra gli altri ne fu attribuita la colpa a quei due chierici. Era governatore della provincia Ottato, empio pagano. Egli fece mettere alla tortura Eutropio che era più giovane, affinché svelasse gli autori dell’incendio. Ma Eutropio, lacerato con unghie di ferro nelle coste ed abbrustolito con torce ardenti, stette forte a non infamare alcuno. Scrive Palladio che fra quei tormenti finì la vita. Quindi Ottato prese il prete Tigrio, lo fece flagellare e poi stendere sull’ eculeo a tal punto che gli restarono slogate tutte le ossa. Fu poi mandato in esilio in Mesopotamia ove lasciò la vita. La Chiesa onorò ambedue questi santi con il titolo di martiri. Nell’anno 428 si cominciò a celebrare il nome di san Giovanni Crisostomo e alla fine l’arcivescovo Proculo persuase l’imperatore Teodosio il giovane a far trasportare il corpo del santo da Cumana, dove riposava, in Costantinopoli. Il trasporto delle sacre reliquie fu di grande onore al santo, poiché tutto il popolo andò ad incontrarle. Lo stretto del mare dove passarono fu tutto coperto di barche e illuminato di torce. Quando poi giunse il sacro corpo, l’imperatore Teodosio, con gli occhi bagnati di lacrime e con la faccia dimessa sopra la cassa, domandò umilmente al santo perdono delle ingiustizie commesse contro di lui da sua madre e da suo padre. Questa traslazione avvenne il 27 gennaio dell’anno 438, passati anni trentuno dopo la morte di Giovanni.

 

 

4 BONOSO, MASSIMIANO, CIPRIANO, GIUSTINA, CIRIACO, CIRILLO, CRISOGONO, ANASTASIA, EPIDODIO, ALESSANDRO, EUPLIO, DIONISIA, FILEA, FILOROMO

San Bonoso e Massimiliano
Regnava l’empio Giuliano Apostata nell’anno 361 e  aveva per principale ministro della sua empietà una altro Giuliano, suo zio materno, che, per compiacerlo, aveva anche lui apostato dalla fede. A costui, mentre risiedeva in  Antiochia come conte dell’Oriente, furono denunciati Bonoso e Massimiliano, che, essendo ufficiali dell’esercito, tenevano nei loro stendardi la figura della croce insieme col santo nome di Gesù Cristo. L’imperatore ordinava che negli stendardi tutte le figure fossero degli idoli. Perciò li mandò a chiamare e comandò loro che cambiassero quelle figure e venerassero gli dei. I due santi apertamente protestarono che non potevano fare né l’uno né l’altro. Allora il conte Giuliano sdegnato fece prima legare e battere crudelmente Bonoso con flagelli armati di piombo, sino a trecento e più colpi. Mentre Bonoso stava soffrendo i flagelli,  il conte gli fece più domande. Il santo però tacque per lungo tempo, ma finalmente disse: “Noi adoriamo il vero Dio e non sappiamo chi siano quegli dei che voi adorate. Giuliano si rivolse a Massimiliano il quale gli diede le stesse risposte di Bonoso e aggiunse: “Se volete che adoriamo i vostri déi, fate prima che essi diventino capaci di udire e di parlare, poiché ci è proibito di adorare dèi sordi e muti. Il conte, montato in maggiore furia, pose ambedue i santi nel tormento dell’eculeo e poi, scorgendoli sempre allegri e tranquilli, li fece gettare in una caldaia di pece bollente; ma da quella essi  uscirono senza lesione; solo ne contrassero alcuni segni, che servivano per testimonianza del tormento sofferto. Gli idolatri, secondo il solito, tacciarono i santi di magia, ma il prefetto del pretorio, Sallustio, benché gentile volle vedere il prodigio con i propri occhi e trovò nel tempio che i martiri stavano nella caldaia e che essi lodavano Dio come se fossero in un bagno di acqua fresca. Sorpreso dallo stupore disse a Giuliano che bisognava fare una simile prova sopra i sacerdoti degli dei. Se quel prodigio era opera del demonio gli dei dovevano per loro onore difendere anche i loro sacerdoti, come il Dio dei cristiani aveva difeso i suoi servi. Il conte, non osando contraddire, consegnò i sacerdoti pagani al prefetto. Questi li fece gettare nella caldaia; subito rimasero arsi. Il tiranno ordinò ai custodi della prigione che non dessero ai nostri santi altro pane all’infuori di quello che era formato con una certa figura idolatrica. I santi martiri dissero di voler piuttosto morire che cibarsi di quel pane. Nel frattempo il conte Ormisda, che era fratello del re Sapore e stava da molto tempo ritirato nell’impero romano, sin da quando vi regnavano gli imperatori Costantino e Costanzo, essendo egli buon cristiano volle per sua devozione visitare i nostri santi. Maggiormente sdegnato da questa visita Giuliano intimò ai due santi che se non mutavano fede li avrebbe esposti alle fiere. Rispose Bonoso: “Noi abbiamo Dio con noi, onde non temiamo né gli uomini né le fiere”. E Giuliano aggiunse che li avrebbe fatti bruciare vivi in una fornace. Allora i cristiani presenti gli dissero in faccia che anche loro volevano essere compagni del martirio dei nostri santi. E Giuliano allora, temendo qualche tumulto, fece in modo che il prefetto Sallustio subentrasse a lui per tormentare di nuovo i santi. Ma il prefetto rifiutò di assumersi questo ufficio; anzi, quantunque egli fosse pagano, pregò Bonoso di pregare il suo Dio per lui. Alla fine Giuliano condannò Bonoso e Massimiliano insieme con altri cristiani carcerati ad essere decapitati. Andarono tutti al martirio con gioia e vi furono accompagnati in trionfo da San Elesio, vescovo di Antiochia, e da molti altri cristiani che si rallegravano con i nostri martiri della loro felice sorte. Consumarono così il loro sacrificio. Dopo tre giorni dalla loro morte il conte Giuliano fu preso da una orribile malattia, che gli infettò le viscere in modo che non faceva altro che vomitare un mucchio di vermi dalla bocca. In mezzo a quegli acerbi  dolori  egli stesso infine, benché senza frutto, riconobbe essere effetto della divina vendetta. Poco dopo disperatamente morì.
San Cipriano e Santa Giustina
Cipriano fu nativo di Antiochia nella Siria, di una famiglia nobile e ricca ma pagana, per cui lo allevarono nelle superstizioni dei falsi dei, specialmente nell’arte magica. Poiché Cipriano era di molto talento, divenne il mago più famoso della Grecia. Essendosi egli pertanto fatto amico così familiare con i demoni, non vi fu abominazione che egli non abbracciasse. Giungeva sino a svenare i fanciulli per offrire il loro sangue ai demoni e fece questa vita empia sino all’età di trenta anni; ma allora Dio lo chiamo a sè. Il fatto avvenne così. In Antiochia vi era una fanciulla chiamata Giustina, la quale, benché i suoi genitori fossero Gentili, tuttavia, avendo udito una predica, abbracciò la fede cristiana e  da allora consacrò a Gesù Cristo tutta se stessa con la sua verginità. Era essa di una rara bellezza, per cui un giovane chiamato Aglaide , essendone preso, usò tutti i modi per averla, ma ella sempre lo rifiutò. Il giovane ricorse a Cipriano affinché con i suoi incantesimi gliela guadagnasse. Cipriano adopererò tutta la sua scienza ma nulla ottenne. Scrive San Gregorio che i demoni posero tutte le loro forze per farla cadere, ma la santa si raccomandava alla divina madre e così restava sempre forte a resistere. Cipriano rimproverava al demonio come egli non potesse vincere una fanciulla, ma il demonio rispose che quella giovane era difesa dal Dio dei cristiani e per ciò stesso non poteva vincerla. Cipriano udendo ciò disse: poiché questo Dio dei cristiani è più potente di te, a questo Dio io voglio servire da oggi in avanti. Passò a trovare un suo amico sacerdote di nome Eusebio. Questo gli diede coraggio contro le tentazioni di disperazione che il demonio gli dava per tante scelleratezze commesse. Così Cipriano da un mostro d’inferno diventò un santo cristiano, in modo che convertì molti idolatri. Asserisce un autore come cosa certa che, morto il vescovo di Antiochia, fu eletto Cipriano a tenere quella sede. Allora Diocleziano informato della santità di Cipriano e nello stesso tempo di quella della vergine Giustina, li fece ambedue prendere dal governatore della Fenicia chiamato Eutolmo, il quale, trovandoli nella fede, fece flagellare santa Giustina e fece lacerare San Cipriano sino alle ossa con uncini di ferro. Quindi li mandò in prigione divisi l’una dall’altro. Vedendo che dopo tutti i mezzi usati per farli prevaricare non otteneva nulla, li fece immergere ambedue in una caldaia di pece bollente. Ma i due santi restarono illesi da quel supplizio. Il giudice mandò i martiri a Diocleziano che subito li fece decapitare e ciò avvenne il 26 settembre. Le loro reliquie furono portate a Roma, dove una donna devota chiamata Ruffina fece fabbricare una piccola chiesa, da dove poi furono trasportate nella Chiesa di S. Giovanni in Laterano.


San Ciriaco, Largo, e Smeraldo
L’imperatore Diocleziano ebbe la vanità di fabbricarsi un palazzo che fosse una meraviglia del mondo. Per essere questa gran costruzione in Roma, fece collocare qui i famosi bagni, che furono poi chiamati le terme di Diocleziano: sino ad oggi se ne vedono in Roma i resti. Avendo poi questo imperatore un odio viscerale contro i cristiani, per cui desiderava e cercava di farli tutti morire nei modi più barbari che sapeva inventare la sua crudeltà, fra gli altri strazi con cui si diede ad affliggere i fedeli, pensò di obbligarli a faticare nella costruzione di questo suo palazzo. Si vide radunato colà un gran numero di servi di Dio a trascinare le pietre, a cavare l’arena, a portare la calce e l’acqua. Poiché era sua intenzione di farli morire tutti, si costringevano tutti a faticare senza riposo e senza cibo sufficiente a sostentarsi. Un certo signore romano chiamato Trasone, molto ricco, e cristiano nascosto, avendo compassione di quei confessori di Cristo, pensò di soccorrere loro per mezzo di tre zelanti cristiani suoi amici, Ciriaco, Largo e Smeraldo. Questi tre santi provvedevano ai loro bisogni e nello stesso tempo li incoraggiavano a patire per Gesù Cristo. Il Papa S. Marcellino, informato della loro virtù, volle ordinare san Ciriaco diacono, affinché potesse meglio provvedere ai bisogni dei fedeli. Un giorno quei santi furono trovati dai pagani, carichi di viveri che portavano ai cristiani. Furono arrestati ed anch’essi condannati a faticare nella fabbrica. Essi ben si distinsero allora fra tutti nell’aiutare e sollevare i più deboli. Perciò essendo stati denunciati a Massimiano, compagno di Diocleziano, questi che non era meno crudele di lui, li fece prendere e chiudere in un carcere dove il Signore per loro mezzo operò molti prodigi. Fra gli altri, vi fu quello che alcuni ciechi, essendo ricorsi a Ciriaco, egli con il segno della croce restituì loro la vista. Quindi si mossero molti infermi a venire in quella prigione e tutti restarono guariti, non solo nel corpo ma anche nell’anima. I nostri santi in quella occasione non lasciarono di indurli ad abbracciare la fede cristiana e così ne convertirono molti. La fama dei tanti miracoli essendosi sparsa nella corte, vi fu una figlia di Diocleziano chiamata Artemia, la quale era molto maltrattata da un demonio, che la possedeva e diceva che non poteva essa esserne liberata se non per mezzo del diacono Ciriaco. L’imperatore, costretto dal grande amore che portava alla sua figlia, si indusse a far chiamare Ciriaco dal carcere. Questi, pregato di liberare quella principessa, comandò al demonio di uscire da quel corpo. Rispose il demonio: Ubbidisco, perché non posso resistere alla potenza di Gesù Cristo, ma andrò alla corte del re di Persia. Replicò San Ciriaco: tutto riuscirà a gloria di Cristo e a tua confusione. Fu subito liberata la fanciulla che manifestò la volontà di essere cristiana. Intanto la figlia del re di Persia, chiamata Giobia si trovava allora invasata dallo stesso demonio e quella si pose a esclamare di non poter essere liberata se non dal diacono Ciriaco che stava a Roma. Il re mandò subito un ambasciatore a pregare Diocleziano che subito gli mandasse Ciriaco. Diocleziano glielo mandò insieme con i suoi amati compagni. Giunti in Persia, Ciriaco disse al re che, per vedere sua figlia liberata come desiderava, era necessario che egli credesse in Gesù Cristo. Il re promise tutto e la fanciulla restò libera. Il principe e la figlia ricevettero il battesimo con quattrocento pagani. Il re avrebbe voluto che i nostri santi rimanessero in Persia ma essi vollero far ritorno a Roma dove speravano il martirio. Ritornati i santi in Roma si diedero a confortare e a soccorrere i cristiani perseguitati. Diocleziano li tollerava, ma essendo poi egli  andato lontano da Roma, Massimiano, pieno di odio contro i fedeli, fece arrestare i nostri santi. Fece loro intimare da Carpasio, suo ministro, che essi dovevano sacrificare agli dei o essere agli dei sacrificati. I santi rigettarono con orrore queste parole e San Ciriaco allora disse: “Come possiamo sacrificare agli dei che sono demoni dell’inferno?”. Carpasio gli fece versare pece bollente sul capo. Il santo soffrì quel tormento con pace, anzi si mise a lodare Gesù Cristo. Il giudice per la rabbia lo fece poi stendere sul cavalletto e flagellare con i bastoni. In quel mentre San Ciriaco disse che ringraziava Gesù Cristo, che lo faceva degno di patire per la sua gloria. Massimiano, vedendo che nulla avrebbe ottenuto con quei santi eroi, li fece subito decapitare con altri venti martiri il giorno 16 marzo dell’anno 303. I loro corpi furono sotterrati in un luogo vicino al loro supplizio nella strada del sale denominata via Salaria. Poco dopo furono trasportati da S. Marcello papa in una terra appartenente a Lucina, dama cristiana, nella strada di Ostia.

San Cirillo fanciullo
In Cesarea vi fu San Cirillo, che essendo fanciullo, per essere lui cristiano fu dal padre idolatra maltrattato e anche cacciato di casa. Il giudice, sapendo ciò chiamò a sè Cirillo e intendendo egli stesso che pronunziava il nome di Gesù, gli disse che se prometteva di non nominarlo più l’avrebbe fatto riprendere in casa dal padre. Il santo fanciullo rispose: “Io sono contento di essere cacciato dalla mia casa perché ne avrò un’altra più grande nel cielo, nè ho paura della morte poiché essa mi acquista una vita migliore”. Il giudice, per intimorirlo, lo fece legare come se fosse condotto alla morte, ma con ordine segreto al carnefice che non lo offendesse. Cirillo fu portato vicino ad un grande fuoco e qui fu minacciato di essere gettato dentro, ma egli si dimostrò pronto a perdervi la vita. Dopo ciò fu richiamato dal giudice che gli disse:
“Figlio mio hai visto il fuoco? Abbandona la fede cristiana se vuoi rientrare in casa di tuo padre e godere dei suoi beni”. Rispose Cirillo: “Io non temo il fuoco né la spada e sospiro una casa più desiderabile e ricchezze più durevoli di quelle di mio padre. Dio è colui che mi deve ricevere. Affrettati tu a farmi morire perché io presto vada a trovarlo”. I circostanti piangevano nel sentirlo così parlare, ma egli diceva loro: “Voi dovreste non piangere ma rallegrarvi ed animarmi a patire per andare così a quella casa che desidero”. E stando costante in questi sentimenti soffrì con gioia la morte.

San Crisogono e Santa Anastasia vedova
San Crisogono, di cui si fa menzione nel canone della messa, fu sacerdote romano. Di questo santo martire non vi sono gli atti. Quanto ne sappiamo è tratto dagli atti del martirio di Santa Anastasia, della quale la Chiesa celebra la festa il 25 dicembre e anche il suo nome è posto nel canone della messa. Da questi atti pertanto si sa che san Crisogono, ardendo il fuoco della persecuzione, dimorava in Roma ove dava grandi esempi di pietà, passava la notte negli oratori sotterranei e di giorno visitava le case dei fedeli per confermarli nella fede. Faceva anche a Roma sempre nuove conversioni di genti. Tra i suoi discepoli egli ebbe anche Santa Anastasia, dama romana e figlia di Pretestato, che era pagano, uomo nobile e ricco. Sua madre era cristiana e la fece battezzare dalla culla e la allevò segretamente nella religione in cui la Santa fece grandi progressi. San Crisogono, che tanto si affaticava per giovare ai cristiani nella tempesta mossa dall’imperatore Diocleziano, non poté stare a lungo nascosto. Fu accusato al prefetto di Roma come il maggior nemico degli dei e degli editti imperiali. Pertanto fu arrestato e messo in una prigione che trovò piena di fedeli. Fra questi vi era la sua discepola diletta Anastasia, di modo che in quel carcere ebbe maggior possibilità di istruirla nelle sante virtù e di animarla a patire per la fede. Santa Anastasia era così accesa d’amore divino che quando stava fuori dal carcere era tutta dedita a consolare i cristiani, a soccorrerli, a dare loro coraggio per resistere ai nemici della fede. Soprattutto si adoperava a sollevare quei cristiani che stavano in prigione. Allorché seppe che San Crisogono stava in carcere, essa corse alla prigione e si stimò fortunata di poterlo aiutare in quelle angustie. Era già più di un anno che San Crisogono stava in carcere, dove non faceva altro che animare e istruire quei fedeli compagni delle sue catene. Poiché nella prigione vi erano anche molti idolatri, il santo ebbe la consolazione di convertirne molti. Per questo molto lo aiutò Santa Anastasia, che con le sue opere di carità, sollevando quei miseri, cooperava molto alla loro conversione. Bisogna  sapere che essa ebbe per marito un nobile romano, Publio, che era pagano. Egli amava molto sua moglie, ma quando si accorse dai santi suoi comportamenti che essa era cristiana, da marito le diventò nemico. Per questo la chiuse nella sua casa e la trattò da schiava. Santa Anastasia invece di dolersi di questi maltrattamenti ne godeva, pensando che pativa per amore di Gesù Cristo. Si affliggeva soltanto di vedersi chiusa la via per assistere i fedeli, che languivano nelle carceri. Scrisse a San Crisogono e lo pregò di ottenerle da Dio o che il marito si convertisse o che fosse tolto dal mondo, se voleva continuare la vita scellerata che faceva. San Crisogono le rispose di avere pazienza e di non dubitare, perché il Signore presto l’avrebbe consolata. Questa lettera diede nuovo coraggio alla santa di soffrire la crudeltà che il marito accrebbe verso di lei. La chiuse più strettamente e raddoppiò gli strazi verso di lei, talmente che essa credette di finire la vita in quel suo carcere, mentre il marito le faceva mancare anche il pane per sostentarsi. Scrisse di nuovo al santo direttore di raddoppiare per lei  le preghiere, perché il Signore la facesse morire in sua grazia e il santo le rispose che Gesù Cristo permetteva tutto ciò perché l’amava molto; perché si preparasse a soffrire maggiori sofferenze per la sua gloria. E in effetti così avvenne, perché Publio, suo crudele marito, andando come ambasciatore al re di Persia per ordine dell’imperatore, lasciò ai suoi ministri l’incombenza di trattare sua moglie nel tempo della sua assenza in modo che al suo ritorno senz’altro gliela facessero trovare morta. Ma Dio dispose tutto l’opposto, poiché egli miseramente morì nel suo viaggio e la santa restò liberata dalla sua tirannia. Perciò avendo essa recuperato i suoi beni cominciò di nuovo a aiutare i fedeli e specialmente quelli che stavano in prigione. Intanto erano già due anni che San Crisogono stava in prigione, dove non cessava di assistere i suoi fratelli e di convertire molti idolatri che gli capitavano. Essendo Diocleziano informato di questo, ordinò che gli fosse condotto il santo in Aquileia, dove egli allora dimorava. Presentato che gli fu innanzi san Crisogono, egli cercò di guadagnarlo in tutti i modi e con grandi offerte, sino ad offrirgli la prefettura di Roma; ma il santo rispose che egli non conosceva di poter avere altro onore se non quello che si trova nel servire il vero Dio e che non gli era cara la vita se non per offrirla in sacrificio a Gesù Cristo. Al contrario la religione dell’impero non era altro che un miscuglio di favole, che meritavano non venerazione ma disprezzo. Diocleziano per tali parole dato in furore, ordinò che subito in quel luogo solitario gli fosse troncata la testa; e l’ordine fu eseguito il 24 novembre dell’anno 303. In questo giorno viene celebrata la sua festa in quasi tutto l’Occidente. Il corpo del Santo fu gettato in alto mare ma nel giro di due giorni fu trovato sulla spiaggia da un santo sacerdote chiamato Zailo, che lo sotterrò piamente nella cantina di casa sua. Dopo trenta giorni apparve il santo e l’assicurò che presto avrebbe ricevuto il premio della sua carità. Veniamo ora al martirio di Santa Anastasia. L’imperatore ordinò che dopo la morte di San Crisogono gli fossero condotti tutti i i santi confessori, che stavano nelle prigioni di Roma, per farne un macello. Santa Anastasia, avendo inteso l’ordine di Diocleziano, andò subito ad Aquileia per assistere quei suoi perseguitati fedeli. Venendo poi trasportati in Macedonia molti di quei confessori insieme con Agapia, Chionia, ed Irene, destinate al martirio, li volle accompagnare qui per assisterli come meglio poteva, come già fece, ottenendo con denari dalle guardie la libertà di andare a soccorrere i suoi prigionieri. Essa aveva già in segreto venduto quanto possedeva, onde ebbe modo di dare loro grandi elemosine. Un giorno andò al carcere e lo trovò vuoto, perché l’imperatore aveva già dato la morte a quei santi carcerati. Per questo si mise a piangere dirottamente. Essendole stato chiesto da alcuni della corte perché piangesse, rispose: “Piango perché ho perso i miei fratelli fatti crudelmente morire”. Dopo ciò fu subito presa e presentata a Floro prefetto della Illiria. Il prefetto avendo inteso che era la vedova di Publio, favorito dall’imperatore e già morto nel viaggio in Persia, come abbiamo detto sopra, le parlò prima con molto rispetto e si affaticò a persuaderla che abbandonasse la sua fede. Vedendo dalle risposte della santa che perdeva tempo la mandò dall’imperatore. Diocleziano, vedendo la vedova del suo favorito, prima di tutto le domandò , da avaro, cosa ne avesse fatto delle sue ricchezze. La santa rispose che le aveva date tutte ai poveri ed ai cristiani perseguitati così ingiustamente. L’imperatore benché irritato da questa risposta continuò a parlarle con dolcezza perché abbandonasse una religione proibita per tutto l’impero. La santa di nuovo gli rispose con fortezza. L’imperatore allora la rimandò a Floro e Floro la sottopose a Uppiano, pontefice del Campidoglio, perché la riconducesse alla culto degli dei. Uppiano fece di tutto per persuaderla, ma non ritrovandone frutto le disse: “Orsù, ti do tre giorni per pensarvi. Rispose santa Anastasia: “Tre giorni sono troppi; fa’ come siano già passati; io sono cristiana e desidero morire per amore di Gesù Cristo e non avrai da me altra risposta. Uppiano la diede in custodia a tre donne, perché la facessero abiurare, ma quelle nulla ottennero. Uppiano, nonostante ciò, volle continuare a provocarla, anzi ebbe la sfacciataggine di prendersi qualche licenza immodesta. Ma di ciò fu punito da Dio, perché subito divenne cieco ed ebbe poi violente convulsioni, che, in un’ora, gli tolsero la vita. Floro, sdegnato per la morte di Uppiano, fece chiudere la santa in prigione con l’ordine di farla morire di fame. Il Signore, prodigiosamente, la mantenne in vita. Il prefetto non volendo sporcarsi le mani del suo sangue la fece mettere in una barca tutta forata insieme con centoventi idolatri condannati alla morte. La barca subito si riempì d’acqua ma non affondò e andò ad approdare sulla spiaggia. Questo miracolo fece convertire tutti quegli idolatri che poi ebbero la sorte di morire martiri per Gesù Cristo. Santa Anastasia fu poi trasportata all’isola di Palmarola, condannata ad essere qui bruciata viva. Così consumò la santa il suo martirio attaccata ad un palo in mezzo alle fiamme. Una dama cristiana ottenne il suo corpo e lo seppellì con onore vicino a Zara in Dalmazia. Sotto Leone imperatore, verso l’anno 460, le sue reliquie furono portate a Costantinopoli e collocate qui nella celebre Chiesa della risurrezione detta  Anastasia. Questa prima servì di cattedrale a San Gregorio di Nazianzio, ma fu poi bruciata al tempo di S. Giovanni Crisostomo. Di Santa Anastasia la Chiesa celebra la festa il 25 dicembre, il giorno della nascita di nostro Signore, per cui nella seconda messa si fa ricordo di questa santa.

San Epidodio e San Alessandro
Era Epidodio nativo di Lione ed Alessandro greco di origine ed erano ambedue di famiglie illustri. Avevano essi sin dalla giovinezza contratto nelle scuole una stretta amicizia, che sempre più era cresciuta con l’esercizio delle virtù da essi esercitata nella religione cristiana, in cui furono allevati dai loro genitori. Si trovavano pertanto quei santi nel fiore degli anni e sciolti dai legami di matrimonio quando incrudeliva la persecuzione dell’imperatore Marco Aurelio contro i cristiani, specialmente a Lione, dove la strage dei fedeli fu così grande che i Gentili credevano di aver estinto qui la religione cristiana. In questo tempo Epidodio e Alessandro, per tradimento di un loro domestico, furono denunciati come cristiani al prefetto, il quale comandò che fossero presi. Essi, avendo saputo di un tale ordine, secondo il consiglio evangelico, lasciarono la città e si rifugiarono nel tugurio di una povera vedova cristiana in un villaggio e qui stettero nascosti per qualche tempo. Poi furono trovati ed arrestati. Dopo tre giorni, con le mani legate furono presentati al prefetto, al quale  confessarono di essere cristiani. Gli idolatri allora subito gridarono e chiesero che fossero martirizzati. Il giudice cominciò a dire loro: “Dunque ancora persiste la temerarietà dei cristiani nel disprezzare gli dei e gli editti dei principi? Abbiamo castigato con la morte tutti questi temerari lasciando insepolti i loro corpi eppure ancora si parla di Cristo? Quale ardire è il vostro nel voler professare una religione vietata dagli imperatori? Presto ne pagherete la pena!”. Mandò quindi Alessandro al carcere e fece restare Epidodio, che era più giovane, credendo più facile  farlo rinnegare. Prima gli parlò con piacevolezza dicendogli: “E un peccato che tu essendo giovane voglia perire perseverando in questa falsa setta. Noi adoriamo gli dei che sono adorati da tutti i popoli e specialmente dai nostri principi. Il culto che rendiamo loro ci fa condurre una vita allegra in giochi e piaceri. Voi cristiani adorate un uomo crocifisso, che ama vedere i suoi seguaci afflitti dalle penitenze e lontani dai piaceri. Ma quali beni può dare ai suoi servi uno che non ha potuto difendersi dalla morte che gli hanno dato i Giudei? Lascia, figlio mio, questa setta e godi anche tu i piaceri che godiamo noi”. Epidodio rispose: “La pietà che tu dimostri verso di me è una vera crudeltà, poiché vivere come vivete voi altri è lo stesso che morire eternamente. Al contrario morire seguendo Gesù Cristo è il maggior bene che si possa desiderare. Tu sai che Cristo è morto crocifisso ma non sai che è risorto, essendo Dio e uomo, e ha così aperto la via ai suoi servi per condurli dopo questa misera e breve vita a regnare in cielo eternamente. Tu non intendi le verità della fede cristiana, ma ben puoi intendere che i piaceri del corpo non possono accontentare l’anima nostra, che è creata da Dio per la vita eterna. Noi neghiamo al corpo i diletti della terra per salvare l’anima che è eterna. Tu credi che con il finire la vita presente finisca ogni cosa, ma noi crediamo che terminando la vita presente, così piena di miserie, passiamo a godere una vita felice che non finisce mai”. Il prefetto, benché fosse stato alquanto commosso da quel discorso, tuttavia lasciando libero sfogo alla sua rabbia ordinò ai ministri che percuotessero la bocca del santo con pugni. Il santo, con la bocca che mandava sangue, disse allora con coraggio: “Io confesso essere Cristo  col Padre e con lo spirito Santo un solo e vero Dio. È cosa giusta che io renda l’anima a colui che ne è stato il Creatore e Redentore. Così non perdo la vita, ma ne acquisto una molto migliore. Poco poi m’importa in quale modo si sciolga questa macchina del mio corpo, purché l’anima mia vada in cielo e ritorni a chi me l’ha data. “Mentre così parlava, san Epidodio, per ordine del giudice, fu posto all’ eculeo sul quale due carnefici gli lacerarono i fianchi con uncini di ferro. Inoltre il popolo chiedeva di avere il santo per farlo morire lapidato. Per questo il prefetto, temendo che il popolo furioso glielo togliesse dalle mani con disprezzo della sua autorità, gli fece subito tagliare la testa e così presto il santo giovane conseguì la corona. Morto San Epidodio, il giudice si fece presentare il suo compagno Alessandro e gli disse: “E’ ancora in tuo potere evitare la morte data agli altri. Io penso che tra i cristiani tu solo sei rimasto. Se vuoi salvare la tua vita, devi onorare e sacrificare ai nostri dei”. Alessandro, fatto più coraggioso dal martirio del suo compagno, rispose: “Io ringrazio Dio che mentre tu mi ricordi la morte dei miei fratelli, mi confermi con i loro esempi nel desiderio di imitarli. Forse tu pensi che, essendo essi  morti, siano morte anche le loro anime? No, sappi che esse ora possiedono il cielo. Ti inganni se credi di estinguere la fede cristiana, la quale è stata da Dio fondata in modo tale che con la morte dei fedeli essa più si propaga. Quelli che tu credi di aver tolto dal mondo ora godono i beni del cielo e li godranno in eterno. Al contrario tu con i tuoi dèi sarai un giorno gettato nel fuoco dell’inferno a penare in eterno. Io sono cristiano come il mio caro fratello Epidodio che regna nel cielo, fa’ del mio corpo quel che ti piace, perché l’anima mia sarà accolta da quel Dio che me l’ha donata”. A queste parole infuriato il prefetto comandò a tre carnefici che crudelmente battessero il santo, il quale implorando in quei tormenti il divino aiuto soffrì tutto con costanza. Il giudice, vedendo che dopo la lunga carneficina del corpo il santo  non si arrendeva per nulla, gli chiese se era ancora ostinato nel suo proposito. Alessandro rispose: “Io non cambierò mai il mio proposito perché di quello ne è custode un Dio onnipotente a differenza dei tuoi dei che non sono altro che demoni”. Ripigliò il prefetto e disse: “I cristiani sono così pazzi che credono di acquistarsi gloria con le loro pene e perciò bisogna che costui sia punito come merita”. Ordinò che  fosse posto in croce e ciò fu subito eseguito. E così, presto, Alessandro consumò il suo martirio, poiché il suo corpo era stato talmente lacerato che gli comparivano scoperte le interiora. Poco sopravvisse sul patibolo e andò a ricevere il premio dei suoi patimenti. Il martirio di questi due santi si crede avvenuto nel mese di aprile dell’anno 178. I loro sacri corpi furono prelevati dai cristiani segretamente e nascosti nello scavo di una collina, che poi divenne famosa per molti miracoli operati in occasione di una peste, che  dopo la morte dei santi afflisse la città di Lione.

San Euplio
Si aggiunge qui il martirio di questo santo diacono Euplio, che ottenne la palma in Sicilia sotto la stessa persecuzione di Diocleziano e Massimiano. Euplio nell’atto stesso che stava leggendo il Vangelo nella città di Catania fu arrestato e subito fu presentato con il libro dei Vangeli in mano al governatore chiamato Calvisiano, il quale gli domandò, se quegli scritti  li avesse portati dalla sua casa. Rispose il Santo: io non ho casa, li ho portati con me e con essi sono stato ritrovato. Il giudice gli impose di leggerne qualche passo ed egli lesse due testi: beati quelli che sono perseguitati per la giustizia, e l’altro: chi vuole venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua. Disse il giudice: “Cosa vuol dire ciò? Ed Euplio: Questa è la legge di Dio che mi è stata data. E  da chi? Aggiunse il giudice. Da Gesù Cristo, replicò il Santo, figlio di Dio vivo. Giacché  dunque confessi di essere cristiano disse Calvisiano io ti consegno ai carnefici perché ti mettano alla tortura. Stando poi il santo alla tortura l’interrogò Calvisiano: “Che  dici ora della tua confessione fatta? E il santo: “Quello che ho detto prima, lo dico anche ora: io sono cristiano”. Ma perché, disse il giudice, non hai consegnato quelle carte come comandano gli imperatori?”. Rispose: “Perché sono cristiano e sono pronto  a morire piuttosto che a consegnarle. In quelle vi è  la vita eterna e chi le consegna la perde”. Il tiranno lo fece di nuovo mettere fra i tormenti ed Euplio, stando fra quelli, diceva: “Ti ringrazio, Gesù Cristo mio Dio; io per te patisco, tu custodiscimi”. Disse il giudice: ”Adora gli dei, sarai liberato. E il santo rispose: “Adoro Cristo e detesto i demoni. Fa’ quel che vuoi, aggiungi i tormenti: io sono cristiano”. Dopo che il santo fu torturato per lungo tempo, il giudice gli disse: “Misero, venera i nostri dei, adora Marte, Apollo e Esculapio”. Il santo rispose: “Adoro il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, unico Dio, fuori di cui non vi è altro Dio e periscano gli dei. Io sacrifico a Dio me stesso e non mi resta altro da fare”. Calvisiano lo fece mettere ai più crudeli tormenti ed  Euplio fra quelli ripeteva: “Ti ringrazio mio Signore, Gesù Cristo; io per te patisco, tu soccorrimi”.  Pronunciava queste parole solo con le labbra, mentre il dolore dei tormenti gli faceva mancare la voce e le forze. Vedendo finalmente Calvisiano la costanza del santo, lesse la sentenza che lo condannava a perdere la testa. Allora fu appeso al collo di Euplio il libro dei Vangeli e mentre il santo andava alla morte un banditore precedendolo gridava: “E’ Euplio cristiano, nemico degli dei e degli imperatori”. Ma il santo non cessava nel cammino di ringraziare Gesù Cristo. Giunto al luogo del supplizio, posto in ginocchio, fece questa preghiera: “Signore mio, Gesù Cristo, ti ringrazio della forza che mi hai dato per confessare il tuo santo nome. Porta a compimento l’opera, perché i nemici restino confusi”. E rivolto verso il popolo che l’aveva seguito, disse: “Fratelli miei, amate Dio con tutto il cuore mentre egli non sa scordarsi di coloro che lo amano; se ne ricorda mentre vivono e se ne ricorda nella loro morte; e manda loro i suoi angeli per condurli alla patria celeste”. Dette queste parole, presentò il collo e fu decapitato  il 12 agosto. I cristiani presero il suo corpo, lo imbalsamarono e con onore lo seppellirono.

San Filea e san Filoromo
Tra i molti martiri dell’Egitto e della Tebaide sono degni di speciale lode i santi Filea e Filoromo per la loro nobiltà e per il credito che avevano nelle loro patrie, come narra Eusebio. Filoromo godeva una carica considerevole in Alessandria con cui rendeva pubblica giustizia. Filea aveva altresì amministrato le prime cariche della città di Imuis nell’Egitto. Egli era nato nel paganesimo ed aveva preso moglie e aveva più figli, che erano ancora pagani quando il santo diede la vita per Cristo. Egli si convertì in età già avanzata, ma il Signore lo riempì di  tanta virtù che meritò di essere fatto vescovo della sua patria. Abbiamo una sua lettera, che egli, essendo vescovo, scrisse al suo popolo mentre stava in prigione ed era vicino a consumare il suo martirio. In questa prigionia fece conoscere lo zelo che aveva per il suo gregge, anche se era vicino alla morte. Qui procurò di dar coraggio a quei fedeli di soffrire volentieri ogni pena per amore di Gesù Cristo, piuttosto che venir meno alla fede. Portava l’esempio di tanti che, tenendo gli occhi fissi in Dio, andavano con gioia incontro alla morte, sapendo che Gesù Cristo ben sapeva confortare i suoi servi sino a far loro conseguire la vita eterna. Per questo li esortava a confidare nei meriti di Gesù Cristo, tenendo sempre davanti agli occhi la sua passione e il premio eterno che egli promette a chi è costante nel confessarlo. Poco dopo che ebbe scritto  questa lettera fu condotto dinanzi a  Culciano, prefetto dell’Egitto, il quale avendo davanti Filea e Filoromo li esortò ad avere pietà di loro stessi ed anche delle loro mogli e dei figli. Si unirono a questi per convincerli molti dei loro parenti e amici di Alessandria. Tutti questi tentativi di  persuasione non indebolirono la loro costanza, cosicché stando Filea sul palco ed interrogato dal prefetto perché non volesse rientrare in se stesso e rinsavire disse: “Io non ho mai perduto il senno”. Dunque, riprese Culciano, sacrifica agli dei. Ma a questa richiesta Filea rispose sempre che egli non sacrificava a più dei ma ad un solo Dio. Replicò il prefetto che egli doveva sacrificare secondo la sua coscienza per non vedere il danno di sua moglie e dei suoi figli. Rispose Filea: “La coscienza mi obbliga a preferire Dio ad ogni cosa, dicendo la Scrittura: “Amerai  sopra tutte le cose il tuo Dio, che ti ha creato”. Quale Dio? disse Culciano. E il Santo stendendo le mani verso il cielo: “Quel Dio che ha creato il cielo e la terra e sussiste eternamente per tutti i secoli”. Culciano passò a chiedergli se Cristo era Dio. Rispose Filea: “Sì, certamente perché egli ha dato la vita ai morti e ha fatto molti altri miracoli. Ma come! disse Culciano, un dio è stato crocifisso? Si, replicò Filea, è stato crocifisso per la nostra salvezza. Egli per noi ha voluto soffrire la morte e tante ingiurie e tutte queste cose erano state predette nelle Sante Scritture. Se qualcuno vuol avere chiarimenti, si faccia avanti e conoscerà la verità. E poi gli disse che la grazia che da lui desiderava era che si servisse della sua autorità ed eseguisse gli ordini che aveva. Dunque, replicò Culciano, tu vuoi morire così senza ragione? E Filea: “Non senza ragione, ma per Dio e per la verità”. E Culciano gli disse: “Io voglio salvarti la vita per riguardo a tuo fratello. E Filea: “Ma io ti prego di eseguire quel che ti è stato comandato. Culciano: “Se io sapessi che sei povero non penserei a salvarti, ma poiché sei molto ricco e puoi nutrire molti voglio liberarti dalla morte; per questo ti esorto a sacrificare”. Rispose Filea: “Io non sacrifico”. Ma, aggiunse Culciano, vedi come tua moglie ti guarda? E Filea: “Gesù Cristo a cui servo è il nostro Salvatore. Come ha chiamato me, così può chiamare anche lei all’eredità della sua gloria”. Orsù, disse il prefetto, ti do tempo perché tu pensi meglio ai tuoi fatti. Rispose Filea: “Ho già pensato più volte a tutto ed ho  scelto di patire per Cristo”. Allora i suoi parenti gli si gettarono ai piedi a pregarlo che avesse compassione della moglie e dei suoi figli. Ma il santo non facendo conto delle loro  lacrime, con gli occhi rivolti a Dio diceva che non doveva far conto di altri parenti se non dei santi del paradiso. S. Filoromo, trovandosi  presente a questi pianti dei parenti di Filea ed a tante esortazioni del prefetto, alzò la voce e disse: “Perché senza frutto tentate di abbattere la perseveranza di questo uomo? Perché tanto vi affaticate per rendere infedele uno che vedete essere fedele al suo Dio? Non vedete che le vostre parole e le vostre lacrime non possono nulla con lui? Lacrime sparse per motivi terreni non possono piegare l’animo di chi tiene davanti agli occhi solo Dio”. Tutti i presenti adirati contro Filoromo chiesero che egli insieme con Filea fosse condannato allo stesso supplizio. Per questo il giudice volentieri comandò che entrambi fossero decapitati. Allora tutta la turba insieme con i martiri si incamminò al luogo della esecuzione. Ma nel cammino il fratello di Filea disse ad alta voce che Filea chiedeva l’appello. Per questo Culciano lo  interrogò se veramente avesse fatto appello. Ma Filea rispose: “Io non ho mai fatto appello; non ascoltate quello che dice questo miserabile. Io sono molto obbligato ai giudici perché per mezzo loro divento coerede di Gesù Cristo”. Ciò detto, Filea si avviò di nuovo al luogo del supplizio, dove  giunto con Filoromo alzò la voce ai cristiani e disse: “Figliuoli miei, chi di voi cerca veramente Dio, stia attento a guardarsi dai peccati, poiché il nemico va in giro cercando chi divorare. Non abbiamo ancora patito, ora cominciamo a patire e ad essere discepoli di Gesù Cristo. Siate attenti ad osservare i suoi precetti. Invochiamo sempre il creatore di tutte le cose al quale sia gloria in eterno”. Finite queste parole i ministri li decapitarono entrambi e li inviarono alla patria celeste e così consumarono il loro sacrificio questi due eroi.
Santa Dionigia vergine e altri compagni martiri
Nel terzo secolo furono presentati al proconsole dell’Asia, chiamato Ottimo, tre cristiani, Andrea, Paolo e Nicomaco. Da lui interrogati di qual paese fossero, Nicomaco, prima degli altri, rispose ad alta voce: “Io sono cristiano”. E voi altri cosa dite? disse il proconsole agli altri due. Risposero: “Anche noi siamo cristiani. Ottimo rivolto a Nicomaco gli ordinò che sacrificasse agli dei, come era comandato dal principe. Quegli rispose: “Ma tu già sai che un cristiano non può sacrificare ai demoni”. Il proconsole lo fece prendere e tormentare così crudelmente che Nicomaco era prossimo a spirare e vedendosi in tale stato il misero venne meno e disse: “Io non sono mai stato cristiano: ebbene sacrifico agli dei”. Presto fu fatto sciogliere l’infelice, ma in quello stesso momento fu invasato dal demonio e buttandosi a terra si troncò la lingua con i denti e morì. A questo spettacolo Santa Dionigia vergine di sedici anni, piangendo la disgrazia di Nicomaco, esclamò: “O miserabile che per non soffrire un altro po’ ti sei condannato ad una pena eterna!”. Il proconsole, udite queste parole, la fece tirare fuori dalla folla, e le domandò se era cristiana. Si, essa rispose, io sono cristiana e perciò piango quell’infelice che non seppe patire un altro po’ e guadagnarsi il paradiso ed ora piangerà eternamente”. Il proconsole adirato le disse: “Or via, tu devi sacrificare ai nostri dei, se non vuoi essere trattata in modo vergognoso e dopo ciò bruciata viva”. Dionigia rispose: “Il mio Dio è più grande di te; per questo non temo le tue minacce. Egli mi dà la forza di soffrire ogni tormento per suo amore”. Allora Ottimo l’abbandonò a due giovani i quali la condussero in una casa dove apparve un giovane risplendente di luce che la difendeva, per cui essi si gettarono ai piedi della santa pregandola di intercedere per essi. Fattosi giorno, il proconsole si fece presentare Andrea e Paolo che stavano in prigione e comandò loro che sacrificassero alla dea Diana. I due santi risposero: “Noi non conosciamo Diana o altri demoni da voi adorati; noi non adoriamo che il solo vero Dio”. A queste parole il popolo idolatra chiese di poterli uccidere e il proconsole li consegnò loro perché li lapidassero. E così fu fatto, avendoli a questo scopo legati per i piedi e trascinati fuori della città. Ma mentre erano lapidati quei santi, Dionigia, udendo il rumore, e fuggendo dalle mani delle guardie, corse dov’erano quei santi e si gettò sopra di essi dicendo: “Per vivere con voi in cielo voglio con voi morire qui in terra”. Il proconsole, sentendo ciò, comandò che le fosse tagliata la testa e così fu fatto.

San Fruttuoso e compagni
San Fruttuoso fu vescovo di Tarragona nella Spagna. Gli atti del martirio di San Fruttuoso e suoi compagni narrano che, essendo imperatori Valeriano e Gallieno nell’anno 259, per ordine di Emiliano, presidente della provincia, furono arrestati il vescovo Fruttuoso e due suoi diaconi, Augurio ed Eulogio. Il santo vescovo stava ritirato nella sua stanza quando vennero i soldati a prenderlo. Egli, udendo lo strepito che essi facevano, aprì la porta, ed uscì loro incontro in pianelle. I soldati gli dissero che il presidente lo chiamava insieme con i suoi diaconi ed egli rispose: “Eccomi pronto, andiamo, ma se me lo permettete mi calzerò”. Si calzò e furono presto condotti tutti e tre in prigione. Stettero qui sei giorni e poi furono introdotti all’udienza del presidente, che rivolto a Fruttuoso gli disse: “Hai tu inteso quello che hanno comandato gli imperatori?”. Rispose il santo: “Io non lo so, so bene che sono cristiano”. Soggiunse Emiliano: “Hanno comandato che siano onorati gli dei”. E Fruttuoso replicò: “Io onoro un solo Dio che ha fatto il cielo e la terra”. E quegli disse: “Ma sai tu che vi sono gli dei?”. Il santo rispose: “Io non lo so”. Ed Emiliano: “Lo saprai bene presto”. Poi soggiunse: “A chi mai renderanno gli uomini ossequio, se non adorano gli dei e le immagini degli imperatori?”. E voltandosi al diacono Augurio gli disse: “Non volere tu dare ascolto alle parole di Fruttuoso. Augurio rispose: “Io adoro un Dio onnipotente. Quindi Emiliano si rivolse ad Eulogio: “Forse anche tu veneri Fruttuoso?”. E quello: “No, io non venero Fruttuoso, ma venero lo stesso Dio di Fruttuoso”. Il presidente disse poi a Fruttuoso: “Sei tu  vescovo?”. Il santo rispose: “Si signore, io lo sono”.  Emiliano soggiunse: “No, di’ meglio, che lo sei stato, ma non lo sei più”. Quindi pronunziò contro tutti e tre la sentenza, condannandoli alle fiamme. Mentre  san Fruttuoso insieme con i suoi diaconi era condotto all’anfiteatro dove si doveva eseguire la sentenza, il popolo fu mosso a compassione del santo vescovo (poiché egli era amato non solo dai fedeli ma anche dagli idolatri). Lungo la strada gli presentarono una tazza di liquore soave per dargli vigore. Egli la rifiutò dicendo che non era ancora tempo di rompere il digiuno. Giunto  il santo all’anfiteatro, allegro e tranquillo, gli si fece avanti un suo lettore di nome Augustale e piangendo lo pregò di permettergli di togliergli i sandali. San Fruttuoso  disse: “No,  figliolo mio, ma che io mi scalzi da solo, mentre mi dà vigore la certezza delle divine promesse”. Toltosi i calzari, un altro fedele, presolo per mano, lo pregò di ricordarsi di lui,  raccomandandolo a Dio. E il santo rispose: “E’ necessario che io mi ricordi di tutta la Chiesa cattolica dall’Oriente all’Occidente”. Con queste parole, come osserva S. Agostino, volle significare che, pregando per tutta la Chiesa, pregava per ciascun fedele in particolare, come ciascun fedele partecipa delle preghiere che sono fatte dalla Chiesa. Stando poi il santo per entrare nell’anfiteatro e vedendosi vicino a conseguire la corona, alzò la voce e disse a tutti i cristiani che qui stavano: “Non dubitate, che non vi mancherà il pastore né mai verranno meno l’amore e la promessa del Signore. Quello che ora vedete essere sofferto da me non è che una leggera infermità che dura un’ora”. Avendo detto ciò entrò con i suoi compagni nelle fiamme, ma il Signore dispose che le fiamme non consumassero se non i soli legami con i quali i santi martiri stavano legati con le mani dietro le spalle. Essendo rimasti sciolti, si inginocchiarono in preghiera, alzarono le mani al cielo e supplicarono Dio che li  consumasse col fuoco, perché avesse compimento il loro sacrificio”. Il Signore li esaudì e spirando andarono a ricevere il premio del loro martirio. Dopo la loro morte volle Dio glorificare i suoi servi poiché manifestò la loro gloria a due cristiani della famiglia dello stesso presidente, chiamati Babila e Migdonio, i quali al momento del loro passaggio videro aprirsi il cielo e san Fruttuoso in compagnia dei suoi diaconi, che, in mezzo ad un grande splendore, salivano a prendere possesso delle loro corone. A quella vista essi chiamarono Emiliano perché venisse a vedere come erano ricevuti in cielo coloro che egli aveva condannato in quel giorno. Andò Emiliano ma non li vide, perché non era degno di vederli. Sopraggiunta poi la notte, i fedeli, afflitti per la morte del loro pastore, corsero all’anfiteatro per spegnere il fuoco che ancora ardeva e prendere le ossa dei santi martiri e ciascuno ne prese quante poteva. Il santo vescovo apparve e comandò loro di restituire ognuno la porzione presa delle ossa e di seppellirle nello stesso luogo. Oh beati martiri che a guisa d’oro sono stati provati col fuoco e poi coronati di una gloria eterna. Di là invitano noi a seguirli. S. Agostino, in un sermone fatto nella festa di quei santi, scrive: “Questi erano uomini di carne come noi, ed ebbero questa bella sorte. Tutti pertanto dobbiamo aspettare da Gesù Cristo la forza di vincere i nostri nemici, mentre egli supererà per noi tutte le difficoltà che a noi sembrano insuperabili per la nostra debolezza”.

 

 

3 AGRICOLA, VITALE, FILIPPO, IPPOLITO, IRENEO.SIMEONE, APPIANO, EDESIO, BASILIO, BIAGIIO, ARCADIO, AURELIO E NATALIA

Dei santi Agricola e Vitale e di un altro san Vitale martire
Sant’ Agricola fu gentiluomo della città di Bologna e conduceva una vita molto cristiana quando infuriava la persecuzione di Diocleziano. Egli, per la bontà che usava, si era conciliato la stima e l’affetto di tutti, anche dei Gentili. Teneva esso al suo servizio un altro santo uomo chiamato Vitale, che lo serviva con grande fedeltà. E poiché ambedue amavano assai Gesù Cristo, scambievolmente si aiutavano nella pratica delle sante virtù e si animavano a dare la vita quando Dio così disponesse, per la santa fede. Ma toccò a Vitale di essere il primo ad essere martire e di andare avanti (come dice Sant’Ambrogio) a preparare il luogo al suo padrone in cielo. I nemici della fede, avendolo preso, per costringerlo a rinnegare Gesù Cristo lo torturarono in modo che non gli lasciarono alcun membro del corpo che non fosse piagato. Egli fu sempre costante a confessare il nome di Gesù Cristo. Questi, essendo Vitale vicino a consumare il suo sacrificio, mandò un angelo a mostrargli in una visione la corona che gli preparava in cielo. Per questo il santo prima di spirare nel suo supplizio fece questa preghiera: “Gesù, mio Salvatore e Dio, comanda che l’anima mia venga a te come desidero e riceva la corona che il tuo angelo mi ha mostrato”. E finita questa preghiera glorioso volò al cielo. I persecutori con i tormenti e con la morte di Vitale si lusingarono di indurre il suo padrone Agricola a rinnegare la fede. Cercando di convincerlo ad ubbidire agli editti imperiali con il sacrificare agli idoli, videro che le loro parole riuscivano tutte vane; poiché Agricola, invece di esser rimasto spaventato dagli aspri tormenti dati a Vitale e dalla sua morte, aveva preso maggior coraggio e desiderio d’essergli compagno nella corona con il dare la vita per Gesù Cristo. Per questo, disperando i nemici di rimuoverlo dalla fede, lo condannarono a morte. Ed ebbe in sorte di soffrire una morte simile a quella di Gesù Cristo, poiché lo fecero morire crocifisso, inchiodando le sua membra con molti chiodi sulla croce. I corpi di questi due santi martiri, insieme con gli strumenti del loro supplizio, furono sepolti in un cimitero dove giacquero sconosciuti sino al tempo in cui il Signore rivelò a Sant’ Ambrogio il luogo della loro sepoltura. Per questo, Sant’Ambrogio, passando nell’anno 393 per Bologna, ritrovò il loro prezioso deposito e con molto onore li trasferì in una chiesa. Prese per sè una parte del sangue dei santi martiri e della croce di sant’ Agricola che ritrovò nel sepolcro e li portò a Firenze, collocandoli nell’altare di una chiesa che egli poi consacrò in quella città. Ed in questa occasione il santo fece un sermone da cui si è ricavato il martirio qui scritto.

Di un altro san Vitale
Si aggiunge qui il trionfo di un altro san Vitale, di una nobile famiglia di Milano. Egli era cristiano con tutta la sua famiglia ed era di santi costumi. Aveva servito nell’esercito dell’imperatore e perciò si trovava amico del console Paolino. Confidando nel suo favore  si prendeva la libertà di assistere i cristiani perseguitati, soccorrendoli nei loro bisogni e visitandoli nelle carceri oppure nelle caverne dove quelli stavano nascosti. Paolino era grande nemico dei cristiani, ma non sapendo che Vitale fosse cristiano, lo invitò ad andare con lui a Ravenna, dove, essendo giunto, il santo seppe che un certo cristiano, chiamato Ursicino,  medico di professione,  sotto tortura per la fede, vacillava e correva il rischio di apostatare. Vitale, lasciando il console, corse al luogo dei tormenti e trovando Ursicino già quasi vicino a cedere, gli disse: E come, amico? Tu hai la corona tra le mani e dopo tante fatiche vuoi perderla? E per non soffrire questi brevi tormenti vuoi gettarti nei tormenti eterni? Tu guarisci i mali degli altri e poi vuoi condannarti ad una morte eterna? Ravviva la fede e confidando in Gesù Cristo compi da forte il tuo sacrificio! A questo conforto Ursicino si mantenne fermo e diede la vita per Gesù Cristo. Dopo ciò Vitale stesso diede sepoltura al suo corpo. Avvisato di ciò Paolino disse a Vitale: Come mai questo? Sei pazzo? Senza essere cristiano hai fatto quel che hai fatto? Subito rispose il santo e disse: “No, io sono cristiano e me ne vanto; e non sono pazzo: è pazzo chi adora come dèi uomini scellerati. Non vi è che un solo Dio: questo Dio noi adoriamo, e ci gloriamo di morire per suo amore.” Paolino amava il santo, ma, nonostante ciò, sdegnato ordinò che fosse posto in carcere come cristiano. San Vitale, vedendosi nella prigione unito agli altri cristiani, esultava di gioia, così che Paolino per lo sdegno gli fece slogare tutte le ossa sul cavalletto, e lacerare le carni con unghie di ferro. Ma il santo benchè si trovasse quasi moribondo, in mezzo a quei tormenti non cessava di predicare Gesù Cristo. Dalla qual cosa più irritato, il console lo fece gettare in una fossa, e facendolo poi coprire di sassi lo fece morire. Così il Santo compì il suo martirio il 27 aprile dell’anno 171. Nel punto stesso in cui spirò san Vitale, un sacerdote di Apollo, che aveva molto incitato il tiranno contro di lui, invasato dal demonio, gridava per la rabbia dicendo: Tu mi tormenti o Vitale, tu mi bruci. E dopo sette giorni si gettò in un fiume e morì annegato. Le reliquie del santo si conservano in Ravenna, in una gran chiesa fabbricata nel luogo del suo martirio. Nello stesso giorno dedicato ad onore del santo si fa anche memoria di Santa Valeria sua moglie, la quale, ritornando da Ravenna dopo la morte del marito, fu talmente maltrattata dagli idolatri per la fede durante il viaggio che, giunta a Milano, mezza morta, dopo due giorni rese l’anima a Dio; e anch’essa è onorata come martire.

Filippo vescovo di Eraclea e compagni martiri
Nella Tracia, dove metropoli della provincia  era la città di Eraclea, Filippo  fu eletto vescovo per lo splendore delle sue virtù. Egli ben corrispose alle aspettative del suo popolo, così che il popolo lo amava ed egli tutti amava del suo popolo. Ma fra gli altri amava particolarmente due suoi discepoli, Severo prete e Erme diacono, che poi ebbe compagni nel martirio, nella persecuzione sorta sotto Diocleziano. Durante questa  fu consigliato al santo di allontanarsi dalla città. Ma egli non volle partire, dicendo che voleva uniformarsi alle disposizioni di Dio, che sa bene ricompensare chi patisce per suo amore e perciò non doveva temere le minacce e i tormenti dei tiranni. Un giorno dell’anno 304, mentre il santo esortava nella chiesa il popolo alla pazienza, venne un soldato, il quale, per ordine del governatore chiamato Basso, fatto uscire il popolo, chiuse le porte della chiesa e le sigillò. Filippo allora gli disse: Credi tu che Dio abiti fra queste mura e non già nelle nostre anime? Non potendo poi Filippo entrare più nella Chiesa, non volle però abbandonarla, ma si fermò presso le porte di quella insieme con il suo popolo e qui provvide a separare i buoni dai cattivi, confortando i primi ad essere costanti nella fede, e i secondi a fare penitenza dei propri peccati. Basso, trovandoli così radunati in quel luogo, li fece arrestare tutti, e poi  domandò chi fosse il loro maestro. Filippo allora si fece avanti e rispose: Io sono colui del quale tu chiedi. E Basso disse: “Hai inteso la legge dell’imperatore che non si radunino i cristiani in nessun luogo, affinché tutti  sacrifichino agli dei o periscano?”. Quindi ordinò loro che gli consegnassero tutti i vasi d’oro e d’argento e tutte le scritture che trattavano della dottrina cristiana, altrimenti sarebbero stati sottoposti ai tormenti. Rispose san Filippo: “Per me io sono pronto a patire come vuoi in questo corpo già cadente per la vecchiaia; ma togliti dal pensiero di aver potere sopra il mio spirito. I vasi sacri prendili a tuo arbitrio, ma le Scritture divine tocca a me di non farle cadere nelle tue mani”. Irritato da questa risposta, Basso chiamò i carnefici e fece torturare crudelmente il santo e per lungo tempo. Il diacono Erme, essendo presente a quegli strazi del suo vescovo, disse al governatore che, quand’anche gli fosse riuscito di avere in mano tutte le Sacre Scritture, i buoni cristiani non avrebbero smesso di insegnare agli altri a seguire Gesù Cristo e a rendergli l’onore che si merita. A queste parole seguì una tempesta di battiture sopra il santo diacono. Quindi ordinò Basso che si prendessero i sacri vasi dal sacrario e che le Scritture possono bruciate e che Filippo e gli altri carcerati fossero condotti dai soldati nel foro al supplizio, per rallegrare gli infedeli con tale spettacolo e spaventare i cristiani. Giunto Filippo al foro ed informato che le Scritture erano state bruciate, fece un lungo discorso al popolo, in cui parlò del fuoco eterno minacciato da Dio agli empi. Ma nel mezzo del discorso venne un sacerdote degli idoli chiamato Catafronio e portò con sé alcune carni di vittime sacrificate ai demoni. Erme, vedendo ciò disse: Questa cena diabolica è stata portata per costringerci a gustarne e così contaminarci. Ma San Filippo lo esortò a non inquietarsi. Frattanto giunse al foro il governatore e comandò a Filippo che subito sacrificasse ai suoi dei. Rispose il santo: “Essendo io cristiano, come posso venerare le pietre? Sacrifica almeno all’imperatore, aggiunse Basso. E il santo replicò: “La mia religione mi ordina di ossequiare i principi, ma di non sacrificare se non a Dio.” Ma questa bella statua della Fortuna, disse il governatore, non merita che tu le offra una vittima?”. Rispose il santo: “Essa può attirarsi l’ossequio di voi che la adorate, ma io non posso adorarla”. Allora il santo alzò la voce e rimproverò la pazzia di coloro che veneravano come dei le statue, che, essendo tratte dalla terra, non meritavano che di essere calpestate come terra, non già adorate. Basso si rivolse ad Erme e gli comandò che almeno lui  sacrificasse a quei dei. Il santo risolutamente rispose che era cristiano e che non poteva farlo. Ma tu sarai dato alle fiamme, disse quello, se non sacrifichi. Erme rispose: “Tu mi minacci di queste fiamme che durano poco, perché non sai la forza delle fiamme eterne, nelle quali ardono i discepoli del diavolo”. Basso sdegnato comandò che i santi fossero condotti in carcere. Nel cammino gli insolenti, portando il santo vecchio Filippo, lo fecero cadere a terra più volte, ed egli senza turbarsi, con una faccia allegra, si rialzava. Finito frattanto il tempo del governo di Basso giunse ad Eraclea il successore Giustino, uomo più crudele di Basso. Questi, essendogli stato presentato Filippo, gli disse che, considerando la propria età, sacrificasse se non voleva far soffrire pene intollerabili anche ai giovani. Rispose il santo: “Voi altri per timore di una breve pena ubbidite agli uomini, quanto più noi dobbiamo obbedire a Dio, che punisce i malfattori con pene eterne! Tu potrai tormentarmi ma non  indurmi mai a sacrificare.”  Disse Giustino: “Io ti farò trascinare per i piedi per tutta la città”. Rispose il santo: “Piaccia a Dio che ciò si faccia”. La minaccia fu eseguita. Il santo non morì in quel tormento ma rimase tutto lacerato nel corpo e tra le braccia dei fratelli fu ricondotto in prigione. Dopo ciò il governatore si fece presentare il diacono Erme e lo esortò a sacrificare se voleva liberarsi dai tormenti già preparati. Rispose il santo: “Io non posso sacrificare e tradire la mia fede. Tu dunque, a tuo piacere, lacera pure, fa’ a pezzi il mio corpo”. Parli così, disse Giustino, perché non comprendi le pene che ti aspettano. Ben te ne pentirai quando le proverai. E il santo: “Per quanto saranno atroci le pene, Gesù Cristo, per amore del quale patisco, me le renderà leggere e soavi”. Giustino fece riportare i santi in prigione ove essi stettero a marcire per sette mesi, quindi li fece trasferire ad Adrianopoli, dove,  giunto anche lui, si fece di nuovo presentare Filippo e gli disse che aveva differito la condanna per dargli tempo di ravvedersi e sacrificare. Il santo rispose: “Io ti ho detto che sono cristiano e sempre dirò lo stesso. Io non sacrifico alle statue ma solo a quell’unico Dio al quale ho consacrato tutto me stesso.” Il giudice, adirato, lo fece spogliare e battere con tanta crudeltà che gli rimasero scoperte le ossa e le viscere. Ma il santo vecchio sopportò con tanta fortezza quella carneficina che ne restò ammirato lo stesso Giustino. Ma dopo tre giorni di nuovo fece chiamare san Filippo e gli disse: Dimmi, perché con tanta temerarietà rifiuti di obbedire agli imperatori? Il santo rispose: “Quello che mi muove non è la temerarietà, ma è l’amore che porto al mio Dio, che un giorno mi dovrà giudicare. Io ho sempre obbedito ai principi, ma ora si tratta di preferire la terra al cielo. Sono cristiano, non posso sacrificare ai tuoi dei”. Udito ciò Giustino si rivolse ad Erme e gli disse: “Dal momento che a costui per la vecchiaia è venuta a tedio la vita, almeno tu non la disprezzare; sacrifica e provvedi alla tua salvezza!”. Erme cominciò con intrepidezza a parlare contro l’empio culto degli idoli, ma Giustino sdegnato l’interruppe dicendo: “Tu mi parli come se sperassi di farmi cristiano”. E il santo replicò: “Io desidero che tali divengano non solo tu ma tutti quelli che mi odono”. Finalmente il tiranno, vedendo la costanza dei due santi, pronunciò questa sentenza: “Comandiamo che Filippo ed Erme, per aver disprezzato gli ordini imperiali, siano bruciati vivi”. Udita la sentenza, i santi con giubilo si avviarono al luogo del fuoco come due vittime consacrate al Signore. Ambedue stavano così sofferenti nei piedi (probabilmente a motivo dei ceppi ) che il santo vescovo dovette essere portato di peso al supplizio ed Erme lo seguiva, ma con grande stento e diceva a Filippo: “Affrettiamoci, padre, non  prendiamoci cura dei piedi dei quali presto non avremo più bisogno.” Giunti al luogo del martirio, secondo il costume del paese, i condannati alle fiamme furono calati in una fossa e coperti di terra sino alle ginocchia, affinché non si potessero muovere e così fu fatto. Erme, nello scendere nella fossa, per la gioia proruppe in un gran riso. Finalmente acceso il fuoco dagli addetti, i santi, finchè poterono,  non cessarono di rendere grazie a Dio della loro morte e consumarono il loro sacrificio dicendo: amen.
Severo, che era l’altro discepolo di San Filippo, nella prigione, ove era rimasto chiuso nel tempo che il suo santo vescovo aveva consumato nel fuoco il martirio, seppe della sua morte gloriosa. E stava afflitto di non aver potuto essergli compagno; per cui pregava il Signore di non giudicarlo indegno di dare anche lui la vita per la sua gloria. E fu esaudito, poiché il giorno seguente anch’esso ottenne la bramata corona.

S. Ippolito
S. Ippolito fu dapprima uno di quei cinque preti della Chiesa romana che aderirono allo scisma di Novaziano, il quale, sottraendosi all’ubbidienza di San Cornelio papa, osò farsi consacrare furtivamente vescovo di Roma. Ma Dio fece la grazia ad Ippolito di purificarlo dal suo peccato con il martirio che soffrì nell’anno 250 nella persecuzione di Decio. Egli stava già carcerato come cristiano e il prefetto di Roma, che doveva giudicarlo, stando ad Ostia  al porto si fece portare qui tutti i cristiani imprigionati. Fra questi vi era Ippolito, al quale nell’andare fu chiesto chi fosse il vero papa. Egli rispose: Fuggite l’indegno Novaziano, abbandonate lo scisma e tornate alla Chiesa cattolica. Ora io vedo le cose in altro modo e mi pento di quello che ho fatto. Giunto ad Ostia fu presentato al prefetto, il quale fece tormentare molti cristiani: infine li condannò tutti a morte. Rivolto al santo, di cui gli fu detto dai presenti che era il capo dei cristiani, gli chiese il suo nome. Avendogli il santo risposto che si chiamava Ippolito disse il tiranno: “Dunque faccia costui la morte di Ippolito e sia trascinato a coda di cavallo”. Volendo alludere al mitico Ippolito che i poeti figurarono caduto dal cocchio e, imbrigliatosi fra le redini dei cavalli, fu da quelli trascinato e fatto a pezzi. I ministri presero due cavalli indomiti, li accoppiarono e posero in mezzo ad essi una lunga fune alla quale attaccarono i piedi del martire e poi con urli e sferzate fecero partire i cavalli. Le ultime parole che si udirono uscire dalla bocca di S. Ippolito furono queste: “Signore, sia pur lacerato il mio corpo, purché sia salva l’anima mia”. I cavalli, correndo fra sassi e  sterpi, lasciarono la strada tinta di sangue e seminata delle membra del Santo, che furono poi raccolte con diligenza dai fedeli, i quali con spugne ne raccolsero anche il sangue. Le reliquie del santo, scrive Prudenzio, furono poi trasportate a Roma, dove fu molto venerato dai Romani.

S. Ireneo vescovo
Si crede che San Ireneo sia nato nella città di Sirmio. Quantunque  i suoi genitori probabilmente fossero Gentili, egli non di meno sin da fanciullo abbracciò la fede in Gesù Cristo. Avanzato in età, prese moglie, da cui ebbe molti figli che tutti lasciò in età molto tenera quando diede la vita per Gesù Cristo. Diede poi il santo tanti e tali esempi di virtù che anche nella sua età giovanile meritò di essere fatto vescovo di Sirmio. Così, combattendo contro i nemici della fede per difendere il popolo affidato alla sua cura, ebbe la sorte di conseguire la corona del martirio. Nell’anno 314 giunsero in Sirmio gli editti dell’imperatore Diocleziano contro i cristiani. Probo, governatore della Bassa Pannonia si affrettò a metterli in esecuzione. Cominciò ad infierire in primo luogo contro gli ecclesiastici e in modo particolare contro i vescovi, sperando che, abbattuti i pastori, facilmente restasse disperso il gregge di Gesù Cristo. Ireneo, pertanto, che a quel tempo era ancora giovane, presto fu preso dai soldati e presentato a Probo che gli disse: “Ubbidisci ai comandi imperiali e sacrifica agli dei. Rispose il santo: “Dice la Scrittura: chiunque sacrifica agli dei e non a Dio sarà sterminato. Soggiunse Probo: “I principi hanno comandato che voi cristiani o sacrifichiate o siate messi ai tormenti”. Ireneo rispose: “E a me è stato comandato di eleggere i tormenti piuttosto che negare Dio e sacrificare ai demoni”. Probo: “Sacrifica o ti farò tormentare”. E il santo: “Avrò piacere se lo farai; perché così sarò fatto partecipe della passione del mio Signore”. Comandò pertanto il presidente che fosse posto ai tormenti, nei quali Probo, vedendo il santo già molto straziato da quelli, gli chiese: “Cosa dici Ireneo? Sacrifica! E il santo: “Sacrifico con la mia confessione al mio Dio, al quale sempre ho sacrificato”. Mentre Ireneo era così tormentato, vennero suo padre, la moglie, i figli e tutti i suoi domestici ed amici a pregarlo che ubbidisse all’imperatore. I figli gli abbracciavano i piedi e gli dicevano: “Padre se non hai pietà di te, abbi almeno pietà di noi”. La moglie, piangendo, lo scongiurava di non abbandonarla. Gli amici lo esortavano a non voler morire nella sua età ancora fresca. Ma il santo, come forte scoglio in mezzo alle onde, avendo davanti agli occhi quella sentenza di Gesù Cristo che dice: “Chiunque mi rinnegherà davanti agli uomini, non sarà da me riconosciuto come mio alla presenza di mio Padre che sta nei cieli”, non rispose loro neppure una parola, anelando di conseguire il martirio che gli sovrastava. Allora Probo gli disse: “Ireneo, abbandona questa tua pazzia; provvedi alla tua giovane età e sacrifica”. Rispose il santo: “Io provvedo a me per tutta l’eternità se non sacrifico”. Alla fine fu deposto dai tormenti e condotto in carcere, dove per molti giorni soffrì altri supplizi. Dopo qualche tempo, Probo, sedendo in tribunale, si fece presentare di nuovo il santo vescovo e gli disse: “Sacrifica ormai Ireneo e liberati dalle pene che ti sovrastano”. Il santo rispose: “Fa’ pure quello che ti è comandato di fare e non aspettare da me che in ciò io ti obbedisca”. Sdegnato Probo lo fece battere in sua presenza e il santo in quelle battiture diceva: “Io sin dai miei primi anni adoro un dio che in tutte le cose mi assiste e mi conforta. Non posso adorare dèi fatti da mano di uomini. E Probo: “Liberati dalla morte: ti bastino i tormenti che finora hai sofferto”. Replicò Ireneo: “Io mi libererò dalla morte quando con le pene che mi fai soffrire conseguirò la vita eterna”. Gli domandò poi Probo se avesse moglie, figli e genitori. E Ireneo a tutte queste domande rispose di no: “Dico di no, perché Gesù Cristo ha dichiarato che chi ama il padre o la madre o la moglie o i figli più di me non è degno di me”. Probo riprese: “Sacrifica almeno per amore dei tuoi figli”. E il santo: “I miei figli hanno Dio, che può salvarli, come lo ho io. E Probo: “Non mi costringere o Ireneo a metterti di nuovo ai tormenti”. E il santo: “Fa’ quello che vuoi, ma presto vedrai quale costanza il mio Signore Gesù Cristo mi darà contro tutte le tue insidie”. Allora Probo pronunciò la sentenza con cui  condannò sant’ Ireneo a morire  precipitato nel fiume. Il santo, udendo tale sentenza, disse: “Io mi aspettavo, dopo tante minacce, che mi facessi soffrire molti tormenti e poi tagliare a pezzi. Ma tu non l’hai fatto. Ti prego di farlo, perché vediate come i cristiani per la fede nel loro Dio disprezzano la morte. Sdegnato Probo da tali parole comandò che gli fosse tagliata la testa e poi gettato nel fiume. Allora il santo, vedendosi già vicino alla morte, ringraziò Gesù Cristo di avergli dato la forza di cui aveva bisogno e perché con quella morte lo chiamava a far parte della sua gloria. Giunto ad un ponte detto di Diana, luogo del supplizio, si spogliò delle sue vesti, stese le mani al cielo e così pregò: “Signore mio Gesù Cristo, che ti sei degnato di morire per la salvezza del mondo, ti prego di far ricevere dagli angeli  il mio spirito, mentre io, per il tuo nome e per la Chiesa, tutto soffro volentieri; accoglimi per pietà nella tua gloria e conferma il mio gregge nella tua fede”. Dopo ciò dai ministri gli fu troncato il capo e il suo corpo fu gettato nel fiume Savo.

S. Simeone vescovo di Seleucia
Si sa dalle Storie Ecclesiastiche che nella Persia fu predicata la fede di Gesù Cristo dagli stessi apostoli, per cui nel tempo dell’imperatore Sapore (che fu verso la metà del quarto secolo) vi era in quel regno un gran numero di cristiani. Molto afflitti di ciò  i Magi, che erano i sacerdoti della religione persiana, avevano più volte tentato di far proibire quella cristiana. Ma al tempo di Sapore si unirono ai magi anche i Giudei e costrinsero l’imperatore a perseguitare i fedeli. Era allora arcivescovo di Seleucia san Simeone, uomo di grande virtù,  il quale, avendo grande cura del suo gregge, era per questo reputato come il più forte difensore della fede cristiana. Per mandarlo in rovina fecero credere a Sapore che egli aveva corrispondenza con l’Imperatore romano e che gli rivelava gli affari più importanti della Persia. Sapore diede credito a ciò e considerando Simeone come suo nemico si risolse di sterminare dal suo regno lui e tutti i cristiani. Cercò di privarli di tutti i loro beni, ma vedendo che quelli soffrivano tutto con pazienza, ordinò che tutti i sacerdoti e gli altri ministri della Chiesa, qualora non avessero abbandonato Gesù Cristo, fossero decapitati. Intanto comandò che fossero distrutte le chiese dei cristiani. Poi fece mettere in carcere il santo vescovo.  Fatto venire alla sua presenza, San Simeone, perché non sembrasse che egli domandava grazia per il delitto di aver difeso la religione cristiana, non volle prostrarsi secondo il costume di Persia, come già aveva fatto più volte prima. Sapore, offeso da ciò, gli chiese perché gli negasse l’onore che gli era dovuto. Il santo rispose: “Quando io le altre volte sono venuto alla tua presenza  non vi ero condotto per tradire il mio vero Dio. Perciò allora non rifiutavo di darti i soliti onori, ma ora non posso farlo, perché vengo a difendere l’onore di Dio e la mia religione”. L’imperatore lo esortò ad adorare il Sole, promettendogli grandi doni ed onori se ubbidiva e minacciando, se non ubbidiva, di farlo morire e di scacciare tutti i cristiani dal suo regno. S. Simeone rispose che non poteva adorare il Sole e tradire la sua religione. Per questo l’imperatore lo fece mettere in prigione, sperando che il carcere gli avrebbe fatto cambiare parere. Mentre il santo andava al carcere, un vecchio eunuco chiamato Ustazade, sopraintendente della casa reale, vedendo passare S. Simeone, che era condotto in prigione, si prostrò davanti a lui. Ma il santo, disprezzando quell’ossequio dell’eunuco e volgendo altrove la faccia, lo rimproverò perché, essendo egli cristiano, aveva adorato il Sole. A questo rimprovero l’eunuco si mise a piangere dirottamente e spogliandosi della veste bianca che portava ne prese una nera in segno di lutto. Così vestito si mise a sedere dinanzi alla reggia e struggendosi in lacrime diceva: “Misero me! Cosa mi devo aspettare da quel Dio che ho rinnegato, se Simeone mio amico mi tratta così aspramente a causa del mio errore e rivolge da me la sua faccia? Sapore, conosciuta l’afflizione dell’eunuco, fattolo venire a se volle da lui sapere se gli fosse accaduta qualche disgrazia. Quello rispose: “Ah, volesse Dio che mi fossero venute tutte le disgrazie, non quella che è la ragione del mio dolore! Io piango perché non sono morto prima e ancora vivo e vedo quel sole che ho adorato per non dispiacere a te. Io merito una doppia morte, una per aver tradito Gesù Cristo e l’altra per aver ingannato te”. E poi giurò che da allora in poi non avrebbe più tradito il suo Dio. A queste parole il re  entrato in furia, credendo che i cristiani gli avessero fatto perdere il cervello, giurò di farli tutti morire. Avendo compassione di quel povero vecchio, fece tutti gli sforzi per guadagnarlo. Ustadaze però disse che in avvenire non sarebbe mai stato così stolto da rendere alla creatura quel culto dovuto al solo Creatore. Vedendo dunque Sapore la sua costanza, ordinò che fosse decapitato. Mentre il vecchio andava alla morte si fece chiamare un altro eunuco suo amico e lo pregò di dire da parte sua a Sapore che in ricompensa di tutta la servitù che gli aveva prestato, in quel tempo del suo supplizio facesse dichiarare da un banditore che egli non moriva per qualche delitto, ma solo per essere cristiano e per aver rifiutato di rinnegare il suo Dio. E Sapore accondiscese a questa sua richiesta per atterrire i cristiani nel vedere che non la perdonava neppure a quel vecchio, che l’aveva così ben servito. Dopo ciò Sapore rivolse il pensiero a San Simeone e di nuovo tentò di guadagnarlo in tutti i modi. Vedendo tutto riuscire inutile, ordinò che fosse decapitato. Prima di eseguire la sentenza contro il santo, per intimorirlo, fece, davanti ai suoi occhi, tagliare la testa a cento cristiani. San Simeone invece di intimorirsi si mise a dare animo a quei fedeli, facendo loro comprendere quanto grande fosse la loro sorte nel dare la vita per Gesù Cristo, per acquistare la vita eterna. Decapitati che furono quei cento martiri fu tagliata la testa al santo, il giorno di venerdì Santo, in cui egli unì la sua morte a quella di Gesù Cristo. Insieme col santo furono decapitati anche due vecchi preti della Santa Chiesa, Anania e Abdecala. Era presente alla loro morte un certo Pusico, sopraintendente degli artefici del re. Questi, vedendo che Anania nel sistemarsi per ricevere il corpo tremava, gli disse: “Padre, serra gli occhi per un momento e presto vedrai la luce di Gesù Cristo”. Queste parole fecero credere che Pusico fosse cristiano. Fu subito preso e condotto alla presenza del re, al quale disse che anche lui era cristiano e si fece avanti per rinfacciargli la crudeltà che lui imperatore esercitava contro i cristiani. Sapore, offeso da tale rimprovero, lo fece subito morire in un modo nuovo e molto crudele, poiché gli fece strappare la lingua, non già per bocca ma per la collottola forata. Fece anche prendere e giustiziare una sua figliola vergine che si era consacrata a Dio. Tutti questi santi martiri morirono verso l’anno 344. Il loro martirio viene riferito da Sozomeno, autore contemporaneo, nella sua Storia Ecclesiastica.

San Appiano e San Edesio fratelli
San Appiano nacque nella Licia da una famiglia ragguardevole e ricca. I suoi genitori lo mandarono in Berito a studiare le lettere umane. In quella città, dove vi era una gioventù  molto corrotta, Appiano si mantenne sempre casto e morigerato. Ritornato poi a diciotto anni in patria e vedendosi in mezzo ad una famiglia tutta pagana abbandonò quella casa e si ritirò in Cesarea di Palestina, ove lo accolse in casa sua il famoso Eusebio di Cesarea, che fu poi vescovo di quella città. Sotto una tale maestro, Appiano si applicò allo studio delle Sacre Scritture e ad una vita austera, per cui meritò poi quella fine gloriosa che fece. In quel tempo, cioè nell’anno 306, l’imperatore Massimino diede inizio ad una formidabile guerra contro i cristiani, facendo mettere in nota tutte le persone delle famiglie per poi citarle e far morire chi rifiutasse di sacrificare agli dei. Appiano intanto si preparò al combattimento e sapendo che il preside faceva una solenne sacrificio agli idoli, il santo, spinto da uno speciale istinto dello Spirito Santo, andò in quel giorno al tempio e, mescolandosi tra le guardie che accompagnavano il preside, si accostò all’empio altare e mentre quello alzava la mano per versare del vino e sacrificare a  un idolo lo prese per il braccio, lo trattenne e con coraggio lo esortò a desistere da quella empietà, che è voltare le spalle al vero Dio per sacrificare ai simulacri e ai demoni. I soldati misero subito le mani addosso ad Appiano e poco mancò che non lo facessero a pezzi. Lo percossero così crudelmente che il santo restò pieno di lividi. Poi lo condussero in carcere, dove per ventiquattro ore lo tennero con i piedi stesi nel nervo. Già abbiamo spiegato innanzi che il nerbo erano due pezzi di legno tra i quali si stringevano le gambe dei martiri. Il giorno seguente fu presentato al preside, che non avendo potuto guadagnarlo né con promesse né con minacce, gli fece lacerare le coste con uncini di ferro sino a scoprirgli le ossa e le viscere. Quindi fu battuto con tanta violenza nella faccia che non poteva più essere riconosciuto. Il tiranno, vedendo che non aveva guadagnato nulla con cui supplizi, gli fece porre sopra i piedi dei panni di lino intinti nell’olio e voi vi fece appiccare il fuoco. Ognuno può intendere quanto  furono atroci i dolori che il santo patì in quel tormento, ma egli tutto soffrì con somma intrepidezza. Tre giorni dopo, trovandolo il preside armato con la stessa costanza, ordinò che fosse gettato nel mare. Narra Eusebio, testimone oculare, che quando il corpo del martire fu gettato in mare si alzò subito una grande tempesta, la quale pose il mare in tale agitazione che fece tremare tutta la città. Allora il mare depose il corpo del santo sul lido davanti le porte di Cesarea. San Appiano non aveva ancora ventinove anni quando  compì il suo martirio, che avvenne nell’anno 306 il 2 oppure il 5 aprile come vogliono altri. S. Elesio poi era fratello di San Appiano di sangue ed anche di spirito e aveva pure studiato la filosofia, che gli servì per staccarsi di più dal mondo e unirsi a Gesù Cristo. In quella persecuzione egli confessò più volte il santo nome di Gesù, soffrì  lunghe prigionie e, specialmente, il lavoro forzato nelle miniere della Palestina e in tutte quelle si comportò sempre da vero cristiano. Ma finalmente un giorno in Alessandria, vedendo il giudice che molto maltrattava i cristiani, sino a dare le sante vergini in mano ai giovani sfrenati, esso gli si presentò davanti e gli rimproverò le sue ingiustizie, a tal punto che (dice  Eusebio) lo coprì di confusione. Dopo questa azione generosa il santo fu molto straziato dai carnefici, i quali alla fine lo gettarono in mare come suo fratello e così anche lui consacrò la vita a Gesù Cristo.

San Arcadio
San Arcadio fu africano e si crede che abbia consumato il suo martirio in Cesarea di Mauritania. Ardeva ai suoi tempi la persecuzione, nella quale i cristiani erano crudelmente costretti a sacrificare agli idoli. Arcadio, per evitare il pericolo, fuggì dalla sua patria, e si nascose in un luogo dove non attendeva che a digiunare e a pregare. Intanto, poiché egli non compariva nelle funzioni pubbliche, furono spediti soldati a sorprenderlo nella sua propria casa; ma non trovandolo presero prigioniero un suo parente per obbligarlo a rivelare dove fosse Arcadio.  Arcadio, non potendo tollerare che un altro patisse per lui, si presentò da se stesso al governatore e gli disse che poteva liberare quel suo parente, dal momento che era venuto egli stesso a rendere conto di quanto era interrogato. Il governatore gli rispose che egli sarebbe rimasto libero da ogni castigo se avesse sacrificato agli dei. Il santo coraggiosamente rispose: “Ti inganni, se credi che le minacce della morte spaventino i servi di Dio. Essi dicono quel che diceva San Paolo: io vivo solo per Gesù Cristo e la morte per me è un guadagno. Pertanto inventate tutti i supplizi che potete ma non vi riuscirà di separarci dal nostro Dio”. Allora il tiranno pieno di furore, sembrandogli leggeri per lui gli altri tormenti ordinò che al martire fossero tagliati i membri del corpo, uno per uno, cominciando dalle prime giunture dei piedi. E fu subito eseguita la barbara carneficina, nella quale il santo martire altro non fece che benedire Dio. Poiché fu ridotto ad essere un tronco senza gambe e senza braccia, osservando le sue membra sparse per terra, disse: “O membra felici, che avete meritato di servire alla gloria del vostro Dio, io non vi ho mai tanto amate quanto vi amo ora che vi vedo separate dal mio corpo. Ora si che mi riconosco di essere tutto di Gesù Cristo, come ho sempre desiderato”. Poi, rivolto a coloro che gli stavano intorno e che erano idolatri. disse loro: “Sappiate che tutte queste pene si superano da chi tiene davanti agli occhi la vita eterna che Dio dona ai suoi servi. Riconoscete il mio Dio, che mi conforta in questi dolori ed abbandonate i vostri falsi dei, che non possono darvi aiuto nei vostri bisogni”. Chi  muore per il vero Dio acquista la vita. Ecco che io per questo breve supplizio me ne vado a vivere con lui eternamente, senza timore di perderlo più. E ciò dicendo rese serenamente l’anima al suo Redentore il 14 gennaio. Questo martirio riempì di confusione gli idolatri e suscitò un gran desiderio nei cristiani di dare la vita per Gesù Cristo. Essi poi raccolsero quelle sparse membra del martire e le seppellirono con onore.

San Aurelio, Natalia e compagni
Nella Spagna del nono secolo, i Mori, seguaci di Maometto, vi fecero una strage di martiri. Tra questi vi fu Aurelio, nato in Cordova, di nobile e ricca famiglia. Suo padre era maomettano e sua madre cristiana. Essendo rimasto egli orfano da fanciullo, fu allevato da una sua zia nella religione cristiana. I libri di Maometto,  che i Mori gli fecero leggere, gli fecero conoscere meglio la falsità di quella setta e ancor più lo resero convinto seguace di Gesù Cristo. Stimolato poi dai parenti, prese moglie, che fu Natalia, vergine cristiana e dedita alla pietà. Aurelio era parente di un cristiano chiamato Felice, il quale per debolezza aveva rinnegato Gesù Cristo. Di questo peccato si era poi pentito, ma non aveva il coraggio di farsi conoscere come cristiano, ragion per cui viveva da cristiano nascosto con  sua moglie. Queste due famiglie erano tra loro strettamente unite. Un giorno Aurelio vide nelle piazze, percosso con le verghe e portato in giro per la città, una mercante cristiano di nome Giovanni. Tornato a casa disse alla moglie: “Tu mi esorti a ritirarmi dal mondo; credo che sia giunta l’ora in cui Dio mi chiama a vita più perfetta. Per la qual cosa da oggi in poi viviamo come fratello e sorella, pensiamo solo a Dio e prepariamoci al martirio”. Natalia subito accettò il consiglio e da allora si diedero a condurre una vita santa di preghiera e mortificazione. Aurelio, fra  le altre opere di pietà, visitava i cristiani carcerati e Natalia le donne, che pure stavano in prigione per la fede. Tra quei confessori vi era un santo prete chiamato Eulogio, che scrisse poi la storia del loro martirio. Questi consigliò Aurelio di mettere le sue figlie in luogo sicuro e di vendere i propri beni per distribuirli ai poveri, lasciando però il mantenimento alle suddette figlie. Accadde poi in questo frangente che due vergini chiamate Maria e Flora, che erano già state visitate nel carcere da Natalia, patirono il martirio. Queste le apparvero poi in sogno vestite di bianco e risplendenti di luce. Natalia a tale vista disse loro: Avrò io la sorte di seguirvi per quella stessa via che vi ha condotte in cielo? Risposero: “Sì, anche a voi spetta il martirio, e tra poco avrete questa sorte”. Natalia narrò il tutto ad Aurelio e da allora in poi questi due santi consorti non pensarono che a prepararsi a morire per Gesù Cristo e distribuirono tutti i loro beni ai poveri, secondo il consiglio di Eulogio. In questo tempo giunse in Cordova un  monaco di Palestina di nome Giorgio, che aveva trascorso ventisette anni nel monastero di San Saba. Egli era stato mandato dall’abate di un altro monastero, di circa cinquecento monaci, in Africa a cercare elemosine; ma trovò quella provincia oppressa dai Mori. Per questo gli fu consigliato di passare in Spagna, dove essendo  giunto trovò pure la religione cristiana perseguitata dai Mori. Stando in dubbio di ciò che dovesse fare, andò a fare visita a un certo monastero di santi religiosi, che stava a Tabane, per raccomandarsi alle loro preghiere. Qui trovò Natalia, che al vederlo disse: Questo buon monaco sarà nostro compagno nel martirio. E così fu, perché il giorno seguente andò Natalia con il monaco Giorgio in casa sua a Cordova, dove trovarono Felice e sua moglie Liliosa, che con Aurelio parlavano del loro comune desiderio di morire per Gesù Cristo. Per questo, tutti, per impulso divino, in comune accordo, decisero di andare in chiesa per farsi conoscere come cristiani e conseguire il martirio come già l’ottennero. Nella chiesa non furono arrestati, ma al ritorno da quella furono interrogati da un ufficiale moro perché fossero andati in quella chiesa. Risposero: “I fedeli sono soliti visitare i sepolcri dei martiri e questo abbiamo fatto noi dal momento che tutti siamo cristiani”. L’ufficiale subito fece sapere la cosa al giudice della città e il giorno dopo vennero i soldati e giunti alla porta della casa gridarono: “Uscite di qua, miserabili, e venite alla morte, dal momento che avete in fastidio la vita”. Uscirono i due martiri con le loro mogli con giubilo; ed allora Giorgio, il monaco, vedendosi trascurato dai soldati, disse loro: E perché volete voi costringere i cristiani a seguire la vostra falsa religione? Per queste parole subito fu maltrattato dai soldati con pugni e calci e gettato a terra. Natalia gli disse: “Alzati, fratello, e andiamo”. Ed egli rispose: Intanto sorella ho guadagnato questo poco. Si rialzò mezzo morto e fu così presentato al giudice, il quale chiese a tutti perché corressero così ciecamente alla morte e fece loro grandi promesse se avessero rinunciato a Gesù Cristo. Essi d’accordo risposero: “Non ci servono queste promesse; noi disprezziamo questa vita presente, perché speriamo di averne una migliore; noi amiamo la nostra fede e detestiamo ogni altra religione. Il giudice li mandò in prigione. Avendoli poi fatti uscire dopo cinque giorni ed avendoli trovati fermi nella fede di Gesù Cristo, li condannò tutti a morte, all’infuori di Giorgio. Ma, dicendo Giorgio che Maometto era discepolo del demonio e che tutti i suoi seguaci erano dannati, per questo anche lui fu condannato a morte con gli altri. Mentre andavano al supplizio, Natalia incoraggiava il marito. Della qual cosa irritati, i soldati cominciarono a percuoterla con pugni e calci e così l’accompagnarono sino al luogo della esecuzione, dove furono tutti finalmente martirizzati il giorno 27 luglio nell’anno 852.


San Basilio prete
San Basilio era prete in Galazia nella città di Ancira, e al tempo dell’imperatore Costanzo difese fortemente la divinità del Verbo contro gli ariani e così il Santo distolse molte persone da quella eresia. Essendo morto Costanzo, gli successe nell’impero Giuliano Apostata, il quale si sforzò di rimettere in piedi l’idolatria, che allora stava quasi annientata. San Basilio si oppose  con tutte le sue forze contro questa empietà. Andava per tutti i luoghi di Ancira, esortando la gente a guardarsi da questo errore e a disprezzare le promesse di Giuliano, dicendo che l’esempio presto sarebbe venuto meno. Con ciò si attirò l’odio degli idolatri, che si unirono con gli ariani per perseguitarlo. Egli, intrepido nel difendere la fede di Gesù Cristo, un giorno vedendo alcuni Gentili che sacrificavano agli dei, gridando e gemendo, pregò Dio di confondere quei perfidi, perché nessun cristiano rimanesse da loro sedotto. Gli idolatri, udendo quella sua preghiera, si mossero a furore contro di lui ed uno di loro chiamato Macario gli pose le mani addosso e gli disse: “E chi sei tu, che disturbi il popolo e pretendi di distruggere il culto degli dei? Rispose Basilio: “Non sono io ma bensì il Dio del cielo, che con la sua virtù invisibile distruggerà la vostra falsa religione”. Quegli idolatri, accesi di maggior furore, lo presero e lo presentarono a Saturnino, governatore della provincia, dicendo: “Quest’uomo seduce il popolo e ha minacciato di gettare a terra gli altari dei nostri dei”. E Saturnino rivolto a lui disse: “Chi sei tu che dimostri tanto ardire?”. Rispose Basilio: “Io sono cristiano e di ciò mi vanto sopra ogni altra cosa”. Replicò Saturnino: “Se dunque sei cristiano, perché non operi da cristiano?”. E Basilio: “Hai ragione, un cristiano deve comparire tale in tutte le sue opere”. Saturnino cambiò discorso e riprese a dire: “Perché tu sollevi la gente e bestemmi contro l’imperatore come seguace di una falsa religione?”. E Basilio: “Io non bestemmio contro l’imperatore né contro la sua religione, ma dico che in cielo vi è un Signore che i cristiani riconoscono per unico loro Dio. Egli può distruggere in un momento tutto il vostro falso culto. Allora Saturnino gli chiese che cosa poteva egli dire contro la religione dell’imperatore. Basilio cominciò a rispondere, ma Saturnino lo interruppe e disse: “Senza tanti discorsi, bisogna obbedire all’imperatore”. E Basilio: “Io non ho mancato sinora di ubbidire all’imperatore del cielo”. Saturnino: “Chi è questo imperatore del cielo?”. E Basilio: “E’ colui che abita nei cieli e tutto vede, mentre il tuo imperatore comanda solo qui in terra ed è un uomo come gli altri, che presto cadrà nelle mani del grande re”. Il governatore, irritato da tali risposte, ordinò che Basilio fosse sospeso in aria e gli fossero lacerate le coste. San Basilio in quel tormento ringraziava Dio e, interrogato da Saturnino se voleva arrendersi, disse: “Io ho posto tutta la mia fiducia in colui che è il vero re e non vi è cosa alcuna che possa smuovermi”. Il tiranno, vedendo i carnefici stanchi di  tormentarlo, comandò che Basilio fosse condotto in prigione. Per la strada, un certo Felice, cattivo cristiano, lo consigliò di ubbidire all’imperatore. Rispose Basilio: “Vattene o empio: essendo tu avvolto nelle tenebre dei peccati come puoi conoscere la verità?”. Stava allora l’imperatore Giuliano a Pessinunte per esaltare la venerazione verso la dea Cibele, creduta madre degli dei. Qui Saturnino gli parlò di Basilio e sentendo l’ Apostata che Basilio era uomo di molto credito mandò due altri apostati, Elpidio e Pegasio, ad Ancira a vedere se avessero potuto guadagnare Basilio. Quando Pegasio andò a parlargli nella prigione il santo gli rinfacciò: “Traditore, perché hai rinunciato a Gesù Cristo e alla tua salvezza? Come, dopo essere stato lavato nelle acque del battesimo, ti imbratti ora nella idolatria? Come, dopo esserti cibato delle carni di Gesù Cristo, ora siedi alla mensa dei demoni? Eri maestro della verità ed ora sei diventato maestro di perdizione e così hai perduto il tesoro dell’anima tua. Che farai quando Dio verrà a giudicarti? E poi rivolgendosi a Dio disse: “Signore, degnati di liberarmi dai lacci del demonio. Pegasio, allora, confuso disse tutto ad Elpidio ed ambedue poi lo riferirono al governatore, il quale fece mettere di nuovo Basilio all’eculeo, ma il santo sull’ eculeo diceva: “Empio tu puoi far quanto vuoi che io non cambierò mai sentimento, mentre Gesù Cristo è con me e mi conforta”. Giunse poi ad Ancira l’imperatore, che, fattosi venire davanti Basilio, gli chiese il suo nome. Il santo rispose: “Io mi chiamo cristiano: questo è il mio primo nome, gli altri mi chiamano poi Basilio. Ora se io conserverò il nome di cristiano senza macchia, riceverò da Gesù Cristo nel giorno del giudizio una gloria eterna”. Giuliano riprese e disse: “Non ti ingannare! Tu credi in colui che fu fatto morire sotto Ponzio Pilato”. Rispose Basilio: “No, imperatore, io non mi inganno, tu ti inganni, che con la tua apostasia hai rinunciato al Paradiso. Io per me credo in Gesù Cristo, che tu hai rinnegato, mentre egli ti ha collocato in questo trono, da cui per altro presto ti sbalzerà perché tu riconosca la potenza di quel Dio che  hai disprezzato”. Replicò Giuliano: “Tu deliri,  pazzo che sei: non sarà come vorresti tu”. E Basilio intrepidamente soggiunse: “Tu ti sei scordato di Gesù Cristo e Gesù Cristo non si ricorderà più di te. Egli che è l’imperatore di tutti ti spoglierà dell’autorità che hai e ti farà spirare l’anima in mezzo ai dolori e il tuo corpo resterà insepolto. E ciò fra poco ben si avvererà”. Giuliano, infuriato a tali parole disse: “Io avevo pensato di lasciarti andare libero, ma essendo tu giunto a mancarmi di rispetto sino ad ingiuriarmi, per questo comando che ogni giorno ti siano strappati dal corpo  brani di carne”. Il barbaro comando fu posto subito in esecuzione dal conte Frumentino che ebbe l’incarico. E il santo tutto soffriva con fortezza e, vedendosi del tutto lacerato, un giorno chiese di parlare all’imperatore. Il conte credette che Basilio vinto dal dolore volesse arrendersi e sacrificare agli dei. Per questo ne diede subito notizia a Giuliano, il quale ordinò che gli fosse presentato il santo nel tempio di Esculapio. Stando pertanto Basilio nel tempio disse all’imperatore che era presente: “Signore, dove sono gli indovini che sono soliti starti a lato? Non ti hanno essi predetto per quale motivo io sono venuto a te?”. Rispose Giuliano: “Penso che tu sia rientrato in te stesso e voglia venerare la maestà degli dei. Replicò Basilio: “No, io sono venuto per farti intendere che i tuoi dei non sono altro che statue cieche e sorde, le quali portano all’inferno chi crede in loro. E allora prendendo uno dei brani della sua carne lo gettò in faccia all’imperatore dicendo: “Prendi, o Giuliano, giacché ti piacciono questi cibi. Per me la morte è guadagno e Gesù è la mia vita e fortezza: in Lui credo e per amore di Lui volentieri io patisco”. Quanta fu la gloria di Basilio presso i cristiani con tale confessione e costanza, altrettanta fu la rabbia di Frumentino nel vedersi deluso nella sua speranza. Ordinò ai carnefici che prendessero Basilio e lo sferzassero sino a scoprirgli con i ferri le ossa e anche le interiora. E il santo intanto rivolto a Dio diceva: “Sii benedetto o Signore che dai fortezza ai deboli che in te sperano”. Deh, guardami e dammi la grazia di compiere fedelmente il mio sacrificio, cosicché  sia fatto degno del tuo regno eterno. L’imperatore, il giorno seguente, si partì da Ancira senza aver voluto ammettere alla sua presenza Frumentino, il quale si fece di nuovo presentare Basilio e gli disse: “O uomo, il più pazzo fra tutti gli uomini, vuoi arrenderti all’imperatore o vuoi finire i tuoi giorni miseramente fra i tormenti?”. E Basilio rispose: “E non ti ricordi in quale stato ieri hai ridotto il mio corpo che cavava le lacrime ad ognuno che lo guardava per la carneficina che ne hai fatto? Ed ora è piaciuto a Gesù Cristo di renderlo sano come qui lo vedi. Fallo sapere al tuo imperatore, perché intenda la potenza di quel dio che egli ha lasciato per farsi schiavo del demonio. Anche Dio lascerà  lui e lo farà morire nella sua tirannia”. Replicò Frumentino:  “Pazzo, tu farnetichi, ma se non sacrifichi io ti farò forare tutto il corpo con punte di ferro infuocato sino alle viscere”. E il santo disse: “Io non ho avuto paura come sai delle minacce dell’imperatore; ora pensa se possono spaventarmi le tue parole”. Quantunque vedesse già Frumentino che i tormenti non potevano vincere Basilio, tuttavia fece arroventare quelle punte di ferro e conficcargliele nella schiena. E il santo nel soffrire questo ultimo acerbo tormento rivolto a Dio disse: “Ti ringrazio, Signore, che hai tratto dall’inferno l’anima mia. Conserva in me il tuo spirito, così che, superati i tormenti, io termini la mia vita e sia fatto erede del riposo eterno per le promesse fatte da Gesù Cristo. Ti prego di ricevere in pace l’anima mia, confessando io sino alla fine il nome di te che vivi nei secoli dei secoli amen”. E finita questa preghiera il santo, preso come da un dolce sonno in mezzo alle trafitture di quelle punte roventi, spirò serenamente il 28 giugno dell’anno 326.

San Biagio vescovo
San Biagio era di Sebaste città della Armenia. Nella sua gioventù si applicò allo studio della filosofia e vi fece grandi progressi. Si applicò anche alla scienza della medicina ed anche vi riuscì. Ma poiché egli si era soprattutto applicato alla scienza dei santi, cioè del divino amore,  spinto dalla carità verso i poveri, andava spesso a soccorrerli nelle loro infermità. Essendo poi morto il vescovo di Sebaste ed essendo insieme palesi dappertutto i santi costumi e la dottrina di Biagio, tutti i cittadini lo elessero per loro pastore e padre. Egli accettò la carica del vescovado per non opporsi alla divina volontà, che apparve troppo chiara nella sua elezione. Nell’esercizio del governo della sua chiesa non perse l’amore che egli sin da giovane aveva sempre avuto per la solitudine. Per questo si ritirò sopra un monte, vicino alla città chiamato Argeo, e si pose ad abitare qui dentro una caverna. Stando il santo in questo luogo, il Signore volle onorarlo con molti prodigi, per manifestare agli altri la sua santità. Perciò venivano le genti da diverse parti a chiedergli soccorso per le loro infermità, così del corpo come dell’anima. Anche le fiere  andavano  nella sua grotta per riceverne aiuto nelle loro necessità. Esse con un nuovo prodigio erano così discrete che quando trovavano il santo a pregare non lo molestavano, ma pazienti e mansuete aspettavano che egli avesse finito e non se ne tornavano se prima non avessero ricevuto la sua benedizione. Verso l’anno 315, Agricola, governatore di Cappadocia e della Armenia minore, essendo venuto a Sebaste, mandato da Licinio imperatore per dare morte a tutti i cristiani, giunto che fu alla città, subito ordinò che tutti i cristiani, che stavano per amore della fede nelle prigioni, senza eccezione fossero esposti alle fiere. Per questo mandò alla foresta vicina a prendervi delle fiere per eseguire il suo barbaro disegno. Andarono dunque le genti per raccogliere queste fiere. Giunti che furono al monte Argeo trovarono una moltitudine di tali bestie selvagge che stavano pigiate all’entrata della caverna ed in mezzo a loro stava San Biagio, che in silenzio pregava . Stupiti a quella vista riferirono il tutto ad Agricola e quegli, benché ammirato del fatto, nondimeno ordinò che gli fosse condotto Biagio. Andarono i soldati e gli intimarono l’ordine del governatore. Allora egli con viso giulivo disse: “Andiamo, andiamo a dare il sangue per Gesù Cristo”. E rivolto a coloro che gli stavano intorno confessò che era gran tempo che egli sospirava il martirio e che appunto in quella notte  Dio gli aveva fatto sapere che si degnava di accettare il sacrificio della sua vita. Sparsa poi la voce tra i cittadini che per ordine del governatore si portava il loro santo vescovo a Sebaste, si riempirono le strade di persone e tutti con lacrime di tenerezza gli chiedevano la benedizione. Vi fu in modo speciale una donna, che, piangendo, gli porse ai piedi un suo figliolo, il quale stava già esalando l’anima, soffocato da una spina che gli si era messa di traverso in gola. Essa piena di fiducia lo pregava di liberare il figlio dalla morte. San Biagio, intenerito dalle lacrime di quella madre afflitta, si mise in preghiera e, come scrive lo storico,  pregò il Signore che, non solo  quel fanciullo, ma  tutti  coloro che per l’avvenire si fossero a lui rivolti per ottenere la guarigione di tale infermità restassero consolati. Appena egli terminò la preghiera il fanciullo guarì. E quindi ebbe origine la devozione comune dei popoli verso questo santo per i mali della gola. Giunto poi San Biagio alla città e presentato al governatore, gli fu da lui ordinato che subito sacrificasse agli dei immortali. Rispose il santo: “Vi è un solo Dio immortale ed è quello che io adoro”. Agricola, sdegnato da tale risposta, lo fece a questo punto così crudelmente e lungamente flagellare che il santo fu creduto non poter più vivere. Comparendo egli ancora sereno e allegro dopo quel gran supplizio, fu mandato in prigione, ove continuò a fare tanti miracoli che il governatore lo fece di nuovo lacerare orribilmente con uncini di ferro. Il sangue scorreva a rivi dalle membra di Biagio. Certe donne devote ebbero la devozione di raccogliere quel sangue e così fu presto premiata la loro pietà. Esse furono prese con due loro bambine e condotte al governatore, il quale comandò loro di sacrificare agli dei sotto pena della vita. Quelle sante donne chiesero degli idoli. Alcuni credettero per sacrificare agli dei; ma esse subito, appena poterono averli nelle mani, li gettarono nel lago e dopo ciò furono subito decapitate con le loro bambine. Agricola pieno di rabbia e di confusione si rivolse contro San Biagio e non contento di tanti strazi che gli aveva fatto patire, aggiunge un altro autore, lo fece mettere sull’ eculeo. Con pettini di ferro gli fece straziare le carni e poi su quelle carni lacerate  fece mettere una corazza infuocata. Ma alla fine, disperando di poterlo vincere, ordinò che fosse buttato nel lago. Il santo si fece il segno della croce e camminando su quelle acque si pose a sedere in mezzo al lago e invitò gli altri a fare lo stesso, se credevano che i loro dei erano potenti a salvarli. Alcuni temerari tentarono di farlo, ma subito restarono affogati. Al contrario si sentì che il santo fu invitato in quel tempo da una voce celeste ad uscire dal lago e ad andare a ricevere il martirio. E così avvenne poiché egli,  giunto a terra, fu per ordine del governatore subito decapitato. Ciò accadde nell’anno 319.

 

5 FEDE, CAPRASIO, GIULITTA E QUIRICO, LUCIA, SERAPIA, SABINA, GIACOMO, MARIANO

Santa Fede vergine e San Caprasio
Santa Fede nacque in Agen di Aquitania, da una delle famiglie più illustri della provincia e cristiane. In quel tempo ardeva una grande persecuzione contro la Chiesa. La nostra santa, la quale sin dai primi suoi anni si era consacrata a Gesù Cristo, nell’udire parlare delle battaglie e vittorie dei martiri stava con gran desiderio aspettando il martirio e presto vide compiute le sue brame. Nella Aquitania era governatore il famoso Daciano; dico famoso per la  crudeltà, che usava con tutti i cristiani. Poiché la città di Agen era tutta cristiana, il tiranno risolse di andarvi in persona, per fare una strage di tutti i fedeli che vi trovava. Tutti procurarono di fuggire nei boschi e nelle caverne per salvarsi dalla tempesta. Santa Fede, quantunque fosse pressata a fuggire, non volle partirsi dalla città, dicendo di non voler perdere l’occasione che Dio le offriva allora di dare la vita per suo amor. Presto fu essa accusata al prefetto come cristiana. Essendo avvisata di ciò, la santa andò da se stessa a presentarsi a Daciano, il quale, sapendo che era nobile e vedendo la sua intrepidezza, le chiese il suo nome e di quale religione fosse. Essa rispose: “Io mi chiamo Fede e se ne porto il nome ne ho anche le opere, perché sono cristiana e mi sono tutta consacrata a Gesù Cristo mio Salvatore”. Il governatore replicò: “Figliola mia, lascia i sogni dei cristiani . Sei nobile, sei giovane, io ti prometto di farti diventare la prima dama della provincia. Va’ e  sacrifica alla dea Diana e all’uscita dal tempio riceverai i ricchi doni che ti ho destinato”. Santa Fede rispose con coraggio: “Io sin dalla mia infanzia ho conosciuto che tutti i vostri dei non sono che demoni e tu vorresti persuadere me di offrire loro sacrifici?  Dio me ne guardi! Non vi è che un solo Dio a cui ho sacrificato il mio corpo per la mia vita; tutte le vostre promesse e doni non potranno mai farmi tradire la mia religione”. Daciano con volto severo allora le disse: “Come? Tu hai l’ardire di chiamare demoni i nostri dei? Via, o sacrifichi o aspettati di morire fra i tormenti”. La santa, fatta allora più coraggiosa, rispose: “Sappi, signore, che non solo sono pronta a soffrire tutto per amore del mio Dio ma desidero di dargli presto questo segno della mia fedeltà”. Il tiranno ordinò che la santa fosse stesa su una graticola di ferro e sotto vi fosse posto il fuoco per arrostirla viva. Il barbaro ordine fu subito eseguito. Il supplizio fece orrore agli stessi pagani, che dissero allora essere una crudeltà troppo grande tormentare così una fanciulla nobile, non per altro delitto che di essere fedele al  Dio che adora. Intanto essendosi sparsa la notizia di ciò, San Caprasio, che era un giovane buon cristiano, nativo di Agen e si era ritirato in una caverna di un monte, osservò la santa che stava già soffrendo sulla graticola. Nello stesso tempo vide una bianca colomba che, portando nel suo becco una corona di gemme, andò a collocarla sul capo della martire e poi  battendo le ali fece discendere una rugiada, che spense tutto il fuoco. Allora Caprasio si sentì acceso di un grande desiderio del martirio. Vedendosi indeciso riguardo a quel che doveva fare, pregò il Signore che gli desse un segno che lo chiamasse al combattimento. Appena ritornato alla sua caverna vide uscire da un sasso una fontana di acqua viva. Pertanto animato da quel miracolo, che era il segno chiesto, lasciò la caverna e andò a dichiararsi cristiano davanti al prefetto. Daciano sdegnato gli domandò chi egli fosse. Rispose: sono cristiano. Egli era un giovane di amabile aspetto, per cui Daciano, avendone qualche compassione, lo chiamò in disparte e cercò in tutti i modi di farlo abiurare. Vedendo che il giovane stava forte nella sua fede ordinò che posto sul cavalletto gli fosse lacerato tutto il corpo con unghie di ferro. Il santo, stando in quel tormento, si mise a dimostrare a coloro che lo circondavano la verità della religione cristiana e la follia e l’empietà delle favole pagane con tanto spirito che ne convertì la maggior parte. Fra gli altri vi furono due fratelli, Primo e Feliciano, che, persuasi dalle parole di Caprasio, dichiararono che il vero Dio era il Dio dei cristiani e presto si fecero battezzare. Daciano in tutti i modi cercò di costringerli ad abbandonare la fede abbracciata e li fece anche condurre a un tempio ad offrire un sacrificio agli dei. Resistendo sempre quei santi con costanza furono condannati a essere decapitati con santa Fede e San Caprasio e con alcuni altri convertiti. E i cristiani della città con diligenza presero, nella notte seguente, tutti i loro corpi e li sotterrarono in luoghi nascosti. Nel tempo poi che fu restituita la pace alla chiesa, il vescovo di Agen, chiamato Dulcidio, prelato di grande probità, fece costruire una chiesa in onore di santa Fede e vi fece trasportare le reliquie di tutti i santi martiri sopra citati. Col tempo il corpo di santa Fede fu trasferito nella abbazia di Conche, la quale prese poi il nome della santa, la festa della quale è posta nel martirologio il 6 ottobre e il suo culto è molto diffuso nelle chiese della Francia.
Santa Giulitta e San Quirico suo figlio
Santa Giulitta era nobile della città di Icaonio nella Licaonia. Sotto l’impero di Diocleziano e Massimiano si trovava governatore della provincia Domiziano, uomo molto crudele. Perciò santa Giulitta, ardendo la persecuzione, si prese Quirico, suo figlio di tre anni, con due serve e si ritirò a Seleucia nella Isauria per sua maggiore sicurezza. Ma qui trovò Alessandro, il proconsole della Cilicia, che non era meno barbaro contro i cristiani che rifiutavano di sacrificare ai falsi dei. La santa passò da Seleucia a Tarso, dove nello stesso tempo vi giunse Alessandro. Essa era stata spogliata di quasi tutti i suoi beni da un uomo potente. Chiamato in giudizio l’usurpatore, non avendo per sé alcuna difesa, disse che essa come cristiana non poteva essere ammessa a difendersi per la legge promulgata dall’imperatore. Avendo udito ciò, il pretore fece arrestare Giulitta, la quale si presentò al giudice insieme con il fanciullo Quirico che teneva nelle sue braccia. Il pretore fece preparare il fuoco e l’incenso e poi ordinò a Giulitta di sacrificare agli dei dell’impero e rinnegare Gesù Cristo, non potendo i cristiani senza ciò valersi delle leggi per difendersi. La santa rispose: “Io sono cristiana e perciò sono  pronta a perdere non solamente i miei beni ma anche la vita piuttosto che rinnegare il mio Dio”. Il giudice più volte la costrinse ad abiurare la fede; ma ella, che era contenta di compensare i beni temporali con l’acquisto di quelli eterni, sempre rispose: “Io sono cristiana e non posso rinnegare Gesù Cristo”. Alessandro sdegnato di ciò, ordinò che toltole dal seno il figliolo, fosse posta sull’eculeo e percossa crudelmente con nervi di bue. Ma la santa in quei tormenti non faceva altro che ripetere: “Sono cristiana e non sacrifico ai vostri dei”. Quirico frattanto guardando la madre piangeva a dirotto e si sforzava per tornare nelle sue braccia. Alessandro lo prese e se lo pose sopra le ginocchia e facendogli carezze cercava di calmarlo. Volle anche dargli un bacio; ma il bambino, continuando a guardare la madre, cercava con tutti i suoi sforzi di allontanare da sé la faccia del giudice e con i calci e ancora con le sue piccole unghie da lui si difendeva gridando anch’egli: “Io sono cristiano”. Allora l’uomo bestiale, persa la pazienza, prese Quirico per un piede e dall’alto del trono dove stava seduto lo gettò con furia a terra. Cadendo il fanciullo  sugli spigoli dei gradini, gli si fracassò la testa ed avendo con il suo sangue e cervello asperso tutto il soglio, in quello stesso istante spirò. Allora la madre, invece di lamentarsi per tanta crudeltà, alzò la voce piena di giubilo e disse: “Mio Dio ti ringrazio di aver chiamato a te il mio figliolo prima di me”. Da tale fatto più irritato, il giudice ordinò contro Giulitta che con unghie di ferro le fossero lacerati i fianchi e sui piedi le fosse versato un vaso di pece bollente. Frattanto uno le disse: “Giulitta abbi pietà di te, non fare la stessa fine di tuo figlio e sacrifica agli dei”. Ma ella, soffrendo da forte quello strazio, rispose: “Io non sacrifico ai demoni ed alle statue mute, ma adoro Gesù Cristo e desidero raggiungere mio figlio in cielo”. Finalmente il giudice la privò di tutte le sue facoltà e la condannò alle fiamme. La Santa tutta giubilante, giunta al luogo del supplizio, poste le ginocchia a terra disse: “Signore che ti sei degnato di mettere il mio figliolo a parte della gloria dei santi, rivolgi lo sguardo anche su di me e mettimi tra le anime destinate ad amarti e adorarti per sempre”. E così la Santa tutta infiammata di santo amore nel cuore e piena di giubilo consumò il sacrificio nel fuoco.

Santa Lucia vergine
Santa Lucia nacque da nobile stirpe in Siracusa, la quale in quel tempo era considerata come la città capitale della Sicilia. Perse la santa il padre mentre era bambina. Sua madre, Eutichia, ebbe cura di allevarla e ben la istruì nei dogmi della fede. Quando essa vide la figlia giunta all’età nubile, pensò di maritarla, ma santa Lucia, che si era già tutta consacrata a Gesù Cristo, aspettava l’occasione per manifestare la sua decisione. Presto le si presentò l’occasione e fu questa: la nominata Eutichia pativa da più anni un flusso di sangue a cui non aveva potuto trovare rimedio che le giovasse. Al contrario il Signore operava gran miracoli al sepolcro di Santa Agata in Catania, per cui santa Lucia persuase sua madre ad andare là per ottenere la sua guarigione. Giunte a Catania e prostratesi ambedue sul sepolcro di santa Agata si misero a pregare. Lucia allora, forse per la stanchezza del viaggio, fu presa dal sonno e durante quello le apparve la santa martire e le disse: “Lucia, perché chiedi a me quel che tu stessa puoi dare subito a tua madre per la fede che hai in Gesù Cristo?”. E poi la rassicurò che Dio, a motivo di questa sua fede, aveva già guarito sua madre. Poi le predisse che per aver conservato la sua verginità essa avrebbe avuto da Dio in Siracusa quella gloria che essa aveva ricevuto in Catania. Santa Lucia molto animata da ciò confermò la sua decisione di consacrarsi a Gesù Cristo. Per questo disse alla madre che non le parlasse più di nozze; anzi la pregò di donare ai poveri la sua dote. La madre rispose che morendo avrebbe lasciato tutto a lei, perché ne disponesse come voleva. La santa replicò che per gratitudine della grazia ricevuta doveva spogliarsi in vita di quei beni che alla morte doveva lasciare per necessità. La madre acconsentì e tornate a Siracusa cominciarono a vendere i loro fondi e a distribuirne il prezzo ai poveri. Saputo ciò un giovane che pretendeva Lucia per sua sposa se ne lamentò con Eutichia, ma vedendo riuscire inutili le sue rimostranze, perché Lucia rifiutava del tutto le sue nozze, per dispetto la accusò a Pascasio, governatore della Sicilia, di essere cristiana contro gli editti di Diocleziano e Massimiano. Pertanto la santa fu presa e condotta a Pascasio, il quale cercò di indurla a sacrificare agli idoli. Lucia rispose che il sacrificio gradito a Dio era il sollevare i poveri e  questo era quel sacrificio che essa stava consumando, disposta ad offrire a Dio anche la sua anima. Pascasio replicò che essa doveva ubbidire agli imperatori come anche lui faceva. La santa rispose: “Io giorno e notte medito la legge divina e se tu ti dai da fare per piacere all’imperatore io cerco di piacere al mio Dio:  per questo ho a lui consacrato la mia verginità”. Pascasio allora sdegnato la ingiuriò dicendole che essa era la impurità in persona. La santa rispose: “No, tu sei la stessa impurità mentre corrompi le anime, allontanandole da Dio per servire il demonio, preferendo in modo sbagliato i beni della terra a quelli del cielo”. Pascasio replicò: “Ora che verremo ai tormenti, cesseranno le tue parole. E Lucia: “Non mancheranno mai le parole a chi serve Dio come ha promesso il Signore, dicendo che allora parlerà per noi lo Spirito Santo”. Dunque, ripigliò Pascasio, in te è lo Spirito Santo? E la Santa: “San Paolo ha detto che quelli che vivono castamente hanno lo Spirito Santo”. Allora, replicò il tiranno, io ti farò condurre al postribolo, perché ti lasci lo Spirito Santo. E Lucia: “Non  resta macchiato il corpo quando non c’è il consenso della volontà; anzi allora la violenza mi meriterà una doppia corona”. Pascasio poi le minacciò i tormenti più crudeli se non ubbidiva agli imperatori. La santa intrepida rispose: “Ecco il mio corpo pronto a soffrire ogni tormento; perché tardi? Comincia tu a fare ciò che ti suggerisce il demonio, tuo padre”. Allora Pascasio dato in furia ordinò che essa subito fosse condotta al lupanare per farle prima perdere l’onore della verginità e poi farla uccidere. Ma quando i ministri vollero condurla, non fu possibile smuoverla dal luogo dove essa stava, quantunque usassero tutte le violenze. Pascasio, vedendo ciò, esclamò: “Che prestigi sono mai questi?”. E la Santa: “Non sono questi, prestigi, ma è virtù di Dio”. Ed osservando Pascasio così furibondo soggiunse: “Perché tanto ti affliggi? Ecco tocchi con la tua mano che io sono tempio di Dio”. Ma Pascasio, più confuso ed infuriato, ordinò che si accendesse un grande fuoco intorno alla santa perché fosse bruciata. Essa non si spaventò affatto e rivolta al tiranno gli disse: “Io pregherò Gesù mio Signore perché il fuoco non mi offenda, affinché i fedeli riconoscano la divina potenza e gli infedeli restino confusi”. Ma gli amici di Pascasio lo consigliarono di farle tagliare la testa perché terminassero i prodigi. E così egli fece. Santa Lucia, postasi in ginocchio, offrì a Dio la sua morte e così consumò il suo martirio il 13 dicembre circa l’anno 304.

Santa Serapia vergine e Santa Sabina,
Santa Serapia era una fanciulla di Antiochia, nata da padri cristiani, che per la persecuzione passarono in Italia. Serapia, morti i genitori, a causa della sua rara bellezza fu chiesta in matrimonio dai più ragguardevoli romani. Essa che aveva deciso di non avere altro sposo che Gesù Cristo rifiutò tutte le nozze offerte e volle piuttosto mettersi come serva ad una dama romana chiamata Sabina, che, essendo giovane, era rimasta vedova. Sabina era pagana, ma Serapia appena dopo due mesi guadagnò il suo cuore e poiché essa era piena dello spirito di Dio ben presto convertì la sua padrona e la convinse a fuggire il tumulto di Roma e a ritirarsi in una delle sue terre che aveva nell’Umbria. Sabina infatti si ritirò nell’Umbria accompagnata non solo da Serapia ma anche da certe altre fanciulle cristiane che vollero seguirla. Quel luogo divenne poi un ritiro di sante. Ma essendosi rinnovata la persecuzione contro i cristiani, il governatore dell’Umbria chiamato Berillo, sapendo che in casa di Sabina vi erano molte fanciulle cristiane, comandò che tutte gli fossero condotte davanti. Sabina rifiutò di obbedire, ma Serapia confidando in Gesù Cristo, la pregò di permetterle di andare da sola a parlare con il giudice, sperando che il Signore l’avrebbe rincuorata. Sabina con gran pena glielo permise ma volle accompagnarla alla casa del governatore. Berillo l’accolse con onore sapendo del suo merito e le disse che si meravigliava che una persona della sua dignità si avvilisse a seguire la setta dei cristiani, persuasa da una maga: intendeva Serapia, avendo saputo che essa aveva convertito Sabina. Il governatore in un primo momento lasciò che Sabina si ritirasse nella sua casa con Serapia. Dopo pochi giorni fece prendere Serapia dai soldati. Sabina la seguì a piedi e usò tutti i mezzi per impedire che maltrattassero la sua cara Serapia. Berillo, per niente commosso, domandò a Serapia se voleva sacrificare agli dei. La santa giovane rispose che essa era cristiana e che non conosceva e non temeva se non il suo unico Dio e che si stupiva che le fosse proposto di adorare gli dei che non erano che demoni. Le rispose il giudice: “Almeno lasciami vederti sacrificare al tuo Cristo”. Serapia rispose: “Io notte e giorno gli sacrifico me stessa”. E quale sorta di sacrificio è questo, replicò Berillo, offrire te a questo Cristo? Disse la santa: “Questo sacrificio di una buona vita è il più gradito che io gli possa offrire”. Berillo per oltraggiarla la consegnò alla brutalità di due giovani infami; ma un angelo li spaventò, in modo che caddero a terra semi morti. Quando la Santa fu interrogata dal giudice con quale incanto avesse operato quel prodigio, rispose che gli incanti dei cristiani sono la preghiera e la fede in Dio, per cui egli li difende. Finalmente Berillo, pieno di rabbia, le disse: “Sacrifica ora a Giove o aspetta la morte”. Serapia rispose: “Questa minaccia mi consola tutta mentre mi stimo troppo felice di poter offrire la mia vita e il sangue al mio Dio”. Il prefetto, più irritato di prima, la fece battere crudelmente con i bastoni, ma scorgendola invincibile le fece allora subito tagliare la testa. Santa Sabina, informata del tutto, procurò di avere il corpo della santa e lo fece seppellire con onore dei funerali. Ritirandosi nella sua casa, desiderosa anch’essa di dare la vita per Gesù Cristo, dopo la morte della sua cara Serapia notte e giorno era in orazione, pregando Serapia  che le ottenesse il martirio. Presto ottenne la grazia perché Berillo, il quale aveva lasciato in libertà Sabina per il rispetto che le portava, fu rimosso dalla prefettura e gli successe Elpidio, il quale si fece chiamare Sabina e maltrattandola con ingiurie la mandò in prigione. Esultò essa di gioia entrando nel carcere e disse: “E’ possibile che io sia messa a parte con la mia Serapia della stessa corona che essa gode. Essa certamente mi ha ottenuto questa grazia”. Il giorno seguente Elpidio chiamò a sé  di nuovo Sabina e le disse: “Come? Tu ti sei avvilita a seguire i cristiani che si gloriano di essere mendicanti e disprezzano gli onori e la vita? Bisogna avere un animo molto vile per sposare un così vile partito”. La santa rispose: “Signore tu hai un’ idea falsa della religione cristiana e non conosci quanto sia nobile e eccellente. Non è viltà disprezzare i beni terreni per meritare quelli del cielo. Non è viltà pertanto l’essere cristiana: viltà, infamia ad una persona è inginocchiarsi davanti agli idoli, che non hanno altro pregio se non della materia di cui sono fatti e della mano che li ha formati”. Elpidio a questa risposta lasciò le ingiurie e con dolcezza le disse: “Gli imperatori adorano i nostri dei e anche tu devi adorarli; non mi costringere a trattarti con rigore”. Sabina rispose: “Signore tu puoi privarmi della vita ma non della mia fede, io non adoro che il vero Dio”. Elpidio alla fine la condannò a perdere la testa. La santa all’udire la sentenza disse: “Mio Dio ti ringrazio per la grazia che mi fai; raccomando nelle tue mani l’anima mia”. Detto ciò, il carnefice le troncò la testa. Il suo martirio avvenne il 29 agosto, nello stesso giorno in cui, un anno prima, era stata coronata Santa Serapia. Verso l’anno 430 furono trasportati in Roma i corpi di queste due sante, nella chiesa che fu allora costruita sul monte Aventino in onore di Santa Sabina.


Santi Giacomo, Mariano, e compagni
San Giacomo fu diacono e San Mariano lettore, ma non si sa di quale chiesa e quale fosse stata la loro patria. Andarono essi verso la Numidia e giunti ad un certo villaggio detto Muguas, poco distante dalla città di Cirta, ivi si fermarono. In quella provincia erano dappertutto perseguitati i cristiani. Il prefetto che la governava li odiava a tal punto che anche coloro che nelle passate persecuzioni erano stati condannati all’esilio, esso li richiamava per condannarli di nuovo. I nostri martiri si accorsero di essere qui vicini a conseguire il martirio che tanto desideravano. Mentre stavano a Muguas, passarono qui due santi vescovi, Agapio e Secondino che erano stati richiamati dal prefetto per giudicarli di nuovo. Questi buoni vescovi, partendo da là lasciarono Giacomo e Mariano molto animati a dare la vita per la fede. Passati due giorni vennero i soldati e avendoli presi li condussero prigionieri a Cirta. Alcuni buoni cristiani, vedendoli in catene li invidiavano e li animavano a stare forti. Accortisi di ciò, gli idolatri li interrogarono se erano cristiani. Quelli risposero di sì, per cui anch’essi furono incarcerati e conseguirono il martirio prima dei due santi. Essendo stati questi poi presentati ai magistrati di Cirta, Giacomo confessò con fortezza non solo di essere cristiano, ma anche diacono, benché sapesse che contro i diaconi era stata ordinata la pena di morte. Mariano poi fu posto ai tormenti, che furono molto acerbi. Fu sospeso in alto, legato non per le mani ma per le estremità delle dita. Questo gli procurava un dolore molto forte e in più gli furono attaccati ai piedi pesi molto gravi, così che gli restarono slogate le ossa e sconvolte le viscere. Ma il santo martire soffrì tutto con grande costanza ed insieme con Giacomo e compagni fu rimandato in carcere. Stando in quel carcere, Mariano fu consolato con la seguente visione, che egli poi narrò dicendo: “Ho visto un grande tribunale sopra cui vi era un giudice. Vi era un palco al quale si facevano salire diversi confessori, che poi da quel giudice venivano condannati a morte. Allora io salito sul palco vidi Cipriano vicino a quel giudice che mi stese la mano aiutandomi a salire e mi disse con un sorriso: “Vieni e siedi con me”. Poi il giudice si alzò e con noi ritornò al pretorio. Si passò per un luogo ameno circondato di tanti alberi ed in mezzo vi era una limpida fonte. Il giudice disparve e Cipriano prese una caraffa di quella acqua; la bevve e poi la porse a me e anche io ne bevvi con piacere e finì la visione. Giacomo, udendo questo racconto, si ricordò di un’altra simile visione avuta prima da lui ed entrambe significavano il loro vicino martirio. Dopo queste visioni, furono i santi presentati di nuovo ai magistrati per essere trasferiti al presidente della provincia, che si trovava in un altro luogo, dove molto presto furono trasportati i santi con altri cristiani. Trovarono qui il presidente occupato a risolvere le cause di altri cristiani, dei quali ne fece morire molti. A Giacomo comparve qui Agapio, uno di quei santi vescovi nominati sopra, il quale con la morte aveva già conseguito la corona. E in quella visione gli fu detto: “State allegri, perché domani sarete con noi”. E così infatti avvenne, poiché il giorno seguente il preside pronunciò la sentenza di morte contro Giacomo e Mariano e gli altri loro compagni, che da questa terra passarono a godere la vista di Dio. Per l’esecuzione della sentenza fu scelta una valle in mezzo alla quale scorreva un fiume, e la valle era circondata da colline. Poiché il numero dei condannati era grande, furono essi schierati in fila lungo la riva del fiume affinché il carnefice, passando, avesse potuto tagliare loro la testa l’uno dopo l’altro; e così i corpi morti fossero subito gettati nella corrente e agli spettatori fosse tolto l’orrore di vedere tanti cadaveri trucidati e stesi su quella riva. Stavano tutti i santi martiri con gli occhi bendati aspettando il colpo della morte. Parlando fra di loro alcuni dicevano di vedere nell’aria giovani ornati di candide stole sopra cavalli più bianchi della neve. Altri dicevano di non vedere tali cavalli ma di udirne il calpestio e i nitriti. S. Mariano disse di vedere la vendetta che Dio preparava a coloro che spargevano quel sangue innocente. Dopo che quei santi ebbero consumato il loro martirio, la madre di Mariano esultava di gioia nel vedersi madre di un martire e non si saziava di baciare il collo reciso del suo santo figliolo. Essa è lodata da Sant’Agostino e più lungamente poi dallo scrittore del martirio di questi santi, che fu testimone del loro combattimento ed anche compagno della loro prigionia. Questo martirio avvenne nell’anno 259.

 

Informazioni aggiuntive