La chiesa non è una democrazia

J. Ratzinger , trascrizione di una conferenza, video in You Tube
La Chiesa non è una democrazia

Cari amici grazie per questa accoglienza così calorosa. Conoscete il titolo di questa mia conferenza: “Una compagnia sempre riformanda” e mi sembra che non ci sia bisogno di molta immaginazione per capire che la compagnia di cui voglio qui parlare è la Chiesa. Non ho formulato io il titolo, ma penso che si è evitato di menzionare nel titolo il termine Chiesa forse perché esso provoca spontaneamente nella maggior parte degli uomini di oggi reazioni di difesa. Essi pensano che della Chiesa ne abbiamo già sentito parlare fin troppo e per lo più non si è trattato di niente di piacevole. La parola e la realtà della Chiesa sono cadute in discredito e perciò anche una riforma permanente non sembra possa cambiare qualcosa. O forse il problema è solamente che finora non è stato scoperto quel tipo di riforma che potrebbe fare della Chiesa una compagnia che valga davvero la pena di essere vissuta. Ma chiediamoci innanzitutto perché la Chiesa riesce sgradita a tante persone e addirittura anche a credenti, anche a persone che fino a ieri potevano essere annoverate tra le più fedeli e che pur tra sofferenze lo sono in qualche modo ancor oggi. I motivi sono tra loro molto diversi, anzi opposti, a seconda delle posizioni. Alcuni soffrono perchè la chiesa si è troppo adeguata ai parametri del mondo di oggi, altri sono infastiditi perché ne resta ancora  troppo estranea. Per la maggior parte della gente la scontentezza nei confronti della chiesa comincia col fatto che essa è una istituzione come tante altre e che come tale limita la mia libertà, la sete di libertà e la forma in cui oggi si esprimono il desiderio di liberazione, di redenzione e la percezione di non essere liberi, di essere alienati. L’invocazione di libertà aspira ad una esistenza che non sia limitata da ciò che è già dato e che mi ostacola nel mio pieno sviluppo, presentandomi dal di fuori la strada che io dovrei percorrere. Ma dappertutto andiamo a sbattere contro barriere e blocchi stradali di questo genere che ci fermano impedendoci di andare oltre. Gli sbarramenti che la chiesa innalza si presentano quindi come doppiamente pesanti, perché penetrano fin nella sfera più personale e più intima. Le norme di vita della Chiesa infatti sono ben di più di una specie di regole del traffico affinchè la convivenza umana eviti il più possibile gli scontri. Essi riguardano il mio cammino interiore e mi dicono come devo comprendere e configurare la mia libertà. Essi esigono da me decisioni che non si possono prendere senza il dolore anche della rinuncia. Non si vuol forse negarci i frutti più belli del giardino della vita? Non è forse vero che con la ristrettezza di così tanti comandi e divieti ci viene sbarrata la strada di un orizzonte aperto? Il pensiero non viene forse ostacolato nella sua grandezza, come pure la volontà? Non deve forse la liberazione essere necessariamente l’uscita da una simile tutela spirituale e l’unica vera riforma non sarebbe forse quella di respingere tutto ciò? Ma allora, cosa rimane ancora di questa compagnia? L’amarezza contro la Chiesa ha però anche un motivo specifico. Infatti in mezzo ad un mondo governato da dura disciplina e da inesorabili costrizioni si leva verso la Chiesa ancora e sempre una silenziosa speranza: essa potrebbe rappresentare in tutto ciò come una piccola isola di vita migliore, una piccola oasi di libertà in cui di tanto in tanto ci si può ritirare. L’ira contro la Chiesa o la delusione nei suoi confronti hanno perciò un carattere particolare poiché silenziosamente ci si attende da essa di più che da altre istituzioni mondane. In essa si dovrebbe realizzare il sogno di un mondo migliore, quanto meno si vorrebbe assaporare in essa il gusto della libertà, dell’essere liberati per uscire fuori dalla caverna di cui parla Gregorio Magno ricollegandosi a Platone. Tuttavia dal momento che la Chiesa nel suo aspetto concreto si è talmente allontanata da simili sogni assumendo anch’essa il sapore di un’istituzione e di tutto ciò che è umano, contro di essa sale una collera particolarmente amara. E questa collera non può venir meno proprio perché non si può estinguere quel sogno che ci aveva rivolti con speranza verso di essa. Siccome la Chiesa non è così come appare nei sogni, si cerca disperatamente di renderla come la si desidererebbe, un luogo in cui si possano esprimere tutte le libertà, uno spazio dove siano abbattuti  i nostri limiti, dove si sperimenti quell’utopia che ci dovrà pur essere da qualche parte. Come nel campo dell’azione politica si vorrebbe finalmente costruire il mondo migliore, così si pensa che si dovrebbe finalmente, magari come prima tappa sulla via verso di esso, metter su anche la chiesa migliore, una chiesa di piena umanità, piena di senso fraterno e generosa creatività, una dimora di conciliazione di tutto e per tutti. Ma in che modo dovrebbe accadere questo? Come può riuscire una simile riforma? Orbene dobbiamo pur cominciare, si dice. Lo si dice spesso con l’ingenua presunzione dell’illuminato il quale è convinto che le generazioni fino ad ora non abbiano ben compreso la questione oppure che siano state troppo timorose e poco illuminate. Noi però abbiamo ora finalmente nello stesso tempo sia il coraggio che l’intelligenza. Per quanta resistenza possano opporre i reazionari e i fondamentalisti a questa nobile impresa essa deve venire posta in opera. Almeno c’è una ricetta oltremodo evidente per il primo passo. La Chiesa non è una democrazia; da quanto appare essa non ha ancora integrato nella sua costituzione interna quel patrimonio di diritti della libertà che l’illuminismo ha elaborato e che da allora è stato riconosciuto come regola fondamentale della formazione sociale e politiche. Così sembra la cosa più normale del mondo recuperare una buona volta quanto era stato trascurato e cominciare con l’erigere questo patrimonio fondamentale di strutture di libertà. Il cammino conduce, come si suol dire, da una chiesa paternalistica e distributrice di bene, ad una chiesa comunità . Si dice che nessuno più dovrebbe rimanere passivo ricevitore dei doni che fanno essere cristiano; tutti devono invece diventare attivi operatori della vita cristiana. La Chiesa non deve più venire calata giù dall’alto: siamo noi che facciamo la Chiesa e la facciamo sempre nuova; così essa diverrà finalmente la nostra Chiesa e noi i suoi attivi soggetti responsabili. L’aspetto passivo cede a quello attivo: la Chiesa sorge attraverso discussioni, accordi e decisioni. Nel dibattito emerge ciò che ancora oggi può essere richiesto, ciò che oggi può ancora essere riconosciuto da tutti come appartenente alla fede o come linea morale direttiva. Vengono coniate per esempio nuove formule di fede abbreviate. In Germania ad un livello abbastanza elevato è stato detto che anche la liturgia non deve più corrispondere ad uno schema previo già dato, ma deve sorgere invece sul posto, in una data situazione, ad opera della comunità per cui viene celebrata. Anch’essa non deve più essere niente di già precostituito, ma invece qualcosa di fatto da sé, qualcosa che sia espressione di se stessi. Su questa via si rivela essere un po’ di ostacolo per lo più la Parola della Scrittura alla quale però non si può rinunciare del tutto. Si deve allora affrontarla con molta libertà di scelta. Non sono molti però i testi che si lasciano impiegare in modo tale da adattarsi senza disturbi a quella autorealizzazione alla quale la liturgia ora sembra essere destinata. In questa opera di riforma in cui ora finalmente anche nella chiesa l’autogestione deve sostituire l’essere guidati da altri sorgono però presto anche delle domande. Chi ha qui propriamente il diritto di prendere le decisioni? Su quale base ciò avviene? Nella democrazia politica a questa domanda si risponde con il sistema della rappresentanza: nelle elezioni i singoli scelgono i loro rappresentanti i quali prendono le decisioni per loro. Questo incarico è limitato nel tempo e circoscritto anche contenutisticamente in grandi linee dal sistema partitico e comprende solo quegli ambiti dell’azione politica, che dalla Costituzione sono assegnati alle entità statali rappresentative. Anche a questo proposito rimangono delle questioni: la minoranza deve chinarsi alla maggioranza e questa minoranza può essere molto grande. Inoltre non è sempre garantito che il rappresentante che ho eletto agisca e parli davvero nel senso da me voluto; così che anche la maggioranza vittoriosa, osservando le cose più da vicino, ancora una volta non può considerarsi affatto interamente come soggetto attivo dell’evento politico. Al contrario essa deve accettare anche decisioni prese da altri onde per lo meno non mettere in pericolo il sistema nella sua interezza. Più importante  per la nostra questione è però un problema generale. Tutto quello che gli uomini fanno può anche essere annullato da altri. Tutto ciò che proviene da un gusto umano può non piacere ad altri. Tutto ciò che una maggioranza decide può venire abrogato da un’altra maggioranza. Una Chiesa che riposi sulle decisioni di una maggioranza diventa una chiesa puramente umana. Essa è ridotta a livello di ciò che è fattibile e plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni ed opinioni. L’opinione comincia a sostituire la fede ed effettivamente nelle formule di fede coniate da sé che io conosco il significato dell’espressione credo non va mai al di là del significato: noi pensiamo che sia così. La Chiesa fatta da sé ha alla fine il sapore di se stessi, che agli altri se stessi non è mai gradito e ben presto rivela la propria piccolezza. Essa si è ritirata nell’ambito dell’empirico e così si è dissolta anche come ideale sognato. L’attivista, colui che vuole costruire tutto da sé è il contrario di colui che ammira, dell’  ammiratore. Egli, l’attivista, restringe l’ambito della propria ragione e perde così di vista il mistero. Quanto più nella Chiesa si estende l’ambito delle cose decise da sé e fatte da sé, tanto più angusta essa diventa per noi tutti. In essa la dimensione grande, liberante non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da quello che a noi tutti è donato, quello che non proviene dal nostro volere e inventare, bensì è un precederci, un venire a noi di ciò che è inimmaginabile, di ciò che è più grande del nostro cuore. La reformatio, quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la nostra Chiesa come più ci piace  che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di sostegno in favore della luce purissima, che viene dall’alto e che è nello stesso tempo l’irruzione della pura libertà. Lasciatemi dire con un’immagine ciò che io intendo, un’immagine che ho trovato in Michelangelo, il quale riprende in questo, da parte sua, antiche concezioni della mistica e della filosofia cristiana. Con lo sguardo dell’artista, Michelangelo vedeva già nella pietra che gli stava davanti l’immagine viva che nascostamente attendeva di venire liberata e messa in luce. Il compito dell’artista secondo lui era solo quello di togliere via quello che ancora ricopriva l’immagine. Michelangelo concepiva l’autentica azione artistica come un riportare alla luce, un rimettere in libertà, non come un fare. La stessa idea applicata però all’ambito antropologico si trovava già in san Bonaventura, il quale spiega il cammino attraverso cui l’uomo diviene autenticamente se stesso, prendendo lo spunto dal paragone con l’intagliatore di immagini, cioè con lo scultore. Lo scultore, dice, non fa qualcosa: la sua opera è invece una ablatio; essa consiste nell’eliminare, nel togliere via ciò che è non autentico. In questa maniera attraverso l’ablatio emerge la nobilis forma, cioè la figura preziosa. Così anche l’uomo, affinchè risplenda in lui l’immagine di Dio, deve soprattutto e prima di tutto accogliere quella purificazione, attraverso la quale lo scultore, cioè Dio, lo libera da tutte quelle scorie che oscurano l’aspetto autentico del suo essere, facendolo apparire solo come un blocco di pietra grossolano, mentre invece inabita in lui la forma divina. Se la intendiamo giustamente, possiamo trovare in questa immagine anche il modello guida per la vera riforma ecclesiale. Certo la Chiesa avrà sempre bisogno di nuove strutture umane di sostegno per poter parlare ed operare ad  ogni epoca storica. Tali istituzioni ecclesiastiche di diritto umano con le loro configurazioni giuridiche, lungi dall’essere qualcosa di cattivo, sono al contrario, in un certo grado, semplicemente necessarie ed indispensabili; ma esse invecchiano, rischiano di presentarsi come la cosa più essenziale e distolgono così lo sguardo da quanto è veramente essenziale. Per questo esse sempre devono venire portate via come impalcature divenute superflue. Riforma è sempre nuovamente una ablatio, un togliere via affinchè divenga visibile la nobilis forma, il volto della sposa e insieme con esso anche il volto dello sposo stesso, il  Signore vivente. Una simile ablatio è una via verso un traguardo del tutto positivo. Solo così il divino penetra e solo così sorge una congregatio, un’assemblea, un raduno, una purificazione, quella  comunità pura a cui giustamente aneliamo, una comunità in cui un io non sta più contro un altro io, un sé contro un altro sé; piuttosto quel donarsi, quel affidarsi con fiducia che fa parte dell’amore, diventa il reciproco ricevere tutto il bene e tutto ciò che è puro. E così per ciascuno vale la parola del padre generoso, il quale al figlio maggiore invidioso richiama alla memoria quanto costituisce il contenuto di ogni libertà e di ogni utopia  realizzata. “Tutto ciò che è mio è tuo”. La vera riforma è dunque una ablatio che come tale diventa congregatio. Cerchiamo di afferrare in modo più concreto questa mia idea di fondo. In un primo approccio avevamo contrapposto all’attivista l’ammiratore e ci eravamo espressi in favore di quest’ultimo. Ma cosa esprime questa contrapposizione? L’attivista, colui che vuol sempre fare, pone la sua propria attività al di sopra di tutto. Ciò limita il suo orizzonte all’ambito del fattibile, di ciò che può diventare oggetto del suo fare. Propriamente parlando, egli vede soltanto degli oggetti, non è affatto in grado di percepire ciò che è più grande di lui, perché ciò porrebbe un limite alla sua attività. Egli restringe il mondo a ciò che è empirico. L’uomo viene amputato. L’attivista si costruisce da sé una prigione contro la quale  poi egli stesso protesta ad alta voce. Invece l’autentico stupore è un no alla limitazione dentro ciò che è empirico, dentro ciò che è solamente l’al di qua. Esso prepara l’uomo all’atto della fede che gli spalanca dinanzi l’orizzonte dell’eterno e dell’infinito. E solamente ciò che non ha limiti è sufficientemente ampio per la nostra natura, solamente l’illimitato è adeguato alla vocazione del nostro essere. Dove questo orizzonte scompare ogni residuo di libertà diventa troppo piccolo e tutte le liberazioni che di conseguenza possono venire proposte sono un insipido surrogato che non basta mai. La prima fondamentale ablatio che è necessaria per la chiesa è sempre nuovamente l’atto della fede stessa. È l’atto di fede che lacera le barriere del finito e apre così lo spazio per giungere sino allo sconfinato. La fede ci conduce in terre sconfinate come dicono i salmi. Il moderno pensiero scientifico ci ha sempre più rinchiusi nel carcere del positivismo condannandoci così al pragmatismo. Per merito suo si possono raggiungere molte cose, si può viaggiare sin sulla luna e ancora più lontano, nell’illimitatezza del cosmo. Tuttavia nonostante questo si rimane sempre allo stesso punto, perché la vera e propria frontiera, la frontiera del quantitativo e del fattibile non viene oltrepassata. Albert Camus ha descritto l’assurdità di questa forma di libertà nella figura dell’imperatore Caligola. Tutto è a sua disposizione, ma ogni cosa gli è troppo stretta. Nella sua folle bramosia di avere sempre di più e cose sempre più grandi egli grida: “Voglio avere la luna, datemi la luna”. Ora nel frattempo è divenuto per noi possibile avere in qualche modo anche la luna, ma finchè non si apre la vera e propria frontiera, la frontiera tra terra e cielo, fra Dio e il mondo, anche la luna è solamente un ulteriore pezzetto di terra e il raggiungerla non ci porta neanche di un passo più vicini alla libertà e alla pienezza che desideriamo. La fondamentale liberazione che la Chiesa può darci è lo stare nell’orizzonte dell’eterno, è l’uscire fuori dai limiti del nostro sapere e del nostro potere. La fede stessa in tutta la sua grandezza e ampiezza è perciò sempre  nuovamente la riforma  più essenziale di cui noi abbiamo bisogno. A partire da essa noi dobbiamo sempre di nuovo mettere alla prova quelle istituzioni che nella chiesa noi stessi abbiamo fatto. Ciò significa che la Chiesa deve essere il ponte della fede e che essa specialmente nella sua vita associazionistica intramondana non può divenire fine a se stessa. È diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici abbastanza elevati, l’idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica dell’attività, del darsi da fare. A ciascuno si cerca di assegnare un comitato o in ogni caso almeno un qualche impegno all’interno della Chiesa. In un qualche modo, così si pensa, ci deve sempre essere un’attività ecclesiale, si deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa in essa. Ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio. Una finestra che, invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo fra il Salvatore e il mondo, ha perso il suo senso. Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistica ecclesiale e tuttavia non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro viva solo semplicemente della Parola e del Sacramento e pratichi l’amore che proviene dalla fede, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto parte di sinodi e senza aver votato esse e tuttavia egli è un vero cristiano. Non è quindi di una chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una chiesa più divina e solo allora essa sarà anche veramente umana e per questo tutto ciò che è fatto dall’uomo all’interno della Chiesa deve riconoscersi nel suo puro carattere di servizio, e ritrarsi davanti a ciò che più conta ed è essenziale. La libertà che noi ci aspettiamo con ragione dalla Chiesa e nella Chiesa non si realizza per il fatto che noi introduciamo in essa il principio della maggioranza. Essa non dipende dal fatto che la maggioranza più ampia possibile prevalga sulla minoranza più esigua possibile. Essa, questa libertà, dipende invece dal fatto che nessuno può imporre il suo proprio volere agli altri, bensì tutti si riconoscono legati alla Parola e alla volontà dell’unico che è il nostro Signore e la nostra libertà. Nella Chiesa l’atmosfera diventa angusta e soffocante se i portatori del ministero dimenticano che il sacramento non è una spartizione di potere, ma è invece espropriazione di me stesso in favore di Colui nella persona del quale io devo parlare ed agire, dove alla sempre maggiore responsabilità corrisponde la sempre maggiore auto espropriazione. Lì nessuno è schiavo dell’altro, lì domina il Signore e perciò vale il principio che il Signore è lo Spirito; dove però c’è lo Spirito del Signore ivi c’è la libertà.
Quanti più apparati noi costruiamo, siano anche i più moderni, tanto meno c’è spazio per lo spirito, tanto meno c’è spazio per il Signore, tanto meno c’è libertà. Io penso che noi dovremmo sotto questo punto di vista iniziare nella Chiesa a tutti i livelli un esame di coscienza senza riserve. A tutti i livelli questo esame di coscienza dovrebbe avere conseguenze assai concrete e recare con sé una ablatio, che lasci di nuovo trasparire il volto autentico della Chiesa. Esso potrebbe ridare a noi tutti il senso della libertà e del trovarsi a casa propria, in maniera completamente nuova. Guardiamo un attimo prima di andare avanti a quanto fin qui abbiamo messo in luce. Abbiamo parlato di un doppio toglimento ( ablatio ) di un atto di liberazione che è un duplice atto di purificazione e di rinnovamento. Dapprima il discorso aveva toccato la fede che infrange le mura del finito e libera lo sguardo verso le dimensioni dell’eterno e non solo lo sguardo, ma anche la strada. La fede è infatti non soltanto riconoscere, ma operare non soltanto una frattura nel muro, ma una mano che salva, che tira fuori dalla caverna. Da ciò abbiamo tratto la conseguenza per le istituzioni che l’essenziale ordinamento di fondo delle istituzioni della chiesa ha si bisogno sempre di nuovi sviluppi concreti e di concrete configurazioni affinchè la sua vita si possa sviluppare in un tempo determinato, ma che però queste configurazioni non possono diventare la cosa essenziale. La Chiesa infatti non esiste allo scopo di tenerci occupati come una qualsiasi associazione intramondana e di conservarsi in vita essa stessa, ma esiste invece per divenire in noi tutti  accesso alla vita eterna. Ora dobbiamo compiere un passo ulteriore e applicare tutto questo non più a livello generale ed oggettivo qual era finora, ma all’ambito personale. Infatti anche qui nella sfera personale è necessario un toglimento che ci liberi. Su un piano personale non è sempre e senz’altro la forma preziosa, l’immagine di Dio che è iscritta in noi a balzare all’occhio. Come prima cosa noi vediamo invece soltanto l’immagine di Adamo, l’immagine dell’uomo non del tutto distrutto, ma pur sempre decaduto. Vediamo le incrostazioni di polvere e sporcizia che si sono posate sopra l’immagine. Noi tutti abbiamo bisogno del vero scultore, il quale toglie via ciò deturpa l’immagine. Abbiamo bisogno con altre parole del perdono che costituisce il nucleo di ogni vera riforma. Per me non è certamente un caso che nelle tre tappe decisive del formarsi della Chiesa raccontate dai Vangeli, la remissione dei peccati giochi un ruolo essenziale. C’è in primo luogo la consegna delle chiavi a Pietro. La potestà a lui conferita di legare e sciogliere, di aprire e chiudere, di cui qui si parla è, nel suo nucleo, incarico di lasciar entrare, di accogliere in casa, di perdonare. La stessa cosa si trova di nuovo nell’ultima cena che inaugura la nuova comunità a partire dal corpo e nel corpo di Cristo. Essa diviene possibile per il fatto che il Signore versa il suo sangue per i molti in remissione dei peccati e infine il risorto nella sua prima apparizione agli undici fonda la comunione della sua pace nel fatto che egli dona loro la potestà di perdonare. La Chiesa non è una comunità di coloro che non hanno bisogno del medico, bensì una comunità di peccatori convertiti che vivono della grazia del perdono trasmettendola a loro volta ad altri. Se leggiamo con attenzione il Nuovo Testamento scopriamo che il perdono non ha in sé niente di magico. Esso però non è nemmeno un far finta di dimenticare, non è un fare come se non, ma invece un processo di cambiamento del tutto reale, quale lo scultore lo compie. Il togliere via la colpa rimuove davvero qualcosa. L’evento del perdono in noi si mostra  nel sopraggiungere della penitenza. Il perdono è in tal senso un processo attivo e passivo; la potente parola creatrice di Dio su di noi opera il dolore del cambiamento e diventa così un attivo trasformarsi: perdono e penitenza, grazia e propria personale conversione non sono in contraddizione, ma sono invece due facce dell’unico e medesimo evento. Questa fusione di attività e di passività esprime la forma essenziale dell’esistenza umana. Infatti tutto il nostro creare comincia con l’essere creati, con il nostro partecipare all’attività creatrice di Dio. E qui siamo giunti ad un punto veramente centrale. Credo infatti che il nucleo della crisi spirituale del nostro tempo abbia le sue radici nell’oscurarsi della grazia del perdono. Vorrei notare però dapprima l’aspetto positivo del nostro tempo presente. La dimensione morale comincia oggi nuovamente a poco a poco a venire tenuta in onore. Si riconosce, anzi è divenuto evidente che ogni progresso tecnico è discutibile e diventerebbe ultimamente distruttivo se ad esso non corrisponde una crescita morale. Si riconosce oggi che non c’è riforma dell’uomo e dell’umanità senza un rinnovamento morale. Ma l’invocazione di moralità rimane alla fine senza energia, poiché i parametri si nascondono in una fitta nebbia di discussione. In effetti l’uomo non può sopportare la pura e semplice morale, non può vivere di essa. Essa diviene per lui una legge che provoca il desiderio di contraddirla e genera il peccato, come dice  san Paolo, così anche oggi. Perciò là dove il perdono, il vero perdono pieno di efficacia non viene riconosciuto o non vi si crede, la morale deve venire tratteggiata in modo tale che le condizioni del peccare per il singolo uomo non possono mai propriamente verificarsi. A grandi linee si può dire che l’odierna discussione morale tende a liberare gli uomini dalla colpa facendo sì che non subentrino mai le condizioni della sua possibilità. E viene in mente qui la mordace frase di  Pascal: “Ecce patres qui tollent peccata mundi”. Ecco i padri che tolgono i peccati del mondo. Secondo questi moralisti non c’è  semplicemente più alcuna colpa. Naturalmente tuttavia questa maniera di liberare il mondo dalla colpa è troppo a buon mercato. Dentro di loro gli uomini così liberati sanno assai bene che tutto questo non è vero, che il peccato c’è, che essi stessi, noi stessi siamo peccatori e che dovrebbe pur esserci una maniera effettiva di superare il peccato. Gesù stesso non chiama coloro che si sono già liberati da sé e che perciò come essi ritengono non hanno bisogno del medico, ma chiama invece coloro che si sanno peccatori e che perciò hanno bisogno di lui. La morale conserva la sua serietà solamente se c’è il perdono, un perdono reale, efficace, altrimenti essa ricade nel puro e vuoto condizionale. Ma il vero perdono c’è solo se c’è il prezzo da Cristo, l’equivalente nello scambio, se la colpa è stata espiata, se esiste l’espiazione. La circolarità che esiste tra morale, perdono e espiazione non può essere spezzata. Se manca un elemento cade anche tutto il resto. Dall’indivisa esistenza di questo circolo dipende se per l’uomo c’è redenzione oppure no. Nella Torha, nei cinque libri di Mosè, questi tre elementi sono indivisibilmente annodati uno all’altro e non è possibile perciò da questo centro compatto appartenente al canone dell’Antico Testamento scorporare alla maniera illuminista una legge morale sempre valida, abbandonando tutto il resto alla storia passata. Questa modalità moralistica, di attualizzazione dell’Antico Testamento finisce necessariamente in un fallimento. In questo punto preciso stava già l’errore di Pelagio, il quale ha oggi molti più seguaci di quanto non sembri a prima vista. Gesù ha invece adempiuto a tutta la Legge, non solamente a una parte di essa e così l’ha rinnovata dalla base, dai fondamenti. Egli stesso che ha patito espiando ogni colpa è espiazione e perdono contemporaneamente e perciò è anche l’unica sicura e sempre valida base della nostra morale. Non si può disgiungere la morale dalla cristologia, poiché non la si può separare dall’espiazione e dal perdono. In Cristo tutta quanta la Legge è adempiuta e quindi la morale è diventata una vera adempibile esigenza rivolta nei nostri confronti. A partire dal nucleo della fede, si apre così sempre di nuovo la via del rinnovamento per il singolo, per la chiesa nel suo insieme e per l’umanità. Su questo ci sarebbe molto da dire. Cercherò però solo molto brevemente di accennare, come conclusione, ancora a ciò che nel nostro contesto mi appare come la cosa più importante. Il perdono e la sua realizzazione in me  attraverso la via della penitenza e della sequela è in primo luogo il centro del tutto personale di ogni rinnovamento. Ma proprio perché il perdono concerne la persona nel suo nucleo più intimo, esso è in grado di raccogliere in unità ed è anche il centro di rinnovamento della comunità. Se infatti vengono tolte via da me la polvere e la sporcizia che rendono irriconoscibile in me l’immagine di Dio, allora in tal modo io divengo davvero anche simile all’altro, il quale è anche lui  immagine di Dio; e soprattutto io divengo simile a Cristo, che è l’immagine di Dio senza limite alcuno, il modello secondo il quale noi tutti siamo stati creati. Paolo esprime questo processo in termini assai drastici. “Le vecchie realtà sono passate, ecco è divenuta una realtà nuova. Non sono più io che vivo, ma  Cristo  vive in me”. Si tratta di un processo di morte e di nascita. Io sono strappato al mio isolamento e sono accolto in una nuova comunità soggetto. Il mio io è inserito nell’io di Cristo e così è unito a quello di tutti i miei fratelli. Solamente a partire da questa profondità di rinnovamento del singolo nasce la Chiesa, nasce la comunità che unisce e  sostiene in vita e in morte. Solamente quando prendiamo in considerazione tutto ciò, vediamo la Chiesa nel suo giusto ordine di grandezza. La Chiesa non è soltanto il piccolo gruppo degli attivisti che si trovano insieme in un certo luogo per dare avvio ad una vita comunitaria. La Chiesa non è nemmeno semplicemente la grande schiera di coloro che alla domenica si radunano insieme per celebrare l’Eucarestia. Infine la chiesa è anche di più di papa, vescovi e preti, di coloro che sono investiti del ministero sacramentale. Tutti costoro che abbiamo nominato fanno parte della Chiesa, ma il raggio della compagnia in cui entriamo mediante la fede va più in là, và persino al di là della morte. Di essa fanno parte tutti i santi, a partire da Abele da Abramo e da tutti i testimoni della speranza di cui racconta l’Antico Testamento, passando attraverso Maria, la madre del Signore, ai suoi apostoli, attraverso Thomas Bekhet e Tommaso Moro per giungere fino a Massimiliano Kolbe ad Edith Stein, a Piergiorgio  Frassati e  tanti altri. Di essa fanno parte tutti gli sconosciuti e i non nominati, la cui fede nessuno conobbe tranne Dio, di essa fanno parte gli uomini di tutti i luoghi, di tutti i tempi, il cui cuore si protende sperando ed amando verso Cristo, l’autore e perfezionatore della fede, come lo chiama la lettera agli Ebrei. Non sono le maggioranze occasionali che si formano qui o là nella Chiesa a decidere il suo e nostro cammino. Essi, i santi sono la vera determinante maggioranza secondo la quale noi ci orientiamo. Ad essa noi ci atteniamo. Essi traducono il divino nell’umano, l’eterno nel tempo. Essi sono i nostri maestri d’umanità che non ci abbandonano nemmeno nel dolore e nella solitudine, anzi anche nell’ora della morte camminano al nostro fianco. E qui noi tocchiamo qualcosa di molto importante: una visione del mondo che non può dare un senso anche al dolore per renderlo prezioso non serve a niente. Essa fallisce proprio là dove fa la sua comparsa la questione decisiva dell’esistenza. Coloro che sul dolore non hanno nient’altro da dire se non che si deve combatterlo, ci ingannano. Certamente bisogna fare di tutto per alleviare il dolore di tanti innocenti e per limitare la sofferenza nel mondo; ma una vita umana senza dolore non c’è e chi non è capace di accettare il dolore si sottrae a quelle purificazioni che sole ci fanno diventare maturi. Nella comunione con Cristo il dolore diviene pieno di significato, non solo per me stesso come processo di ablatio, in cui Dio toglie da me le scorie che oscurano la sua immagine, ma anche al di là di me stesso esso è utile per il tutto, cosicchè noi tutti possiamo dire con san Paolo:”Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Thomas Bekhet che insieme con l’ammiratore e con  Stein ci ha guidato nelle riflessioni di questi giorni ci incoraggia ancora ad un ultimo passo. La vita va più in là della nostra esistenza biologica. Dove non c’è più motivo per cui vale la pena morire, là anche la vita non vale più la pena. Dove la fede ci ha aperto lo sguardo e ci ha reso il cuore più grande, ecco che qui acquista tutta la sua forza di illuminazione anche quest’altra frase di san Paolo: “Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore se moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo sia che moriamo siamo dunque del Signore”. Quanto più noi siamo radicati nella compagnia con Gesù Cristo e con tutti coloro che a lui appartengono, tanto più la nostra vita sarà sostenuta da quella irradiante fiducia a cui ancora una volta san Paolo ha dato espressione dicendo: “Di questo io sono certo: né morte né vita né angeli né potestà né presente né futuro né potenze né altezze né profondità né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù nostro Signore”. Cari amici, da simile fede noi dobbiamo lasciarci riempire. Allora la chiesa cresce come comunione nel cammino verso e dentro la vera vita e allora essa si rinnova di giorno in giorno. Allora essa diventa la grande casa con tante dimore. Allora la molteplicità dei doni dello Spirito può operare in essa, allora noi vedremo come è buono e bello che i fratelli vivano insieme. È come rugiada dell’Ermon che scende sul monte di Sion. Là il Signore dona benedizione e vita in eterno.

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