Come tradurre la Bibbia

Come tradurre la Bibbia
“Io, da parte mia, non solo lo confesso, ma lo confermo a viva voce che, a parte la Sacra Scrittura dove anche l’ordine delle parole è un mistero, nel tradurre testi greci cerco di rendere non  parola a parola, ma idea a idea”.
Il passo citato è preso da una lettera di Gerolamo, il traduttore delle Scritture, per antonomasia e per eccellenza. In poche parole ci è dettata la regola aurea di ogni traduzione della Bibbia che pretenda di essere veridica e degna di credito: va riconosciuta una certa libertà di umana ispirazione a chi traduce un qualsiasi testo classico, non a chi traduce le Sacre Scritture.
Alle Sacre Scritture nulla si deve aggiungere e nulla si deve togliere.
Il tempo della rivelazione è ormai concluso per sempre. Qualsiasi aggiunta da parte dei posteri va vista come un vero tradimento. Questo è il monito ultimo della Parola rivelata.
“Rendo io testimonianza ad ognuno che ascolta le parole della profezia di questo libro: se qualcuno aggiunga ad esse, aggiungerà Dio a lui le piaghe scritte in questo libro; 19 e se qualcuno tolga dalle parole del libro di questa profezia, Dio toglierà la sua parte dall’albero della vita e dalla città santa degli iscritti in questo libro”. ( Apocalisse 22, 18-19 )
Soltanto le varianti che troviamo nei testi, ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa come ispirati, vanno intese come progressivo allargamento e accrescimento dell’ ispirazione divina che non procede in maniera indefinita se non nella lettura del singolo. Se la scrittura va letta con lo stesso spirito con cui è stata scritta, è lo stesso spirito che ha definito i limiti invalicabili della  forma della Parola divina. La Chiesa per molti secoli ha letto la Bibbia nella traduzione della Vulgata, opera in maggior parte di Gerolamo. La versione della Vulgata è di incomparabile bellezza. Vi è una ricchezza di significati unica e esclusiva: non è frutto dell’opera del singolo, ma in essa converge e si ritrova la fede della Chiesa primitiva e la sua capacità di lettura di quanto uscito dalla bocca di Dio. Gerolamo, se pur ci ha messo del suo, ha lavorato su preesistenti traduzioni diffuse e accreditate dalla Chiesa del suo tempo. Per quel che ci riguarda saremmo tentati di vedere nella Vulgata ben più di una semplice traduzione. Non è dello stesso parere la Chiesa la quale ha fissato all’ispirazione divina un limite ben definito, oltre il quale non si può andare. Soltanto il testo ebraico e la versione dei Settanta possono dirsi dettati da Dio. Rimane esclusa la versione della Vulgata, e per una ben motivata ragione. Vi sono dei limiti di tempo oltre i quali non si può andare, con buona pace di ogni rivelazione privata, di veggenti e visionari oggi di moda più che mai.
Gerolamo era ben consapevole dell’importanza e della necessità di nulla aggiungere e di nulla togliere. Per questa ragione, nonostante la sua convinzione che la traduzione di un testo letterario debba rendere innanzitutto non la semplice parola, ma idee e concetti,  allorché parla della Bibbia fa una eccezione, come abbiamo letto nel testo sopracitato, “perché nella Sacra Scrittura  anche l’ordine delle parole è un mistero”.
In certi casi,  non trovando un corrispettivo nella lingua latina, ricorre alla semplice traslitterazione, ovvero alla trascrizione della parola che si trova nel testo ebraico. Non sempre, però, si attiene rigorosamente a questa regola. Per meglio comprendere il suo pensiero riguardo alle difficoltà, problematiche, limiti che deve affrontare una traduzione, degna di tal nome, di un testo letterario da una lingua antica ad una corrente, riportiamo quanto da lui stesso scritto nella lettera a Pammachio sopra citata.
“Non è facile per uno che segue il filo dei pensieri di un altro, non scostarsene in nessun punto. È una vera impresa riuscire a conservare in una traduzione lo stesso fascino con cui sono state espresse le immagini nella lingua originale. Un concetto, magari, te l’hanno buttato giù con un solo termine tecnico; io non ne ho un altro da sostituirgli e nel cercare di renderne almeno il senso, appena appena riesco con una lunga perifrasi a coprire un cammino di per sé breve. Mettici poi i labirinti che ti presentano gli iperbati, la differenza dei casi, le sfumature delle immagini e, infine, proprio il loro idioma nazionale, anzi, oserei dire, paesano. Se faccio una traduzione letterale, quelle forme espressive si cambiano in rumori senza senso; se mi vedo obbligato a fare delle varianti di costruzione o di stile, sarò preso per uno che ha mancato al suo dovere di traduttore.
Se qualcuno, caso mai, non fosse convinto che la bellezza di una lingua in una traduzione ci perde, traduca in latino Omero alla lettera; oppure, per fare un caso più banale, provi a parafrasare l’autore citato nella sua stessa lingua, ma in prosa. S’accorgerà  che lo stile diventa ridicolo e che il più eloquente dei poeti sa appena parlare.
La traduzione letterale di una lingua in un’altra ne strozza il pensiero; è come se  erbe troppo rigogliose soffocassero un seminato. Per restare aderenti ai casi e alle figure, lo stile riesce appena appena a esprimere con lunghe  perifrasi un’idea che poteva essere contenuta in poche parole. Ho dunque cercato di evitare questo inconveniente quando mi sono messo a tradurre dietro tua richiesta la vita di  Antonio: il senso non ci ha perso niente, anche se qualche parola non la trovi. Lascia che siano altri a fissarsi sulle sillabe e sulle lettere dell’alfabeto; tu  ricercane il pensiero”.
Gerolamo, erudito e studioso qual era, ben conosceva le discordanze fra vari  testi delle Sacre Scritture imputabili a varianti e aggiunte fatte dai traduttori. Non solo! Se consideriamo  le stesse citazioni dell’Antico Testamento fatte dagli evangelisti e dagli apostoli noteremo che molto spesso siamo di fronte a vere e proprie interpretazioni, non giustificate dal senso proprio letterale, ma dall’ispirazione che è data dallo Spirito Santo. In altre parole il significato che è loro attribuito è diverso da quello trovato nel testo citato, a volte addirittura ci sono cambiamenti, aggiunte e, in alcuni casi, attribuzioni sbagliate o giustapposte. Ma ciò che è pienamente giustificato in un agiografo che scrive per ispirazione divina, non lo è per un qualsiasi semplice traduttore, che non deve andare oltre e fuori di quanto sta scritto.
Una traduzione, degna di questo nome, deve inoltre far proprio il senso della fede dell’intera Chiesa nella totalità dei suoi tempi e delle sue membra. Meglio lavorare, come ha fatto il nostro, su traduzioni già riconosciute ed accreditate dalla comunità dei credenti. Bisogna diffidare non solo di qualsiasi novità ma anche di ciò che ha la parvenza di novità, rispetto a ciò che sta scritto.
La Chiesa per molti secoli, diciamo pure per più di un millennio e mezzo, ha fatto propria la traduzione di Gerolamo, pur riconoscendo  le difficoltà legate ai mutamenti e alla diversità delle lingue.
Se già dall’antichità un problema si poneva ed era trovato dalla Chiesa, in un tempo in cui lingua ebraica, greca e latina, si potevano dire per certi aspetti   vicine, quanto più questo problema è venuto accrescendo con il succedersi delle generazioni e con l’allargamento del cristianesimo oltre i confini del Mare Nostrum!
Finchè vi fu una certa conoscenza e familiarità con la lingua latina, la Vulgata è stata per tutti i cristiani sicuro punto di riferimento e termine autorevole di confronto.
Quel che è accaduto dopo l’anno mille, allorchè la conoscenza del latino divenne patrimonio culturale di pochi, è risaputo. Si è creata una dissociazione fra clero e  monaci istruiti, che ancora potevano leggere le Sacre Scritture e pregare con i salmi, e la massa di fedeli, che fu rivolta verso forme di fede di più immediata e facile comprensione, ma  anche di dubbia autenticità. Si veda ad esempio, il moltiplicarsi di una  pietà e devozione cristiana, per certi aspetti alienata e alienante, non corretta dal clero, anzi da esso alimentata ed accresciuta a fin di lucro.
Il discorso sarebbe lungo, complesso ed articolato, ma facciamo un grande balzo in avanti, per arrivare in poche righe ai nostri tempi.
Oggi, più che mai, è avvertita da chi abbia un minimo di conoscenza delle lingue classiche, la necessità di una traduzione che renda il significato di quanto scritto in antico. Una vera e propria impresa, con risultati scoraggianti, di cui non vogliamo parlare, ma che ha spinto molti a predicare l’opportunità di un ritorno all’insegnamento e all’apprendimento del latino, nei limiti del possibile e nel rispetto delle diversità. L’ignoranza delle lingue antiche fra lo stesso clero è assolutamente riprovevole ed indegna di una Chiesa nata da e fondata sull’annuncio della Parola, così come “sta scritto”.
Detto questo, senza voler rigettare la traduzione ufficiale della Chiesa dei nostri tempi, un grazie ci sembra dovuto a coloro che hanno tentato e ad altri che stanno tentando di rendere accessibile  a tutti la traduzione letterale dei testi antichi. Degna di nota è l’opera  dal greco del Nuovo Testamento di don Alberto Bigarelli, edita dalle Paoline ed altre traduzioni dell’Antico Testamento, dai Settanta e dall’Ebraico. Benchè tali traduzioni, se pur approvate, non possano entrare nell’uso liturgico della Chiesa, la loro conoscenza è di fondamentale importanza per chi vuole comprendere ciò che realmente sta scritto, senza nulla aggiungere  e senza nulla togliere.
Concludiamo il nostro discorso riportando l’autorevole parere di don Umberto Neri, ora nella gloria Signore, a cui tanto dobbiamo noi tutti che abbiamo nome di cristiani, per la sua opera di esegeta e traduttore.
Don Umberto Neri
Da  Ho creduto, perciò ho parlato
Edizioni dehoniane bologna  1997
“La dimensione più delicata del problema consiste, ovviamente, nel fare si che la versione corrisponda con fedeltà al testo originale che, solo, è direttamente ispirato. L’ispirazione “equivalente” spetta alle versioni quando esse sono corrette e nella misura in cui né aggiungono né tolgono né variano in modo sensibile la parola ispirata da Dio.
Per ogni versione condotta e approvata nella chiesa si suppone tale rigorosa, non meschina, fedeltà. Ma è inevitabile che ogni versione trasferendo in altro ambito culturale e in altro abito storico e linguistico il testo “originale”, ne modifichi varie espressioni e, in qualche modo anche, irrimediabilmente ne indebolisca talvolta la forza e l’incisività. Già lo diceva il traduttore greco del Siracide.
Tuttavia sarebbe da considerare pericoloso errore metodologico e filologico, non privo di serie conseguenze teologiche, spirituali e pastorali, voler risolvere le espressioni e le formule contenute nei testi originali in termini presunti equivalenti, ma che in realtà equivalenti non sono mai.
I danni di questa operazione, evitati  accuratamente dalle migliori traduzioni antiche (che non per nulla in tanti casi servono a risalire al testo originale, o che addirittura si limitano, come accade tanto spesso nel siriaco, a pure traslitterazioni ), possono considerarsi da diversi punti di vista. Tra questi si noti la perdita di aderenza effettiva a categorie bibliche che non è detto abbiano in realtà il loro corrispondente in categorie culturali di altri mondi e di altri tempi. Per esempio il termine “carne” non corrisponde propriamente a nessuna parola delle nostre lingue: occorre quindi rassegnarsi a farne, inconfessatamente, un calco, senza illudersi di tradurlo con “corpo” o “uomo”, “umanità”, “debolezza”, o simili. Esso infatti dice e contiene tutta la economia (la disposizione) della prima creazione e tante altre cose ancora. Non si ignora l’ambiguità della parola, già rilevata dagli antichi esegeti, come facilmente confondibile con ciò che è chiamato “la carnalità”, la sensualità, eccetera. Ma compito della omiletica e dell’interprete della Scrittura per il popolo è appunto di metterne in rilievo la peculiarità e di estenderne i confini fino allo intellectus carnis.
È un solo esempio, ma casi simili sono molteplici. Si veda per analogo il termine “compiacimento” ( eudokeia e derivati), che comporta evidentemente l’amore benevolo di Dio, ma in più allude alla elezione di grazia, alla sua gioia di padre, al suo ineffabile riposo nell’anima di colui nel quale appunto si compiace. Ridurre sistematicamente eudokeia ad amore è compiere un’operazione filologico-linguistica alquanto discutibile.
Quale il rimedio?
Inevitabilmente quello di convalidare (non dimenticando che abbiamo dietro di noi secoli di esperienza) la portata (tecnica) dei termini biblici (pensiamo anche per esempio alla intraducibilità di “giustificazione”, e in fondo anche di “grazia”) attraverso un duplice genere di soccorso esplicativo:
orale - che sarà sempre il primario: senza dimenticare che le persone anche più semplici, molto più presto di quanto abitualmente non si creda, finiscono con l’imparare dall’inevitabile ripetersi degli stessi termini e degli stessi discorsi;
scritto - con la pubblicazione bene cautelata – ma perché no? – di “targum” parafrastici che possano suggerire formule provvisorie ai commentatori delle Scritture, ai più vari livelli. Purché poi ci si riconduca sempre al termine originario, sulla base del quale soltanto ci si potrà infine intendere.
Una osservazione a diverso livello, ma non del tutto trascurabile, riguarda lo stile.
La Scrittura è indubbiamente data a tutta la Chiesa e consegnata al popolo cristiano di tutti i tempi anche ai più semplici e ai più indotti. Ma non possiamo dimenticare che parte del fascino e dell’incanto che essa esercita le deriva dalla sua bellezza classica, e che testi abitualmente redatti con una così sapiente arte retorica e con norme compositive così equilibrate e rigorose, possono facilmente essere guastati dalla aggiunta, dalla omissione o dalla variazione ingenua di parole o, spesso, addirittura di particelle (connettive o contrappositive). Con il risultato che, senza portare esempi che sarebbero troppi e potrebbero rattristare qualcuno e non tenere conto della sua sincera buona volontà, riducono miserevolmente testi di altissima poesia in prosa piatta e banale.
A questo riguardo occorre non dimenticare che parte della forza comunicativa del testo è legata non solo al suo contenuto essenziale di idee da trasmettere, ma anche al rigore letterario con cui il testo è stato redatto.
A questo proposito – sia detto come tra parentesi - non di fronte a tutti gli arcaismi o a tutte le formule inconsuete occorre arricciare il naso. La potenza incisiva del testo e la novità della comunicazione che trasmette non prescindono neppure da questi elementi. Un testo classico appiattito a “lingua corrente”( che poi è variabilissima e invecchia nel giro di pochi anni) è sostanzialmente impoverito di una dimensione che Dio, nella sua magnificenza, ha voluto conferirgli.
Ci si permette di richiamare l’attenzione anche a elementi che possono parere più secondari e marginali.
Un solo esempio: la sostituzione del nome o del sostantivo esplicitato, alla allusività del pronome contenuto nel testo originale. Giustificata tale operazione nella composizione dei dizionari, spesso è impoverente nella resa del testo che potentemente richiama con “egli” o un “lui”, o con nulla, la personalità emergente del protagonista o l’imporsi dell’evento in se stesso.
Di importanza capitale – anche se da condursi sempre con grande attenzione per non giungere a forzature del testo o a stabilire “uguaglianze inesistenti” – è la cura da aversi alla coerenza del linguaggio biblico che (talvolta con fatica manifesta dell’agiografo stesso, e spessissimo con una sua dichiarata intenzionalità) richiama e commenta se stesso completandosi ed esplicitandosi nelle sue insistenze e nel suo ripetersi.
A questo riguardo occorre fare la massima attenzione a non rendere più difficilmente comprensibili, variandone ad arbitrio i termini con il procedere del discorso, le esegesi dell’Antico Testamento riportate nel Nuovo Testamento. Avere il sano coraggio di porre eventualmente una paio di virgolette al di sopra del termine ripreso dal testimonium veterotestamentario sopra ricorrente, non è puntigliosità filologica, ma elementare accorgimento di chi intende spiegarsi senza dissolvere connessioni logiche e linguistiche che in modo manifesto sono intenzionalmente presenti nel testo.
Una manifesta preoccupazione delle traduzioni che si vogliono – e, in parte lo sono – moderne è la frantumazione di periodi ritenuti troppo lunghi e inascoltabili (sempre ovviamente da parte del cosiddetto “uomo moderno”, l’uomo della tv, da noi spesso valutato al di sotto delle sue capacità e dei suoi gusti e giudicato con un pizzico di sufficienza). La norma del “periodo breve” ha le sue giustificazioni. Ma non in modo che si avventi contro i dunque, i poiché, gli affinché, o addirittura le innocentissime ma ed e, così da perdere connessioni causali e procedimenti espressivi di grande efficacia e in definitiva chiarificatrici rispetto al troppo sobrio segno dei due punti o allo abrupto interrompersi del discorso segnato da “punto fermo”. Una osservazione che può sembrare marginale, ancor più che alcune altre sopra presentate, è questa: da ogni punto di vista, spirituale, teologico, pastorale, liturgico, occorre mettere grande attenzione a stabilire – fissandolo senza puntigliosità, ma con sostanziale fedeltà – un testo che attraverso le diverse vie della lettura, dell’annuncio, della preghiera, della meditazione, si imprima nel cuore dei lettori della Scrittura o dei suoi ascoltatori e venga così gradualmente, in modo pressoché spontaneo, assimilato profondamente e sostanzialmente memorizzato.
Il che non impedisce ovviamente che si pratichino a certe scadenze revisioni delle versioni bibliche anche abbastanza avanzate (come si è fatto per la Bibbia del Diodati, per la King-James e per la Luther- Bibel), ma si deve procedere sempre con molto riguardo e tenendo conto, oltre di ciò che va dato per acquisito ormai nel linguaggio del popolo cristiano, di tutto il contesto liturgico del quale occorre guardarsi dall’intaccare l’integrità e la, benché incompleta e rivedibile, coerenza interna.

 

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