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Paolo Scrittore
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- Pubblicato Martedì, 13 Settembre 2011 13:20
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PAOLO SCRITTORE
Da Paolo Apostolo - di Giuseppe Ricciotti - ( tratto da totus tuus )
L'arte cristiana cominciò nel sec. XII a raffigurare Paolo munito di un'affilata spada, e questa raffigurazione diventò poi tipica nell'iconografia posteriore. Rappresenta quella spada soltanto il martirio dell'apostolo? No, alla mente dello storico essa simboleggia più giustamente l'arma spirituale impiegata da lui per primo fra i discepoli del Cristo, l'arma della scrittura. A conferma di questa interpretazione simbolica si potrebbe far osservare che il Cristo non è raffigurato nell'iconografia con una spada, appunto perché non ha lasciato alcuno scritto. Il Cristo non doveva impiegare la spada della scrittura, perché egli stesso era la vivente parola d'Iddio, ed efficace, e tagliente più di qualunque spada a doppio taglio (Ebrei, 4, 12). Paolo invece scrisse, e questa sua spada, dopo tanti secoli. non ha perduto nulla della sua tempera e della sua affilatezza. Paolo medesimo ci fornisce la valutazione di se stesso come scrittore, quando afferma di essere ignaro di parola, ma non di conoscenza (2 Cor., 11, 6); egli cioè si reputa, non già un esperto e sottile artefice della parola, ma un uomo che sente profondamente ciò che vorrebbe esprimere per mezzo di essa: inadeguata parola , ma pienezza di conoscenza. Paolo non è un letterato di mestiere; egli non vede che il suo pensiero, non maneggia che il bronzo liquefatto, e lo fa colare nel primo stampo che gli capita sotto mano senza preoccuparsi di rifinirlo. Questa incompiutezza d'arte, è certamente la sua deficienza; ma è nello stesso tempo la causa della sua grandezza, perché lo fa essere un artista inconsapevole, uno scrittore che senza volerlo diventa spesso gran «letterato». Tale appunto è il giudizio che sull'eloquenza di Paolo dava Agostino, un altro competente in materia: Come noi non affermiamo che l’Apostolo sia andato appresso ai precetti dell’eloquenza, così non neghiamo che l’eloquenza sia andata appresso alla sapienza di lui (De doctrina christ. IV, 7). Quando Paolo iniziava un suo scritto (salvo forse quelli dell'incipiente vecchiaia), doveva avere il suo spirito in stato di ebollizione, agitato, compresso, assillato da mille idee che volevano venire alla luce tutte insieme. Riflette egli alquanto per mettere un po' d'ordine in quell'affollamento e finalmente scelta un'idea comincia ad esporla. Ma ecco che, a metà dell’esposizione, una certa parola ch'egli ha testé impiegata gli risveglia un'altra idea che gli sembra indispensabile: ed egli, lasciando sospeso il primo enunciato, v'inserisce a guisa d'inciso la seconda idea; è possibile tuttavia che, anche in questo inciso, egli inserisca una piccola parentesi per far posto ad una particolare riflessione venutagli in mente lì per lì; alla fine chiuderà parentesi e inciso; e provvederà a terminare l'esposizione iniziale. Ma non è cosa sicura che egli termini un'esposizione iniziata e chiuda regolarmente un periodo incominciato; il periodo può anche rimanere non chiuso, perché nel frattempo altri concetti sono balenati alla mente dello scrittore e gli hanno fatto perder di vista l'argomento di cui trattava. È ciò che i grammatici chiamano l'anacoluto. Altre volte - sempre a causa di quell'affollamento di concetti - sembra che Paolo voglia risparmiare tempo, inchiostro e papiro, ed esprime i concetti in maniera sommaria; in una forma che gli antichi avranno forse chiamato tachigrafica (e che noi chiameremmo telegrafica). Se per un dato concetto è necessario un periodo di almeno quattro proposizioni, Paolo ne esprime soltanto due, e il resto lo fa aggiungere dal lettore. È l'ellissi dei grammatici. Portiamo un solo esempio per ciascuno di questi casi, sebbene in Paolo abbondino anacoluti, ellissi e simili licenze letterarie. Un esempio di periodo frastagliato da incisi e da parentesi si trova proprio all'inizio della lettera ai Romani (I, 1-7), la quale comincia così: Paolo, schiavo di Cristo Gesù, chiamato apostolo, separato per (annunziare) il vangelo di Dio.... A questo punto la parola vangelo dispiega avanti agli occhi di Paolo una visione meravigliosa, ed egli non sa frenarsi dall'inserire un inciso di commento: - che egli aveva in precedenza promesso mediante i suoi profeti nelle scritture sante riguardo al Figlio di lui... La menzione del Figlio di Dio non può passare per Paolo senza una qualche presentazione, ed egli inserisce la presentazione in una lunga parentesi: (quello fatto dal seme di David secondo la carne, quello costituito Figlio di Dio in possanza secondo lo spirito di santità dalla resurrezione dei morti, Gesù Cristo il Signore di noi, mediante il quale ricevemmo grazia ed apostolato ad obbedienza di fede in tutte le genti per il nome di lui: nelle quali siete anche voi, chiamati di Gesù Cristo) - . La lunga parentesi è finita (non senza aver ricevuto un altro breve inciso con le parole finali nelle quali... Cristo), ed è finito pure il primo inciso di commento; cosicché Paolo adesso può riannodarsi al suo enunciato iniziale e chiudere tutto il periodo: a tutti coloro che sono in Roma diletti di Dio, chiamati santi, grazia a voi e pace da Dio padre di noi e (dal) Signore Gesù Cristo. Diamo ora un esempio di periodo iniziato in una data forma ma proseguito poi in un'altra e rimasto senza la regolare chiusura. Paolo vuol dimostrare che la Legge ebraica offre molti vantaggi in confronto con la legge naturale, ed ecco il suo ragionamento (Romani, 3, 1, segg.): Qual (è) dunque il vantaggio del Giudeo, o quale l'utilità della circoncisione? Molto, in ogni maniera. In primo luogo, infatti, (c'è il vantaggio) che (ai Giudei) furono affidati gli oracoli d'Iddio. Che dunque? Se taluni non ebbero fede, forse che l'infedeltà di essi renderà vana la fedeltà d'Iddio? Non sia (mai)!, ecc. - E il ragionamento segue a lungo con argomentazione incalzante, ma invano si aspetterebbe la concatenazione preannunziata; in realtà l'avverbio in primo luogo ha preannunziato un'espressione come questa in secondo luogo, la quale invece non compare mai in seguito. Infervorato nella sua argomentazione, Paolo dimentica la costruzione grammaticale che ha cominciata, e la lascia incompiuta. Il terzo esempio illustrerà la maniera di esprimersi che abbiamo chiamato tachigrafica (o telegrafica). Paolo raffigura il popolo giudaico in un olivo domestico a cui siano stati troncati alcuni rami; su questo olivo, poi, è stato innestato un virgulto d'olivastro selvatico; che però ha attecchito e prospera. Il virgulto raffigura i Gentili, che sono innestati nella rivelazione divina già affidata al popolo eletto. Di qui il pericolo che il virgulto s'insuperbisca e disprezzi i rami troncati dell'olivo domestico. Ma Paolo interviene, ed ammonisce con un periodo che, se fosse regolare, dovrebbe sonare a un dipresso così: «Non ti vantare contro i rami; se poi ti vanti, hai torto, giacché devi pensare che non tu porti la radice, ma la radice porta te». Paolo invece, quasi affrettandosi a difendere i suoi connazionali, riduce il periodo a queste poche parole: Non ti vantare contro i rami; se poi ti vanti, non tu porti la radice, ma la radice te (Romani, 11, 18). L'amore per il Cristo fa ritrovare a Paolo accenti veramente lirici; come nel passo seguente: Chi ci separerà dall'amore del Cristo? Tribolazione, ovvero angustia, ovvero persecuzione, ovvero fame, ovvero nudità, ovvero pericolo, ovvero spada?… Ma in tutte queste cose stravinciamo per mezzo di colui che ci amò. Sono certo, infatti, che né morte, né vita, né Angeli, né Principati, né cose presenti, né cose venture, né possanze, né altitudine, né profondità, né alcuna altra creatura potrà separarci dall'amore di Dio, quello (ch'è) in Cristo Gesù il Signore di noi (Romani, 8, 35-39). Gli anni, come sempre, fecero sentire i loro effetti anche sullo stilo di Paolo, smussando parecchio la punta aguzza di esso e frenando le sue continue vibrazioni. Lo stile, che rispecchia l'uomo in ogni scrittore e specialmente in Paolo, ci fa intravedere nelle ultime sue lettere un uomo ch’è entrato in una nuova fase di spirito, in una sfera più uniforme: il vecchio lottatore è divenuto adesso un calmo dominatore. In questo stato d'animo egli trova accenti quasi di sereno idillio: Io già sono versato in libagione, e il tempo del mio scioglier (le vele) è imminente. Ho combattuto il buon combattimento, ho compiuto la corsa, ho serbato la fede. Oramai sta deposta a parte per me la corona della giustizia, che mi darà in quel giorno il Signore, il giudice giusto; non solo a me, ma anche a tutti quelli che hanno amato la sua apparizione (2 Timoteo, 4, 6-8). Le immagini di questo piccolo idillio sono prese dai giuochi del circo, a cui forse Paolo aveva qualche volta assistito da ragazzo nella sua Tarso. Sceso nell'arena della vita in onore del Cristo, egli ha coscienza di aver dato buone prove ivi nelle varie competizioni, compresa quella dello scrivere. Adesso, sereno, aspetta la corona.
Si è discusso a lungo, forse anche troppo, se gli scritti di Paolo siano lettere oppure epistole. Il Deissmann, grande studioso dei papiri greci, prese questi come punto di riferimento, e trovò che gli scritti di Paolo sono analoghi alle lettere di contadini o soldati egiziani conservate in detti papiri, cioè sono sorti occasionalmente per un determinato caso, non sono destinati al pubblico in genere, e soprattutto non hanno mire letterarie: dunque, concluse egli, sono lettere e non epistole. L'epistola infatti mostra le tre qualità precisamente contrarie alle suddette, ossia tratta più di fatti generali che di casi singoli e di solito lungamente, è destinata essenzialmente al pubblico e, soprattutto, ha mire letterarie; l'epistola si distingue dalla lettera come il dramma storico da un tratto di vera storia, o come un dialogo di Platone da un colloquio confidenziale . Il Deissmann può avere, in una certa misura, ragione; ma la questione è impostata, male con quella netta ripartizione fra lettere ed epistole, giacché fra questi due termini estremi esiste tutta una graduazione di forme miste, che risentono sia dell'uno che dell'altro termine in varia misura. Molti scrittori antichi e moderni hanno scritto vere lettere, indirizzate a privati e trattanti casi singoli, pur mirando a fare opere letterarie, anche perché prevedevano che esse sarebbero state conservate e raccolte: dunque, una vera lettera può avere mire letterarie. Parimente una lettera può benissimo trattare di fatti generali, quanto un'epistola; può essere indirizzata, non proprio al pubblico in genere, ma ad un gruppo di privati tanto ampio da equivalere quasi a un pubblico; può essere, infine lunga quanto un'epistola e anche più. Gli scritti di Paolo appartengono egualmente a quelle forme miste, da definirsi volta per volta a seconda dei singoli casi. Fondamentalmente, sì, sono lettere, perché scritte senza mira letteraria, in occasione di fatti singoli, e inviate da un privato a un gruppo più o meno ampio di privati. Ma, si noti subito, queste lettere circolavano anche fuori della cerchia dei loro destinatari immediati, e ciò avveniva quando Paolo era ancora in vita e per sua volontà esplicita : dunque di fatto, se non di nome, erano scritti «pubblici». Oltre a ciò esse trattano, non solo di casi singoli, ma anche di principi generici filosofico-teologici e di ampie visioni storiche, e talvolta raggiungono una grande ampiezza: sotto questi aspetti, dunque, si avvicinano molto al tipo dell'epistola, quale più quale meno. Anche astraendo dallo scritto agli Ebrei, che ha tutto dell'epistola, la lettera ai Romani si avvicina moltissimo allo stesso tipo; altre vi si avvicinano di meno; il biglietto a Filemone rimane una piccola «lettera» in senso rigoroso, pur contenendo i saluti a coloro che tengono le adunanze cristiane in casa del destinatario (Filem., 2) Rimane tuttavia verissimo che le felici scoperte di papiri, conservati dalle sabbie dell'Egitto, ci hanno offerto nuovi elementi per valutare più giustamente la veste letteraria delle lettere di Paolo. Quei papiri hanno conservato numerose lettere di carattere strettamente privato, le quali offrono non pochi riscontri, di stile e di lessico, con le paoline; vi si rileva la stessa cordialità familiare, il medesimo schema diviso in tre. Qui dobbiamo fornire alcuni necessari schiarimenti sulla stesura materiale delle lettere di Paolo. Esse furono scritte su papiro, il materiale scrittorio comunemente impiegato a quei tempi. Dalla pianta egiziana del papiro si tagliavano verticalmente strisce sottilissime, lunghe anche un metro e larghe pochi centimetri; queste strisce, unite fra loro in uno strato longitudinale, erano poi rafforzate da un altro strato di strisce applicato trasversalmente: i due strati, uniti insieme per compressione, formavano un foglio di «carta», e dal nome della pianta che forniva le strisce sono derivati i nomi odierni, francese papier, tedesco Papier, inglese paper. Si fabbricavano fogli di vari tipi, per finezza e per prezzo: uno dei migliori tipi era quello ieratico, largo circa 24 centimetri. Per lettere ordinarie, di solito brevi, bastava un solo foglio; per quelle più lunghe, al primo foglio se ne incollava in margine uno o più altri, fino ad ottenere lo spazio sufficiente. Questa serie di fogli incollati, arrotolata su se stessa dopo ch'era stata scritta, formava un volumen più o meno grande. Si scriveva con inchiostro e con cannellini, calami, o penne d'oca temperate. Quando il foglio era di qualità scadente, la scrittura diventava difficile, e lo scriba era costretto in sostanza a disegnare le lettere e quasi a pennellare. Il tipo di scrittura variava a seconda del materiale impiegato e anche della perizia dello scriba: si hanno, da una stessa epoca, scritture unciali, semiunciali, corsive grandi sia regolari, sia irregolari, e anche corsive molto minute; ma chi non era scriba di professione doveva preferire le forme semiunciali, o almeno le corsive grandi e ben marcate, perché erano più facili ad eseguirsi e di maggior chiarezza a leggersi, anche se richiedevano maggior tempo a scriversi. Che Paolo fosse nel numero di costoro, si può argomentare da quelle poche righe ch'egli aggiunge di sua mano in fondo alla lettera ai Galati (6, 11): Vedete con che grosse lettere scrissi a voi di mia mano! Egli, volendosi far sentire bene dai Galati in quel tratto finale, che riassume tutta la severa lettera, cessa in quel punto di dettare all'amanuense, e scrive di sua propria mano calcando anche più la sua scrittura abitualmente grossa e forse già nota ai destinatari. Quando la lettera era scritta, se era breve, il suo foglio veniva ripiegato e poi sigillato con pece o cera: al di fuori si scriveva nome e luogo del destinatario, e talvolta anche quello dei trasmettitori o delle soste intermedie. Se era una lunga lettera, il suo volumen si introduceva in una busta (paenula) che veniva sigillata, oppure era avvolto in un foglio di custodia, legata poi attorno con una cordicella e sigillato. La scrittura materiale di lettere quali quelle di Paolo richiedeva una fatica molto grave e molto lunga, che noi oggi difficilmente supporremmo. Anche astraendo dallo sforzo mentale per dominare i concetti ardui e sottili e per trovare termini adeguati ad esprimerli, la sola lunghezza del testo richiese quasi sempre più giorni di scrittura; ma poiché Paolo concedeva probabilmente solo ore serali o notturne alle sue lettere (giacché di giorno lavorava per guadagnarsi la vita), e poiché d'altra parte uno scriba ordinariamente non reggeva a più di due o tre ore di lavoro continuo (giacché scriveva in posizione scomodissima, accoccolato in terra, e sorreggendo il foglio su una tavoletta con la mano sinistra), bisogna concludere che le lettere di Paolo stavano in lavorazione anche varie settimane. Gli antichi ordinariamente non scrivevano da se stessi le loro lettere, ma le dettavano a schiavi amanuensi per evitar la fatica: di mano propria aggiungevano in fondo di solito una parola di saluto, oppure scrivevano la lettera per intero soltanto in casi speciali e a persone carissime. Paolo non aveva schiavi a cui dettare, ma si servì sovente di amici o discepoli; i quali certamente si prestavano tanto più volentieri a questo ufficio, in quanto sapevano ch'egli passava le sue giornate maneggiando duri strumenti di lavoro e ispidi peli di capre, e perciò la sera aveva la mano tremolante e le dita stanche. Tuttavia anch'egli aggiungeva in fondo alla lettera la sua nota autografa di saluto, e in qualche caso scriveva tutta la lettera da sé. È attestato che l'amanuense della lunga lettera ai Romani fu un certo Terzo (Rom. 16, 22); per la I Tessalonicesi (cfr. 1, 1) si possono essere alternati come amanuensi Silvano (Sila) e Timoteo, giacché il primo risulterà più tardi amanuense anche di Pietro (1 Pietro 5, 12). L'annotazione finale autografa è attestata esplicitamente per I Corinti (16, 21), Colossesi (4, 18), e II Tessalonicesi (3, 17) ove si avverte che tale annotazione dovrà essere il contrassegno di ogni lettera (per farla distinguere da lettere falsificate, mandate in giro sotto il nome di Paolo); ma anche là dove l'annotazione autografa oggi non è più attestata esplicitamente, è da considerarsi implicita. Il caso di Galati (6, 11 seg.) è parimente annotazione autografa, perché l'aoristo del verbo è impiegato secondo l’uso epistolare degli antichi, che si riferiva al tempo in cui il destinatario leggeva la lettera, e perciò equivale al nostro presente (cfr. Filemone 19, 21; 1 Pietro, 5, 12; 1Giovanni 5, 13 testo greco); molti interpreti antichi invece credettero che tutta la lettera ai Galati fosse stata scritta da Paolo di sua mano, riferendo il verbo alla parte anteriore della lettera. Il biglietto a Filemone sembra ben essere tutto autografo di mano di Paolo (Filem. 19-21) Lo schema della lettera di Paolo segue lo schema epistolare dei suoi tempi. Gli antichi dividevano la lettera in tre parti. - La prima era il titolo (praescripturn), che conteneva il nome del mittente e quello del destinatario, ordinariamente con poche parole di saluto o di encomio La seconda parte era il corpo della lettera, che trattava, dei vari affari e poteva essere più o meno lunga. - La terza parte era la conclusione, ordinariamente assai breve e che poteva anche mancare del tutto; talvolta conteneva la data e il luogo in cui era stata scritta, più spesso i saluti dello scrivente o anche di altri. Con la prima parte, o titolo (praescriptum), non dev'esser confusa la soprascritta (inscriptio) che si aggiungeva nel rovescio dello stesso foglio dopo ch'era stato ripiegato e chiuso, oppure nel foglio di custodia: questa soprascritta serviva solo per il recapito, e se la lettera veniva poi ricopiata, la soprascritta veniva tralasciata, se già non era andata perduta lacerando il foglio di custodia. Nel corpo della lettera Paolo, di solito, dedica la prima parte a trattazioni teoretiche, di fede o altro, mentre riserva la seconda parte a questioni pratiche: ma, a seconda delle circostanze, ammette anche mescolanze e ritorni. Infine, poche osservazioni sulla lingua usata da Paolo. Essa è il greco della koiné, quello parlato dalla grande massa, sia dai ceti medi ed elevati, sia dalla plebe: ma il tipo usato da Paolo è assai più vicino al tipo dei ceti colti che a quello della bassa plebe. Benché semita di stirpe e d'educazione, egli fin da bambino aveva appreso il greco, e da uomo maturo conosceva bene la struttura grammaticale e possedeva ampiamente il lessico di questa lingua. Come egli non si cura della levigatezza stilistica, così pure e per le stesse ragioni non si preoccupa della purezza della lingua: perciò non è da aspettarsi da lui quella eleganza studiata che si ritrova in scrittori atticizzanti dei suoi tempi, sebbene le sue occasionali citazioni di scrittori pagani dimostrino che egli non ne sia affatto digiuno. Semitismi si riscontrano nelle sue lettere, e sono naturali in uno scrittore semita che tratta d'argomenti ebraici e impiega continuamente le sacre Scritture ebraiche: lo stesso avviene, in misura varia, presso gli altri scrittori del Nuovo Testamento; tuttavia i papiri recentemente scoperti hanno mostrato spesso che talune forme, stimate prima semitismi, non sono tali in realtà, e che erano impiegate usualmente nel greco della koiné. Ma anche sul materiale lessicografico greco da lui impiegato, Paolo imprime il suo stampo personale. Alcune parole ricevono da lui significati nuovi, o almeno sfumature nuove; altre volte egli fabbrica nuovi verbi oppure nuovi connessi di parole, per esprimere nuove idee; s'aiuta con i participi, quando manca la parola ch'egli cerca. Con questi ed altri artifizi egli riuscì a fabbricare il primo armamentario di espressioni tecniche a servizio della teologia cristiana. Sotto questo aspetto il suo merito, come il suo ardimento, furono immensi. Alla fine di quello stesso secolo Giovanni depositerà in quello stesso armamentario il suo grandioso termine «Logos», infondendogli un significato ben diverso da quello che aveva avuto presso i filosofi greci o i Giudei alessandrini: e anche l'ardimento di Giovanni fu certo grande, specialmente per il significato ch'egli annetteva a quel termine. Ad ogni modo l'autore del IV vangelo poteva ben addurre a sua giustificazione i molti ardimenti di Paolo, additando nell'armamentario teologico da costui iniziato i numerosi termini tecnici da lui depositativi già un mezzo secolo prima. Le conseguenze di questa iniziativa di Paolo si poterono valutare in pieno soltanto qualche secolo più tardi, allorché per le nuove circostanze dei tempi si dovettero coniare nuovi termini fino allora mancanti. Quando, alcuni secoli prima, Paolo passava lunghe serate in quel suo laboratorio da tessitore, in piedi, poggiando appena un braccio sull'angolo del telaio, mentre la sua mano nervosa tormentava incessantemente la barba, e stava là a dettare con faticosa lentezza parola su parola a Terzo , il quale accoccolato a terra in un angolo scriveva con la tavoletta sulle ginocchia e con la lucerna sul pavimento - Paolo in quelle serate fondava la prima università di teologia che abbia avuto il cristianesimo.
La figura di Cristo nelle Epistole
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- Pubblicato Martedì, 13 Settembre 2011 13:19
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La figura di Cristo nelle Epistole di san Paolo
di Romano Guardini - frammenti da - La figura di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento – ed. Morcelliana
Chi ricorra al Nuovo Testamento per sapere chi sia il Signore, può fare un’esperienza curiosa.
Senza volerlo egli penserà che saranno i Vangeli a servirgli di guida e di questi, anzitutto i primi, cioè i Sinottici. E se avrà una qualche idea del sistema moderno di ricerca delle fonti storiche, porrà al primo posto il Vangelo di Marco, o si proporrà in cuor suo di cercare il Marco delle origini e la fonte dei versetti… ma ben presto rileverà come i Sinottici, presunti facili, siano, in realtà, tutt’altro che semplici. E se saprà scrutare sufficientemente in profondità, si accorgerà anche donde provenga tale parvenza di semplicità, cioè dal fatto ch’egli ha considerato la figura di Gesù dal lato della sola umanità, trascurando o stimando leggenda quanto di essa va oltre l’umana natura… Ed allora lo studioso che sta cercando uno spiraglio attraverso il quale entrare nell’argomento che l’attrae prosegue nelle indagini e perviene a Giovanni. Questo si presenta già più accessibile, ma non proprio del tutto, non quanto basti affinchè abbia la sensazione si essersi messo per la via giusta. Ancora un passo avanti ed eccolo a Paolo. Qui sente ben presto di essere in porto: chi ci schiude la via per penetrare nel mondo del Nuovo Testamento non sono né i Sinottici , né Giovanni, nessuno quindi dei Vangeli, ma Paolo e appunto per il fatto di essersi trovato nella identica situazione in cui ci troviamo noi stessi.
Paolo è l’unico apostolo che non abbia visto con i propri occhi Gesù durante la sua vita terrena… di Lui Paolo aveva avuto notizie solo come ne possiamo avere noi: dall’esterno, ad opera di quelli che riferiscono di Lui e per gli effetti che da Lui si ripercossero nella storia, poi dall’interno, allorché il Signore lo chiamò e gli si rivelò nello Spirito e nel cuore. E allorché Paolo delinea la propria figura di Cristo, attinge dunque fondamentalmente alle stesse fonti alle quali noi pure facciamo ricorso: al messaggio tramandato e alla propria esperienza. Ciò che manca a noi, e che ebbe invece così grande parte nei riguardi dei primi apostoli, vale a dire l’essere stati testimoni oculari… mancava anche a lui, e non saremo certamente in errore asserendo che ciò lo abbia addolorato molto… ma appunto per essersi trovato in tali condizioni nei riguardi delle sue cognizioni sulla vita terrena di Gesù, egli è proprio l’uomo che fa al caso nostro. E se qualcuno afferma di comprendere il Nuovo Testamento senza far ricorso a Paolo, è da temersi che non sia riuscito a comprendere ancora molto della vera figura di Cristo.
Negli Atti degli Apostoli si narra come la giovane Chiesa conducesse dapprima una esistenza tranquilla, anche allora completamente basata sull’Antico Testamento, circondata d’amore ed insieme di rispetto dal popolo. I detentori del potere tentarono due volte di farsi avanti, senza riuscire, però, a scuotere la fermezza degli apostoli, mentre temevano, inoltre, il popolo. Ed ecco che si mette in evidenza un uomo, all’ardore pneumatico del quale scoppia l’incendio: Stefano. Lo si incolpa di avere offeso la Legge e lo si trascina innanzi ai giudici. Ottenuta la parola per difendersi dall’accusa, egli parla, e lo fa, tutto permeato com’è dalla grazia di Cristo, con tanta foga e potenza da incidere nei loro cuori. Ed essi digrignando i denti contro di lui, urlano, lo proclamano colpevole e lo sospingono subito violentemente fuori della città per lapidarlo. E si legge: “I testimoni deposero le vesti ai piedi di un giovane chiamato Saulo: Poi il racconto prosegue: “E Saulo consentì alla morte di lui”. E avvenne allora una grande persecuzione contro la Chiesa, e Saulo, infierisce con la minaccia e con la strage contro i discepoli del Signore. “Saulo devastava la Chiesa, entrava per le case e quanti trovava, uomini e donne, li cacciava in prigione “ ( At. 8,1 ss. ).
Ottenuto l’incarico di dare ulteriore sviluppo alla persecuzione, egli si muove alla volta di Damasco. Ma lungo la strada Gesù gli appare all’improvviso, come si narra nel nono capitolo degli Atti degli Apostoli.
Che uomo era Paolo? Possiamo desumerlo dalle sue epistole…
Sarà forse opportuno cominciare col dire che Paolo non era prestante nella persona e aveva una certa timidezza nel tratto… nella seconda epistola ai Corinzi egli dice delle voci che corrono sul conto suo, secondo le quali egli sarebbe umile tra la gente, tanto da non osare di parlare, mentre di lontano si farebbe coraggio, sì da scrivere lettere aspre. Piccinerie, queste, che egli ha disprezzato certamente nel suo spirito, e cristianamente compatite, ma proprio queste piccinerie incidono in profondità e dicono molto.
A ciò si aggiunga quanto egli dice, nella stessa epistola, dello “stimolo” che ha nella carne e dell’angelo di Satana che lo schiaffeggia, di liberarlo dal quale ha pregato tre volte il Signore per poi doversi accontentare di sentirsi rispondere. “Basti a te la mia grazia”! ( 2 Cor. 12,7 ss. ).
Qualunque sia l’interpretazione congetturale che si voglia dare a tutto ciò, se ne deve concludere che, in ogni caso, Paolo non deve avere avuto la freschezza naturale dell’uomo perfettamente sano e completamente sicuro di sé.
Se ci si immedesima nel suo modo di pensare e di esprimersi e nel suo temperamento, si potrà forse dire anche di più. Egli sembra essere stato uno di quegli uomini che attirano le calamità, che predispongono contro di sé la loro sorte, un uomo tormentato.”Io gli mostrerò quanto dovrà patire per il mio nome” ( At 9,16 ), aveva detto di lui il Signore ad Anania, e queste parole si riferiscono anzitutto alla sua vita di apostolo, ma rivelano anche qualcosa dell’essere suo. Paolo ha dovuto soffrire molto, continuamente e per tutto. Leggiamo in proposito gli appassionati ultimi capitoli della seconda epistola ai Corinti.
Altrettanto si può dire della sua vita morale e religiosa. Egli voleva divenire buono, giusto, santo, ma riteneva di potervi riuscire facendo violenza a se stesso, considerava la bontà come una continua imposizione a base di devi e non devi, così che era sempre in uno stato di tensione della volontà. In lui erano potenti energie religiose: ardeva di zelo per la legge e la santità di Dio. Ma tali energie erano sorde, inceppate, e quindi finivano per intossicare se stesse; il suo zelo era violento e non illuminato, atto soltanto ad assoggettare e demolire.
Paolo era tormentato da due forti passioni: da una sensualità potente e da una grande ambizione. È assurdo precisare se fosse anche avido di possedere: comunque è singolare come egli sia il solo degli apostoli che parli di collette. Egli vuol dominare tali istinti, e li contiene, ma essi gli si voltano contro, turbinano, ribolliscono. Lotta contro ciò che è malvagio, riesce a piegarlo, ma sperimenta anche che il male diviene sempre più insidioso. In se stesso, nelle sue membra, egli sente il contrasto di due potenze, una buona e una cattiva. Ma non riesce a fare in modo di dare libero il passo a quella buona e di soggiogare con la grandezza dell’animo quella malvagia e piuttosto, odia se stesso, si fa violenza e finisce per sentirsi sempre più disperatamente misero.
La legge è tutto per lui. Egli si adopera con zelo per rispettarla, si sacrifica e si fa violenza per le mille e le diecimila prescrizioni che fanno della vita una schiavitù, una esistenza contro natura.
Da esse egli vede dipendere la rettitudine, ma non può conseguirla, perché vuol basarsi sulle sole sue forze. Egli percepisce come tutto ciò che è cattivo si desti proprio sotto la costrizione della Legge, ciononostante non riesce ad uscire dal vortice angosciante perché l’unica conseguenza che ne sa dedurre è quella di essere ancora più severo verso se stesso. Assolutamente privo di libertà, anela ad essa, ma già per il solo fatto di desiderarla ritiene di essere in fallo…
Sulla via di Damasco venne per Paolo la grande ora. Una luce lo irraggia. Non è retorica questa, ma verità, perché si tratta qui di luce interna, spirituale, divina, luce che lo abbatte e, come si costaterà in seguito, gli toglie la vista. Qualcuno però, parla e si designa come Colui che Saulo ha perseguitato, come Gesù Cristo.
Nella figura spiritualmente luminosa di Stefano, negli uomini e nelle donne incamminati per le vie del Signore, egli ha odiato quello stesso Cristo, e forse proprio perché non riusciva a trovare una diversa maniera per difendersi da un ardentissimo desiderio che lo sospingeva verso di Lui. Cristo lo aveva già toccato, ed ora egli gli va incontro apertamente. Tutto ciò è ormai evidente.
Il brano riportato a frammenti è tratto dall’opera di Romano Guardini “ La figura di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento”.
Guardini, abbiamo letto, sottolinea l’importanza della lettura delle epistole di Paolo e degli Atti degli Apostoli per una migliore e sicura intelligenza dei Vangeli. Nulla di assolutamente personale, ma quanto sperimentato e conosciuto da coloro che amano la Parola di Dio e cercano una intelligenza che vada oltre il velo del semplice senso letterale.
È Paolo in definitiva la chiave che apre l’ingresso nel senso spirituale delle parole e della vita di Gesù. La Parola non si comprende se non in virtù della Parola: è regola aurea.
Chi più dell’Apostolo ci aiuta a comprendere i santi Vangeli?
Paolo è l’Apostolo più vicino a noi, non soltanto perché non ha conosciuto Gesù secondo la carne, ma anche perché porta alla luce tutto quel sottofondo spirituale dell’uomo che trova la propria soluzione e giustificazione soltanto nella grazia del Salvatore mandato dal cielo.
Gli Evangelisti annunciano la Parola semplicemente, Paolo l’annuncia alla luce della propria esperienza di uomo risorto in Cristo.
E non capisce Paolo se non chi è come lui tutto preso da una sincera volontà di essere obbediente a Dio in tutto e per tutto.
Colui che può sembrare l’eccezione, non è compreso se non quando diviene la regola, il modello di ogni santità, nello spirito di osservanza del primo e più grande comandamento: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze.
Se non c’è questa totalità dell’impegno, il Vangelo è lettera morta. Non è parola per la salvezza, ma parola per la dannazione, perché il cuore falso convincerà se stesso di giustizia e non di peccato, facendosi meritevole di un giudizio di eterna condanna da parte di Dio.
Perché mai Gesù parla in parabole? Per rendere più chiaro, più semplice ed intellegibile un discorso o al contrario perché appaia oscuro quello che è fin troppo chiaro? Perché tutti possano comprendere, anche quelli che stanno fuori o perché comprendano soltanto quelli che sono entrati dentro? “ Parlo in parabole perché sentendo non intendano, né io li risani”.
Giustamente Guardini rileva che i Vangeli non sono di facile comprensione. Tutto diventa più chiaro solo quando siamo rivestiti dal Signore di occhi nuovi, illuminati da una luce diversa che viene dal cielo. Se è difficile entrare da soli nel senso nascosto della Parola di Dio, tutto è più facile quando seguiamo l’apostolo Paolo.
Non basta leggere i Vangeli, bisogna leggere la spiegazione che ne dà l’Apostolo. Non la parola dell’uomo illumina la parola di Dio, ma è la stessa Parola di Dio che getta una luce su se stessa, per chi ha orecchi di ascolto. E lo fa in virtù dell’insegnamento di un uomo che riassume in sé e porta alle estreme conseguenze della fede in Cristo tutto il proprio vissuto, senza celare ambiguità e contraddizioni, senza falsità ed ipocrisie, unicamente desideroso di compiacere a Dio in tutto e per tutto.
La complessità delle parabole, ripercorre la molteplicità di aspetti di un cammino spirituale che vuol raggiungere ed ottenere quella semplicità del cuore che unicamente è gradita e accetta a Dio.
Le parabole sono complesse nello sviluppo interno del discorso, sono assolutamente semplici nella loro conclusione. Partono da realtà e situazioni diverse, per approdare all’unica àncora di salvezza che ha nome di Cristo.
La conclusione è sempre la stessa: non c’è salvezza senza la fede in Cristo Salvatore e non è fatto salvo chi non è perduto. Ciò che è sicuramente vero e fuori discussione per Dio Padre non lo è altrettanto per l’uomo che di fronte al Salvatore si pone in una posizione di giudizio e di superba sufficienza a se stesso. Se Cristo è venuto per i peccatori, per riportare all’ovile la pecorella smarrita, allora va fatta salva la situazione di chi peccatore non è e cerca un’altra via di salvezza che è quella dell’osservanza della Legge e di una giustificazione che gli è accreditata dallo stesso Dio.
E allora la parabola, partendo dal punto di vista dell’uomo che si crede giusto, deve ribaltare un giudizio falso e frettoloso, fatto in proprio ed affermare un peccato che abbraccia tutto il genere, per concludere nella necessità di una salvezza che è donata gratuitamente da Colui che è stato mandato dal cielo.
C’è un solo giusto ed è Cristo Gesù: in Lui e per Lui, in virtù della sua morte e resurrezione i molti sono giustificati e ottengono in dono la salvezza per la fede nel Salvatore.
Non c’è parabola che non sia esaltazione dell’unico giusto e dell’unico santo: speranza e gioia per chi crede in Cristo , giudizio di condanna ed amarezza senza fine per chi rifiuta il Salvatore.
Il Vangelo è annuncio di una grande gioia: in Cristo la terra è riconciliata col cielo, coloro che si sono perduti ritrovano la via della salvezza, i peccati sono perdonati, un cuore nuovo è dato all’uomo, perché senta e comprenda quanto grande l’amore di Dio Padre.
Tutto semplice e tutto facile dunque? Niente affatto, perché l’uomo è di dura cervice, non vuole vedere e non vuole comprendere la necessità di una morte che è per la vita. La mancanza di fede rende vano il sacrificio di Cristo e nasconde ai nostri occhi la grandezza e la bellezza dell’Amore divino.
L’uomo che con il peccato di Adamo si è condannato alla solitudine, dopo aver crocifisso Cristo si trova ancora più solo, senza gioia e senza speranza.
Non comprende il Vangelo chi non è come Paolo, chi non si riconosce e non fa proprio il suo cammino spirituale, che è passaggio dalle tenebre alla luce, dalla consapevolezza del proprio peccato alla consapevolezza dell’amore di Dio, così come si è a noi tutti manifestato in virtù della morte e resurrezione del Figlio suo.
Le lettere che Paolo invia alle comunità da lui fondate altro non sono che la spiegazione del Vangelo, così come è dato comprendere soltanto attraverso un cammino di salvezza, che l’Apostolo prima di altri ha percorso.
“Fatevi miei imitatori come anch’io lo sono di Cristo”. Se Cristo è l’unico vero modello di santità, è pur vero che non è compreso se non in virtù di un modello a noi più vicino che è l’apostolo Paolo.
La conversione di Paolo non è un semplice prodotto del pensiero, o sforzo etico, ma è innanzitutto un fatto, un evento: l’incontro con Gesù risorto sulla via di Damasco.
L’iniziativa è sempre di Dio e nessuno va al Figlio se non è attirato dal Padre che è nei cieli.
Una nuova luce, misteriosa ed inaccessibile investe la nostra vita: non abbiamo occhi per portarla e abbiamo bisogno di una vista spirituale che Dio ci dona attraverso la sua Chiesa.
L’uomo vecchio è fatto uomo nuovo, vede diversamente non soltanto se stesso in rapporto a Dio, ma anche Dio in rapporto a se stesso. Scopre il proprio peccato di fronte al Signore, ma anche l’infinita sua misericordia. Se noi siamo nulla, Lui è tutto, se noi siamo poveri, Lui ci arricchisce di ogni dono spirituale, se noi siamo ingiusti, Lui ci fa giusti.
Paolo è tutto questo e solo questo: un morto che è tornato in vita, un ingiusto che è stato fatto giusto, un cieco che ha trovato in Cristo non una semplice luce, ma la luce che conduce a vita eterna.
Riconsideriamo insieme a Guardini alcune caratteristiche fondamentali della personalità dell’Apostolo.
Nell’ora di Damasco, Paolo viene liberato dal giogo che lo opprimeva col dover operare da sé, e, conseguentemente, dal tormento assillante di non potervi riuscire. Impara, così, quanto esprimerà più tarsi con queste parole: “Vivo, ma non sono io a vivere: è Cristo che vive in m,e”. e con queste altre: “Da me solo nulla posso, ma posso tutto in Colui che mi dà la forza, in Cristo”.
Per il tramite di Cristo viene a noi la grazia divina, ed è essa che agisce, ma insieme la grazia opera tutto: illumina la conoscenza, libera la coscienza, infiamma il cuore, muta la volontà, eleva e dà ali all’essere, e proprio così l’uomo è quello che deve essere…
Una singolarità colpisce, la visione è una luce. Colpito da essa, Paolo cade a terra, accecato, e una voce dice: “Saulo, Saulo perché mi perseguiti?”. Poi soggiunge: “Io sono Gesù che tu perseguiti”. Dunque Paolo non ha scorto il volto del Signore sulla via di Damasco. Non è nelle nostre intenzioni fare affermazioni affrettate, e ci chiediamo se Paolo abbia sollevato mai gli occhi – dello spirito, beninteso – alla sua figura, al suo volto.
Comunque, in chi legge le sue epistole si forma il convincimento che il Gesù Cristo di cui esse trattano è più potenza in atto, energia creativa, luce illuminante, vita irradiante e creante che non una figura fisica sulla quale si possa fissare lo sguardo, un volto da poter rimirare. Quest’ultima possibilità si ha per il Gesù dei Sinottici. Anche in Giovanni la si riscontra, ma soprattutto in Matteo, in Marco e in Luca. In essi egli è il Gesù che ci viene incontro per la via, che guarda verso di noi, che ci rivolge la parola, che agisce. Ciò costituisce la più spiccata singolarità degli evangelisti, il loro privilegio prezioso, ma nello stesso tempo un elemento che ci dà l’impressione di essere tanto lontani dalla loro narrazione, in quanto non abbiamo mai visto con gli stessi nostri occhi il Signore. Ed appunto per questo ci sentiamo, invece, tanto più vicini a Paolo, e forse non ci inganniamo reputando che egli non tanto guardi a Cristo come figura e come volto, quanto lo senta come potenza. Con quest’ultima espressione non intendiamo, ovviamente, una energia religiosa impersonale, ma sempre Lui, Gesù, nella sua persona divina, il Signore nostro vero Dio e vero Uomo, e non, però, come figura, ma come potenza in atto che agisce, che impera, che crea; come creatore di un’opera prodigiosa, immensa, di un’opera che può paragonarsi soltanto alla creazione del mondo…
Il mondo paolino è tutto pieno di questo Cristo. Egli agisce negli uomini, nel singolo credente, come nella Chiesa. Egli impera su tutte le cose create. È in tutto, e tutto è in Lui. “In Lui, infatti, viviamo, ci muoviamo e siamo” disse Paolo agli uomini dell’Areòpago parlando di Dio, e tali parole le ripeterebbe anche nei riguardi di Cristo. “Nel nome di Dio”, si saluta e si ringrazia, si giudica e si ammonisce, si fa il bene e si sopporta il male, si esercita la pazienza e si conseguono vittorie. Essere cristiano significa essere partecipe di Lui. Vivere da cristiano vuol dire che Egli respira ed opera in noi. Il meraviglioso mistero della vita cristiana consiste nel fatto che Egli vive in ogni credente la sua vita umana e divina, in una singolarità sempre nuova, che non si ripete mai, rimanendo sempre l’Uno, l’Uguale, l’Immenso. In ognuno di noi Egli nasce, cresce, “si avvia alla maturità”…
Cristo è nell’uomo, e l’uomo è in Lui. E quando l’uomo crede e riceve il battesimo, accade in esso qualche cosa di singolare, afferma Paolo. Egli viene a trovarsi in comunanza di esistenza con Cristo, proprio come se questi penetrasse in lui e vi permanesse come figura a dominarlo, come forza ad agire in lui. E quando Gesù si è stabilito dentro di noi vuole rivelarsi nell’esistenza umana…
Nell’uomo che si unisce al Signore nella fede entra una nuova figura e una nuova forma, lo stesso Cristo risorto nella sua mistica spiritualità. Egli si impadronisce di quest’uomo e, così com’è, lo plasma nella sua particolarità di essere e di vita, nei suoi doveri, nei suoi destini. Con ciò Cristo rinnova il ciclo della sua esistenza di Uomo-Dio, come vita eterna di origine divina, nel suo Spirito, in questo uomo vagante nel tempo. Egli rivive in lui la sua fanciullezza, la sua adolescenza, la sua maturità, il compimento del suo eterno destino.
Ma la possanza di Cristo è anche nella totalità, nella Chiesa. La stessa impronta che caratterizza il singolo cristiano caratterizza anche il complesso della cristianità, vi domina, vi urge, vi agisce, ne soffre danno. Allorché Paolo perseguita Stefano, Cristo gli grida: “Saulo, Sauolo, perché mi perseguiti?”: poiché è Cristo che viene oppresso nelle persecuzioni alla Chiesa, come è Cristo che soffre per le divisioni, per gli irrigidimenti, per le ingiustizie che possano turbarla. Poiché Cristo domina in una stessa maniera tanto l’individuo quanto la comunità, il rapporto del credente nei riguardi della Chiesa è, così, diverso da quello che abitualmente si riscontra in ogni altra società umana. In essi circola, infatti, una stessa linfa, palpita una stessa vita, impera la stessa figura umana e divina… ma la Chiesa va ben più lontano dalla cerchia rappresentata dal complesso degli uomini. Le epistole agli Efesini e ai Colossesi dicono come sia piaciuto a Dio di “riunire sotto un solo capo, in Cristo, tutto ciò che è in cielo e in terra, affinchè Egli sia “il capo del corpo della Chiesa, Egli, il principio, il primogenito dai morti, affinchè si elevi, primo fra tutti. Perché così gli piacque, che in Lui fosse tutta la pienezza” ( Col. 1,18-19 ). In tal modo la Chiesa è orientata alla creazione, destinata ad attirarla nell’ambito di quel primo inizio in Cristo. Da ciò deve sorgere l’universo della libertà suprema, “il nuovo cielo e la nuova terra” ( Ap. 21,1 ) della fine.
Questo Cristo che domina così nell’uomo siede alla destra del Padre. E noi intendiamo appieno Paolo allorchè afferma che il Cristo che domina in noi è nello stesso tempo nell’alto dei cieli e ci innalza a Lui. Egli ci conquista interiormente , urgendo sulla essenza viva dell’anima nostra, ci trae a sé dall’alto, facendoci udire la sua voce dal trono della sua eterna maestà. Ma Egli è anche il Veniente che si approssima avanzando dalla fine dei tempi. Emergendo dal misterioso interno della profondità di Dio, Egli penetra nell’uomo per manifestarsi nella sua esistenza ed alla fine spinge nel tempo per scuoterlo e prepararlo all’evento supremo. Così il mondo di san Paolo è tutto pieno di Lui. Egli è ovunque.