6 GENESIO, GENNARO, GIACOMO, GIOVANNI, PAOLO, GORDIO, LEONE, LIBERATO, LORENZIO, LUCIO

San Genesio
Il martirio di San Genesio si crede avvenuto in Roma all’inizio dell’impero di Diocleziano verso l’anno 285 e si ricava da documenti autentici riportati dal Ruinart. San Genesio era un capo commediante, molto nemico dei cristiani anche se erano suoi parenti. Essendosi egli informato dei riti con cui nella Chiesa si amministrava il battesimo, volle una volta dar piacere all’imperatore e al popolo romano col mettere in ridicolo questo santo sacramento. Un giorno, contraffacendo sul teatro un infermo che chiedeva di essere battezzato, fece comparire sulla scena un finto prete, che gli diede il battesimo con le solite cerimonie. Ma cosa avvenne? In quello stesso momento Genesio fu illuminato dalla grazia. Quando dunque il prete di scena seduto accanto a Genesio gli chiese: “Figliolo mio, perché mi hai chiamato?”, egli rispose non con finzione ma con tutta  serietà: “Io desidero ricevere la grazia di Gesù Cristo per essere liberato dai peccati che mi opprimono”. Quindi seguirono le altre cerimonie e Genesio confessò che davvero credeva a quanto gli venne proposto e ricevette realmente il battesimo. Nello stesso tempo egli vide scendere dal cielo un angelo splendente di luce, che, tenendo in mano un libro in cui erano scritti tutti i suoi peccati, lo immerse in quella stessa acqua del battesimo dato e gli fece poi vedere quel libro divenuto tutto bianco e limpido. Terminata la funzione del battesimo, Genesio fu vestito con gli abiti bianchi come si usa con i novelli battezzati. Poi comparvero i soldati che avendo preso Genesio lo presentarono come cristiano all’imperatore. Il santo, quando fu davanti a Diocleziano, manifestò la visione avuta al momento del battesimo e protestò il suo desiderio che tutti confessassero, come faceva lui, che Gesù Cristo è il vero Dio da cui solo possiamo ottenere la salvezza. Diocleziano stupefatto e nello stesso tempo irritato lo fece subito caricare di bastonate e lo consegnò poi a Plauziano, prefetto del pretorio, affinché con i tormenti lo costringesse a rinunziare a Gesù Cristo. Plauziano lo fece stendere sull’eculeo, dove San Genesio fu tormentato con uncini di ferro e bruciato con torce ardenti. In tali strazi il santo ripeteva: “Non vi è altro re che Gesù Cristo: questo io adoro anche se mi faceste soffrire mille morti. Tutti i tormenti non potranno mai togliermi Gesù Cristo dal cuore e dalla bocca. Il mio unico dolore è di aver perseguitato il suo santo nome e di averlo adorato così tardi”. Alla fine fu fatto decapitare dal tiranno e presto andò a riceverne il premio in cielo.
San Gennaro vescovo
È disputa fra i napoletani e beneventani quale fosse la patria di San Gennaro. I primi vogliono che fosse la città di Napoli, i secondi la città di Benevento. Dicono che fosse di una delle famiglie più antiche e discendenti dai Sanniti, che avevano fatto guerra con i Romani e che erano padroni e duchi di Benevento. Non c’è notizia sicura delle azioni dei primi anni di San Gennaro. Quello che si sa di certo è che i suoi genitori erano cristiani. È anche certo che San Gennaro, quando si rese vacante la sede della chiesa di Benevento, era stimato il più santo e dotto del clero. Di comune consenso il clero e il popolo lo elessero per loro vescovo. Il santo rifiutò risolutamente di accettare il vescovado per la sua umiltà ma fu costretto a sottomettersi alla carica dalla ubbidienza datagli dal Papa S. Caio oppure S. Marcellino. Appena San Gennaro cominciò a reggere la Chiesa in quei tempi infelici della persecuzione degli imperatori Diocleziano e Massimiano contro i cristiani, fece palese lo zelo che egli nutriva per la fede di Gesù Cristo. Egli non solo si dava da fare per propagarla e conservarla nella sua diocesi, ma percorreva tutte le città vicine per convertire gli idolatri e dare soccorso e coraggio ai fedeli. Il santo nella città di Miseno trovò un giovane diacono chiamato Sosio, che con grande fervore serviva quella chiesa . Strinse amicizia con lui ed un giorno che Sosio leggeva il Vangelo al popolo vide splendere una fiamma sul suo capo, per cui presagì che Sosio sarebbe stato coronato con il martirio. E il presagio presto si avverò, poiché Sosio dopo pochi giorni fu arrestato come cristiano. Essendo stato presentato a Draconzio, governatore della Campania, quegli cercò di farlo abiurare con le promesse e poi con le minacce. Vedendo la sua costanza lo fece crudelmente flagellare e lo fece mettere alla tortura e poi lo fece rinchiudere in carcere. Il santo fu subito visitato da tutti i cristiani del paese, specialmente dalla diacono Procolo e da Eutiche e da Acuzio, suoi concittadini. Il nostro san Gennaro, appena lo seppe, andò anche lui a visitarlo e a dargli coraggio. Il governatore Draconzio fu trasferito dall’imperatore altrove e gli successe nel governo Timoteo, il quale, essendo andato a Nola ed avendo qui saputo delle conversioni che faceva San Gennaro in tutti quei dintorni e dell’assistenza che prestava ai fedeli, subito mandò a prenderlo. Quando gli fu condotto davanti legato mani e piedi, gli ordinò che subito sacrificasse agli dei. Il santo rigettò con orrore e disprezzo l’iniquo comando. Timoteo ordinò che fosse gettato in una fornace accesa. Fu subito eseguito l’ordine, ma da quelle fiamme uscì senza la minima lesione. Il miracolo stupì tutti coloro che erano presenti; invece di far ravvedere il tiranno lo rese più furioso e crudele. Per questo,  acceso di rabbia, comandò che il corpo del Santo fosse stirato sull’aculeo  al punto che gli restassero spezzati tutti i nervi. In Benevento poi, Festo, diacono di San Gennaro e Desiderio suo lettore, avendo saputo  ciò che era accaduto al loro santo vescovo, subito partirono ed andarono a visitarlo in nome di tutta la sua chiesa. Ma Timoteo, avendo saputo del loro arrivo, li fece prendere e li interrogò riguardo al motivo del loro viaggio. Risposero che, essendo essi i ministri sacri del loro santo prelato, erano venuti per assisterlo in prigione. Il tiranno udendo ciò fece mettere loro le catene ai piedi e ordinò che essi insieme con il santo andassero davanti al suo carro fino a Pozzuoli, per essere tutti esposti poi alle fiere. Giunti  a Pozzuoli i santi subito furono posti nell’arena. Allora San Gennaro disse loro: “Coraggio fratelli miei, ecco il giorno del nostro trionfo. Con fede  diamo la vita per Gesù Cristo, che diede la sua per noi”. Allora si fecero uscire le fiere alla vista di un gran popolo accorso; ma le fiere, benché corressero verso i santi martiri, invece di porsi a sbranarli si gettarono avanti ad essi a leccare i loro piedi in atto di riverenza. Il miracolo fu palese a tutti, onde si udì nell’anfiteatro un segreto mormorio della gente che diceva: il Dio dei cristiani è il solo vero Dio. Timoteo, informato di quel rumore, temette qualche sollevazione e ordinò che subito i martiri fossero  condotti alla piazza per esservi decapitati. San Gennaro, passando davanti al governatore, domandò a Dio che togliesse la vista a quel tiranno per sua confusione e per il bene del popolo. Il Signore lo esaudì e Timoteo restò cieco. Allora egli fece fermare l’esecuzione della sentenza data contro i santi e, ravveduto alquanto della sua iniquità, supplicò San Gennaro di perdonargli i maltrattamenti che gli aveva fatto e di pregare Dio che gli restituisse la vista. Il Santo, pregando di nuovo, ottenne la grazia. Il miracolo fu tale che nello stesso giorno convertì cinquemila pagani. Timoteo, nonostante la grazia ricevuta, per timore di perdere la grazia dell’imperatore, diede ordine agli ufficiali che segretamente, senza far rumore, eseguissero subito la sentenza. Mentre il santo era condotto a Vulcano, luogo destinato al supplizio, un vecchio cristiano, piangendo, lo supplicò di dargli qualcosa del suo per conservarlo in sua memoria. Il Santo, mosso dalla devozione del buon vecchio, gli disse che non aveva altro da dargli che il suo fazzoletto, ma allora non poteva darglielo perché gli serviva per bendarsi gli occhi nel ricevere il colpo della morte; ma dopo la sua morte glielo avrebbe dato. Giunto il santo a Vulcano, da se stesso si bendò gli occhi col suo fazzoletto,  dicendo: Nelle tue mani, o Signore, affido lo spirito mio. Fu decapitato insieme agli altri suoi compagni cioè, Sosio, Festo, Procolo, Desiderio, Eutiche ed Acuzio, il 19 settembre verso la fine del terzo secolo. I corpi dei santi martiri furono presi e collocati in diverse città. I cristiani di Pozzuoli si presero i corpi  dei santi Procolo, Eutiche, ed Acuzio; i corpi di san Festo e di san Desiderio furono presi dai Beneventani e portati a Benevento; quello di Sosio a Miseno. Quello poi di San Gennaro fu prima  portato a Benevento, poi al monastero di Monte Vergine e di là poi, al tempo di Alessandro IV fu trasportato a Napoli, accompagnato da tutto il clero napoletano e da una grande moltitudine di popolo. Fu deposto da San Severo, vescovo della città, in una chiesa vicina alla città e dedicata in onore del santo. Alla fine, da quella chiesa le reliquie di San Gennaro furono trasferite  assieme col sangue, che al tempo del suo martirio fu raccolto e conservato poi in due ampolle di vetro, nella Chiesa cattedrale, dove si conserva al presente da quattordici secoli con molta devozione dei Napoletani. Quindi San Gennaro fu preso per patrono principale della città e di tutto il regno. Iddio stesso ha continuato ad onorare questo suo santo con molti miracoli e particolarmente con la protezione del santo contro gli orrendi incendi del Monte Vesuvio, che più volte ha minacciato la rovina della città. Alla presenza delle sante reliquie le lave di bitume liquefatto o sono cessate o almeno hanno cambiato cammino. Il miracolo poi più stupendo che è continuo ed è celebre in tutta la Chiesa è quello che si rinnova più volte l’anno, ogni volta che la festa del santo fa vista del sangue. Allora il sangue prima congelato si liquefà e bolle come sangue vivo a vista di tutti. Alcuni  eretici hanno cercato di far dubitare del prodigio per certe frivole incongruenze, ma il miracolo è così palese ad ognuno che vuole osservarlo che chi lo nega deve negare l’evidenza. Tutti i i fatti poi narrati di San Gennaro sono ricavati da documenti troppo degni di fede. Sono ricavati dagli atti antichissimi, che presso di sé conservava il cardinale Baronio: dagli atti greci vaticani: dal menologio greco di Basilio, dagli scritti lasciati dal diacono, autore di molto credito, del secolo nono, lodato anche dal Muratori; inoltre dagli uffici molto antichi napoletani, salernitani, capuani e pozzuolani. Vengono infine confermati dalla tradizione dei nolani, che ai nostri giorni mostrano il carcere dove San Gennaro stette chiuso a Nola, il luogo dove gli furono slogate le ossa, e la fornace da cui uscì illeso. Dai monumenti sopra menzionati si ricavano quasi le stesse cose da noi narrate, le quali tutte o quasi tutte stanno scritte negli atti del Baronio, che, avvalorati dagli altri documenti, meritano tutto il credito. E qui ripeto quel che scrissi al principio di questo libro, cioè, che sembra una specie di temerarietà il voler dubitare positivamente della verità di quei fatti che sono riferiti da più autori antichi, quantunque non contemporanei e di credito e diligenti nell’esaminare le cose, soprattutto quando di tali fatti vi è una pacifica e vecchia tradizione. È vero che giustamente si deve dubitare di quei fatti antichi di cui vi è qualche forte argomento che siano falsi, ma domando quali sono gli argomenti con i quali il Tillemont e il Baillet, con alcuni altri pochi autori moderni, impugnano i fatti del martirio di San Gennaro? Dicono che la loro antichità è molto lontana dai nostri tempi; dicono che i tormenti che si narrano sono troppo acerbi e perciò incredibili: dicono che tali fatti sono troppo numerosi. In tal modo dovrebbero rigettarsi molti atti considerati comunemente veritieri, come quelli di san Felice di Nola, di San Policarpo, di San Teodoto, di san Taraco ed altri  che si leggono presso il celebre Ruinart ed altri buoni autori. A quel che dicono poi il Tillemont e il Baillet hanno fatto applauso alcuni dei nostri autori in occasione del ritrovamento di certi atti di San Gennaro, ritrovati in Bologna nel monastero di S. Stefano dei padri celestini. Ma io non so perché si deve dare credito a questi atti e non a quelli del Baronio e degli altri autori sopra citati. Dicono, secondo il Tillemont, perché gli atti bolognesi sono più semplici, mentre in essi non si fa menzione dei miracoli descritti negli atti baroniani. E per questo si devono preferire? Mi si permetta uno sfogo. Il secolo presente si chiama il secolo illuminato, per il fatto che si è perfezionato il buon gusto delle cose. Ma volesse Dio che non fosse in più cose peggiorato e non andasse tuttavia peggiorando col voler misurare le cose divine col nostro debole intelletto. Alcuni letterati alla moda negano o mettono in dubbio la maggior parte dei miracoli che si leggono riportati nelle vite dei santi. Dicono che il racconto di tanti miracoli fa sì che gli eretici deridano noi cattolici come troppo creduloni e perciò non si uniscano alla nostra chiesa. Rispondo: Gli eretici non credono ai nostri miracoli non già perché ci stimino troppo creduloni, ma perché fra essi non si vede mai un miracolo e perciò disprezzano tutti i nostri miracoli. Non è vero poi che la nostra troppa credulità ai miracoli è loro di remora per unirsi alla nostra chiesa, poiché appunto per non volersi unire e sottoporre alla nostra chiesa non vogliono credere ai miracoli. E non vedono i miseri che col non voler sottoporsi alla Chiesa si sono ridotti a non credere più a niente, come è evidente nei libri che spesso vengono dai paesi riformati. Del resto essi ben sanno che la fede cristiana per mezzo dei miracoli si è propagata e mantenuta. Così la propagò Gesù Cristo e così la propagarono gli apostoli. E la ragione di ciò è chiara, perché le verità rivelate della nostra fede non sono evidenti alle nostre menti. Per questo è stato necessario smuoverci a crederle per mezzo dei miracoli, i quali, superando la forza della natura, ci fanno conoscere chiaramente essere Dio quello che parla in tali prodigi soprannaturali. E perciò nella chiesa quando sono cresciute le persecuzioni il Signore ha fatto crescere di miracoli. Del resto nella nostra chiesa i miracoli operati da Dio per mezzo dei suoi servi, quando più, quando meno, non sono mai mancati. Ma torniamo al nostro intento. Non è giusta ragione dunque preferire gli atti del monastero di Bologna a tutti gli altri ricordati, perché sono più semplici e non vestiti dei tanti miracoli che raccontano il Baronio, il diacono ed altri autori. Tanto più che questi atti bolognesi non sono più antichi del secolo XVI, come si è accertato. Inoltre un autore erudito, Saverio Rossi, in una sua dotta dissertazione stampata ha scritto che questi atti devono stimarsi molto meno veritieri degli atti da noi riferiti, per il fatto che si vedono essi accumulati con altri atti falsi o almeno inverosimili e ancora di più perché si vedono scritti da persona ignorante, che li ha messi insieme in maniera rozza e con molti errori di latino.

San Giacomo detto l’Interciso
Nella Persia era stata molto perseguitata la religione cristiana; ma sotto il regno del re Isdegerde aveva goduto venti anni di pace. Tuttavia un vescovo di nome Abda, per aver incendiato il tempio di un idolo adorato dai Persiani, diede l’occasione perché si scatenasse una persecuzione. Isdegerde, irritato da quell’incendio, ordinò che si distruggessero tutte le chiese cristiane e poi comandò che tutti i sudditi dovessero professare la sola religione persiana. Giacomo, vinto dal timore di perdere i beni e le cariche che aveva a corte, ubbidì all’iniquo comando. Ma sua madre e sua moglie, che erano buone e cristiane, stando lontane e sentendo la caduta di Giacomo, gli scrissero una lettera in cui, dopo averlo esortato a riparare l’errore commesso, gli dicevano: “Se  non ti rimetti sulla buona via da cui sei uscito, noi ti tratteremo come un estraneo e da te ci separeremo. Non ci conviene stare con uno che ha lasciato Dio per compiacere agli uomini e per non lasciare quei beni che presto periranno e faranno perire te eternamente”. Giacomo, a cui la coscienza già rinfacciava la sua apostasia, restò trafitto da questa lettera, pensando che se i parenti lo rigettavano, molto più lo rigettava Dio. Pertanto, piangendo il suo peccato, che era stato pubblico, giudicò necessario detestarlo anche pubblicamente. Alla presenza di tutti cominciò ad esclamare: “Io sono cristiano e mi pento di aver abbandonato la fede di Gesù Cristo”. Il principe, avendo saputo ciò, tutto pieno di sdegno, dicendo che questo era un affronto che faceva a lui stesso, offendendo gli dei che egli adorava, ordinò che fosse condotto alla sua presenza. Giacomo, comparso davanti al tiranno, fu da lui rimproverato d’incostanza e fu minacciato di una morte atroce, se non avesse sacrificato agli dei persiani. Ma il santo rispose che egli era cristiano e che era molto pentito dell’errore commesso e non voleva essere più infedele al suo Dio. Isdegerde, trasportato dall’ira, condannò Giacomo ad un supplizio crudele, comandando, affinché gli altri non ne seguissero l’esempio, che gli fosse tagliato il corpo in pezzi, membro a membro. Il santo intrepido si preparò a quell’orribile tormento ed i carnefici cominciarono la carneficina dalle mani. Prima gli fu reciso il dito grosso della mano destra, tagliato il quale il carnefice gli disse che, se esso ubbidiva al re, la cosa non sarebbe andata più avanti. Ma Giacomo sospirava di dare la sua vita per Gesù Cristo e di riparare il torto che gli aveva fatto col rinnegarlo. Con fortezza continuò a presentare le sue membra ai carnefici e senza lamentarsi soffriva il vedersi reciso l’un membro dopo l’altro. I fedeli furono presenti al suo martirio con grande edificazione. Finalmente, tagliate che gli furono tutte le membra, in modo che del suo corpo non rimase che un puro tronco, gli fu mozzata la testa. Ciò avvenne il 27 novembre dell’anno 420 e dal genere di quel supplizio gli fu dato il nome di Interciso, cioè tagliato a pezzi.
La costanza di questo martire ci fa meglio conoscere quanto può la grazia di Gesù Cristo, poiché questa gli diede la forza di soffrire quella carneficina, non solo con pazienza ma anche con gioia di spirito. Tutti i martiri erano di per sé  vili e deboli, ma furono forti nel soffrire le pene, per essere stati resi tali da Gesù Cristo, che per essi combatteva e superava i tormenti. Confidiamo anche noi in Gesù Cristo e quando nelle sofferenze ci sentiamo vacillare l’animo e le forze, ricorriamo subito a lui, preghiamolo di soccorrerci per i meriti del suo sangue e sicuramente anche noi vinceremo.

San Giovanni e Paolo
Questi due santi fratelli erano italiani e di nascita distinta, molto affezionati alla religione cristiana. Avvenne al loro tempo che Costanza figlia di Costantino il grande, guarita da una molesta infermità per intercessione di Santa Agnese si risolse a fare vita devota e fece voto di verginità. L’imperatore per compiacerla, tenendola ritirata a casa sua, le assegnò questi due fratelli, perché la servissero. Accadde inoltre che, essendo entrati gli Sciti nella Tracia con un formidabile esercito, Costantino elesse per contrastarli Gallicano, che era stato console e che per le numerose vittorie ottenute contro i barbari si era dimostrato un capitano di grande valore. L’imperatore lo nominò generale dell’esercito, ma Gallicano non volle accettare l’incarico se non alla condizione che tornando vittorioso avesse sposato la principessa Costanza e l’imperatore gliela promise. Accadde che nella battaglia restò quasi sconfitto l’esercito dei Romani, cosicché Gallicano fu sul punto di darsi alla fuga. Essendo andati con lui a questa guerra, i nostri santi Giovanni e Paolo gli consigliarono di fare voto di abbracciare la fede cristiana se fosse rimasto vincitore. Gallicano fece il voto e allora i nemici mirabilmente spaventati deposero le armi e si arresero. Dopo tale fatto Gallicano ritornò a corte non più con il proposito di sposare la principessa Costanza ma con la risoluzione di ricevere il battesimo e poi lasciare il mondo per darsi tutto a Dio. Infatti si ritirò ad Ostia , dove fece costruire un grande ospedale in cui egli stesso si diede a servire tutti gli infermi che vi capitavano. L’imperatore Giuliano l’Apostata, che successe al governo dell’impero, gli mandò ordine che adorasse gli idoli o uscisse dall’Italia. Gallicano andò ad Alessandria, dove continuò a vivere da santo e qui finalmente ottenne la gloria del martirio il 25 giugno, giorno in cui la Chiesa ne fa memoria. Intanto i santi Giovanni e Paolo, essendo ritornati a corte a servire la principessa ed essendo poi essa morta, furono mantenuti nei loro incarichi. Ma quando Giuliano salì al trono e dichiarò la guerra contro i cristiani, essi lasciarono la corte e si misero a condurre una vita privata e devota. Al contrario Giuliano, sapendo la costanza che essi conservavano nel diffondere la fede di Gesù Cristo e gli aiuti che davano ai cristiani, ordinò a Terenziano, capitano delle sue guardie, di dire loro da parte sua che egli li voleva a corte ad esercitare le loro cariche. I santi risposero che essendo essi cristiani non potevano servire ad un imperatore dichiarato nemico di Gesù Cristo. Giuliano rispose che dava loro dieci giorni di tempo, dopo i quali, se non si decidevano di venire a servirlo, egli impose a Terenziano di farli morire. I santi risposero che né dieci giorni né dieci anni sarebbero bastati a far sì che essi abbandonassero la loro religione per cui erano pronti a dare la vita. Pertanto essendo passati i dieci giorni andò Terenziano a trovarli nella loro casa e, portando con sé un’immagine di Giove, disse loro che l’imperatore si accontentava che solo adorassero quella statuetta e altro non chiedeva. I nostri santi pieni di orrore nel vedere quell’idolo nella loro casa dissero:  “Signore, toglici davanti questo oggetto abominevole. Chi non vede che non può esserci che un solo Dio e che tutte queste false divinità sono favole ed empietà?”. Ma se non volete ubbidire, replicò Terenziano, perderete la vita. Essi allora si posero in ginocchioni ed alzando gli occhi al cielo ringraziarono Dio della grazia che faceva loro di morire per la fede. I due santi erano molto stimati a Roma, onde la loro morte faceva temere una sedizione del popolo se si fosse fatta eseguire in pubblico. Terenziano li fece decapitare nella loro stessa casa verso la mezzanotte. In segreto fece poi scavare una fossa nel loro giardino e qui li fece seppellire, credendo così di far rimanere nascosta la loro morte. Ma Dio dispose che nella mattina seguente molti indemoniati rendessero pubblico il martirio dei due santi fratelli. Lo stesso figlio di Terenziano, che era possesso, rendeva nota la loro morte. Avendo poi quel giovane ricevuto la guarigione per intercessione dei santi martiri, ciò fu la ragione per cui Terenziano in quella occasione si convertì con tutta la sua famiglia ed abbracciò la fede cristiana. In seguito nel medesimo luogo ove riposavano i corpi dei santi, sin dal quinto secolo fu fabbricata una nobile chiesa che anche oggi esiste a Roma in loro onore.
San Gordio
San Gordio nacque nel secolo terzo; la sua professione fu quella di soldato. Egli fu promosso  centurione cioè capo di cento soldati. San Basilio Magno, che scrisse poi un’omelia a lode di questo santo, narra che in quel tempo vi fu in Cesarea una grande persecuzione contro i cristiani. Nelle piazze della città stavano esposti idoli di pietra o di legno e chi non sacrificava ad essi lo facevano tormentare e morire. Tutta la gente stava in confusione e spaventata, poiché le case dei cristiani erano impunemente saccheggiate dagli idolatri, a loro piacere. Le prigioni erano piene di fedeli, per cui si videro allora le chiese abbandonate ed i boschi e le montagne piene di perseguitati. Allora san Gordio rinunciò al suo posto, si spogliò della insegna militare e lasciando tutto se ne fuggì a vivere nei deserti, ove, stando in solitudine, si diede a stringersi di più con Dio per mezzo delle preghiere e delle penitenze. Per caso seppe che a Cesarea un giorno si celebrava un famoso spettacolo in onore del dio Marte. Egli vi andò e vide che vi era concorsa una gran moltitudine non solo di Gentili, ma anche di cristiani, che erano di poca virtù, poichè non si vergognavano di assistere a tali feste del demonio. Il santo, mosso dallo Spirito Santo, si mise a lodare la religione cristiana e nello stesso tempo a rimproverare gli idolatri che adoravano e sacrificavano ai loro falsi dei. Ma il popolo Gentile, vedendosi distolto da quella festa, gridò in maggior parte che il Santo per la sua temerarietà fosse tolto di vita. Perciò lo presero e lo condussero subito al preside, accusandolo di quanto aveva detto. Il preside, sapendo che egli era fuggito, gli chiese perché era scappato e poi ritornato. Rispose san Gordio: “Io sono ritornato perché adoro Gesù Cristo e sentendo dire che tu sei il più crudele di tutti gli uomini ho creduto essere questo il tempo per soddisfare il mio desiderio”. Il tiranno, avendolo sentito parlare così, ordinò che fossero pronti i carnefici ed i tormenti. Il santo per nulla spaventato da quell’ordine si offrì allora in modo speciale a Gesù Cristo, pronto a soffrire tutto per suo amore. Ed ecco che subito gli furono applicati più supplizi, i flagelli, l’eculeo, ed  anche il fuoco. S. Gordio stando in quei tormenti diceva: “Tormentatemi voi quanto volete. Quanto più grande sarà lo spasimo che mi farete soffrire, tanto maggiore sarà il premio che voi mi procurerete in cielo. Per le ferite che patirò sarò coperto d’una veste di gloria e per i dolori che mi affliggeranno guadagnerò una gioia eterna”. Il preside, osservando che nulla otteneva con i tormenti, per farlo rinnegare tentò di  guadagnarlo con le promesse. Gli promise onori grandi e ricchezze se egli si lasciava indurre ad onorare gli dei. Ma il santo gli rispose che si ingannava se credeva di fargli cambiare la gloria eterna del cielo con i beni miserabili, che presto finiscono, di questa terra. Alla fine, vedendo il preside che per quanto si affaticasse a promettere e a minacciare  era tempo perduto, lo condannò a morte. Mentre il santo andava al luogo del supplizio,  i suoi amici lo esortavano a cedere per quel tempo allo sdegno del preside e a non perdere così miseramente la sua gioventù. Il santo rispose loro: “Non piangete sopra di me, ma sopra coloro che perseguitano i cristiani, mentre ad essi sta apparecchiato il fuoco eterno. Io  sono disposto a morire, non una, ma mille volte per Gesù Cristo”. Replicavano quelli che gli bastava, per evitare la morte, negare  Gesù Cristo solo con la lingua benché lo adorasse col cuore. Il santo disse: “Non sarà mai vero che io neghi il mio Dio con quella lingua che egli mi ha donato”. Allora si fece il segno della croce e da forte si avviò per giungere al suo supplizio, il quale fu di fuoco e così il santo gloriosamente terminò il suo sacrificio.

San Leone
In Pataro città della Licia si celebrava una festa in onore di un certo idolo. Molti accorsero ad assistervi: alcuni per propria volontà, altri per timore di un editto con cui si ordinava che tutti dovessero intervenirvi. San Leone, che era buon cristiano, uscì dalla città e se ne andò a pregare dove giacevano le reliquie di San Paregorio, che poco prima era stato martirizzato per la fede. Ritornato a casa, gli apparve in sogno San Paregorio, che stando dall’altra parte di un torrente, lo invitava ad unirsi a lui. San Leone da questa visione concepì una grande speranza del suo martirio. Andando nei giorni seguenti di  nuovo a visitare il sepolcro di San Paregorio e passando vicino ad un tempio in cui ardevano molte  lampade in onore dell’idolo della fortuna, spinto da particolare impulso dello Spirito Santo, entrò qui e gettò a terra tutte quelle lampade. Gli idolatri, irritati dal disprezzo fatto a quel loro idolo, proruppero in alte grida contro di lui, così che il presidente che governava quel luogo, informato di tale rumore, ordinò che il santo fosse preso e condotto alla sua presenza. Presentato che gli fu san Leone gli rimproverò l’oltraggio fatto agli dei celesti contro gli ordini del sovrano. Il santo animato dal suo zelo rispose: “Tu mi parli degli dei celesti come se ve ne fossero molti, ma non vi è che un solo Dio ed un solo Gesù Cristo, suo Figlio. Le lampade che si accendono intorno ai simulacri a cosa servono, dal momento che queste statue di pietra o di legno non hanno alcun sentimento? Se tu conoscessi il vero Dio non faresti onore a questi dei falsi. Lascia questa vana religione e adora Gesù Cristo, nostro Creatore e Salvatore”. Il giudice gli replicò: “Tu dunque mi esorti ad essere cristiano? Meglio che ti adatti a fare come fanno gli altri, se non vuoi essere punito  temerario come  sei”. Il santo, allora, con maggiore coraggio riprese a dire: “Io vedo già la moltitudine di coloro che disprezzano il vero Dio e seguono l’errore. Ma io sono cristiano e seguo i precetti degli apostoli. Se perciò merito castigo, eseguilo presto mentre io sono pronto a soffrire ogni pena per non farmi schiavo del diavolo. Facciano gli altri quel che vogliono, pensando solo alla vita presente e non alla futura, che si acquista per mezzo di queste afflizioni che passano, dicendo la Scrittura che la via, la quale conduce alla vita eterna, è stretta. Replicò il giudice: “Dunque giacché  la via di voi cristiani è stretta, attenetevi alla nostra, che è larga e comoda”. San Leone rispose: “Ho detto che la via è stretta perché bisogna essere preparato a soffrire le afflizioni e le persecuzioni per la giustizia. Per il resto, per chi la cammina essa è spaziosa, poiché tale la rende la fede e la speranza della eterna salvezza. L’amore della virtù rende facile ciò che a voi altri sembra duro. Al contrario la via del vizio in verità è angusta e conduce al precipizio eterno”. Questo parlare non piaceva ai Gentili, per cui gridarono che si facesse tacere questo empio, che screditava la loro religione. Pertanto il giudice disse a san Leone che si risolvesse a venerare i loro dei. Il santo rispose essere ciò per lui cosa impossibile. Il giudice ordinò allora che san Leone fosse flagellato. Mentre i carnefici si affaticavano a tormentarlo, il santo tutto soffriva senza neppure lamentarsi. Il giudice intanto lo minacciava di maggiore tormenti se non sacrificava agli dei. Il santo rispose: “Io non conosco questi dei né mai sacrificherò ad essi. Soggiunse il tiranno: “Almeno di’ che i nostri dei sono grandi, mentre io compatisco la tua vecchiaia”. Rispose san Leone: “Sono grandi per rovinare le anime che li adorano”. Infuriato il giudice disse: “Io comanderò che tu sia trascinato sopra le pietre e così morirai di spasimo”. E il santo rispose: “Qualunque genere di morte mi è cara, perché mi conduce al cielo e a quella vita che al partire da questo mondo mi sarà data da Dio, perché abiti insieme con i santi”. Il tiranno continuava a dirgli che ubbidisse o almeno confessasse che gli dei salvavano dalla morte. Leone rispose: “Mi sembra che tu sia assai debole, mentre non fai che minacciare senza venire ai fatti”. Da queste parole irritato anche il popolo costrinse il giudice a pronunciare la sentenza che il santo fosse legato per i piedi e trascinato per un torrente. San Leone sentendosi già vicino al suo desiderio di morire per Gesù Cristo, alzati gli occhi al cielo disse: “Ti ringrazio o Padre di Gesù, e mio Signore, che mi dai presto il favore di seguire il tuo servo Paregorio. Ti lodo perché così per mezzo del martirio ricevo il rimedio per cancellare i miei peccati. Consegno l’anima mia in mano dei tuoi angeli, perché io sia per sempre salvo dalla dannazione preparata per gli empi. Ti prego per quel poco che ora mi tocca di soffrire di avere pietà di coloro che mi fanno patire, dando loro la grazia di riconoscerti per Signore del mondo, giacché  tu non vuoi la morte del peccatore. Dunque tutto ciò che io soffro in nome di Gesù Cristo sia a tua gloria nei secoli dei secoli amen. E dopo aver detto amen, in quel supplizio rese lo spirito a Dio e andò a riunirsi con il suo Paregorio, come aveva desiderato. I carnefici gettarono il corpo del santo in una voragine per vederlo stritolato. Ma da qui fu tolto e trovato intero, solo con certe piccole lividure e con la faccia lieta e ridente.

San Liberato e compagni
Mentre regnava nell’Africa Unerico, successore di Genserico e perseguitava i cattolici, nell’anno 485 emise un editto, spinto dai vescovi ariani contro tutti i cattolici. Tutti i ministri della Chiesa cattolica furono esiliati in paesi lontani, dove non avevano per cibo che parte di quella biada che si dava ai cavalli e poi furono privati anche di quella. In questa occasione furono messi in carcere sette religiosi di un santo monastero della provincia Bizzacena, cioè Liberato che era l’abate, Bonifacio diacono, Servo e Rustico suddiaconi, Rogato, Settimo e Massimo semplici monaci. All’inizio furono promesse loro dignità e ricchezze con la grazia del principe, ma essi risposero: “Noi disprezziamo tutto ciò che ci prometti; noi non conosciamo che un solo Dio e una sola fede. Fa’ di noi quel che ti piace, siamo pronti a soffrire tutte queste pene temporali prima delle eterne”. Dopo questa loro protesta furono mandati in prigione, con ordine ai custodi di maltrattarli in modo che si arrendessero. I cristiani di Cartagine, guadagnando le guardie con denari, li visitavano e soccorrevano. Informato di ciò, Unerico ordinò che fossero più strettamente rinchiusi e che da nessuno fossero visitati. Ma vedendo poi la loro costanza nel soffrire tutto pazientemente, ordinò il barbaro che si riempisse di legna secca una barca e che postivi legati i sette religiosi, fosse quella bruciata in mezzo al mare. Mentre essi andavano al supplizio esortavano i fedeli a stare forti nella fede e chiamavano quel giorno della loro morte il giorno della loro salvezza. I soldati che li conducevano tentarono di sedurre Massimo, che era il più giovane, e lo esortavano a non seguire i suoi pazzi compagni, ma a fare una vita felice nella corte del re. Massimo rispose: “In nessun modo voglio separarmi dai miei fratelli e voglio con essi patire il martirio. Dio farà che nessuno di noi si divida dai compagni”. Entrati nella barca, furono tutti legati sulla legna e vi fu appiccato il fuoco, il quale da sé subito si spense, benché i soldati più volte tornassero ad accenderlo. Il tiranno, irritato da tale miracolo, comandò che a tutti fosse fracassata la testa a colpi di remi e subito fu ciò eseguito. I corpi dei santi, gettati nel mare, dalle stesse onde furono subito depositati nel lido, per cui i fedeli col clero di Cartagine onorevolmente li seppellirono. La Chiesa celebra la memoria di questi santi  il 17 agosto.


San Lorenzo
San Lorenzo nacque cittadino romano, come si raccoglie dal sacramentario di San Leone Magno. Probabilmente fu originario spagnolo: altri poi vogliono che sia nato in Spagna, ma che da giovane fosse venuto a Roma. Scrive San Pier Crisologo che quanto egli fu povero dei beni terreni, tanto fu ricco dei celesti. S. Sisto Papa gli prese molto affetto per le sue virtù e dopo averlo fatto uno dei suoi più cari discepoli lo innalzò, benché giovane, al diaconato e lo fece capo dei sette diaconi. Inoltre gli diede la cura dei sacri vasi e delle elemosine ai poveri. L’imperatore Valeriano, all’inizio, fu piuttosto favorevole ai cristiani, ma nell’anno 258 egli mosse contro di loro una crudele persecuzione, specialmente contro i vescovi e gli altri ministri della Chiesa. Perciò il Papa S. Sisto fu tra i primi arrestato, mentre stava per dir messa nel cimitero di Callisto e carico di catene fu posto in prigione. San Lorenzo, avendo saputo ciò, subito andò a trovarlo e vedendolo gli disse (come scrive S. Ambrogio): “Padre,  dove va ai senza il tuo ministro? Che cosa ti è dispiaciuto in me, che ti muova ad abbandonarmi? Diffidi forse di me? Provami prima, e poi scacciami”. Gli rispose S. Sisto: “No, figlio mio, io non ti abbandono, ma a te sono riservati maggiori combattimenti per la gloria di Gesù Cristo. Dopo tre giorni mi seguirai. Iddio per la debolezza della mia età non mi espone che a deboli tormenti ma a te riserva tormenti e vittorie più grandi. Distribuisci subito tutti i tesori della Chiesa ai poveri e preparati al martirio”. San Lorenzo, consolato da queste parole, mentre desiderava di dare la vita per Gesù Cristo, subito dispensò ai poveri tutti i vasi, le vesti, gli ornamenti della Chiesa e i denari che conservava. Quindi ritornò al carcere per vedere il suo santo padre e trovandolo che era condotto al luogo del supplizio, dove era già stato condannato a perdere la testa, si gettò ai suoi piedi e, informandolo della distribuzione dei beni già fatta, gli domandò la sua benedizione con la speranza di seguirlo presto in cielo. Il prefetto di Roma, avendo saputo che san Lorenzo teneva in custodia gli averi della Chiesa, mandò a chiamarlo, e gli ordinò che consegnasse il tutto, perché serviva al principe per il mantenimento dell’esercito. Il santo senza turbarsi rispose che gli desse un po’ di tempo e gli avrebbe fatto vedere quanto era ricca la Chiesa. Nel giro di otto giorni radunò tutti i poveri, che erano nutriti dalla Chiesa, e in un giorno determinato, avendoli fatti schierare in un luogo spazioso, andò a trovare il prefetto e gli disse: “Vieni a vedere i tesori del nostro Dio. Tu vedrai un gran cumulo di vasi e di gemme preziose”. Andò il prefetto e non vedendo che quella moltitudine di poveri si rivolse con occhi  furibondi al santo diacono, il quale vedendolo così turbato gli disse: “Signore, perché ti turbi? L’oro, l’argento e le gemme non sono che terra cavate dalla terra, i poveri in cui con le elemosine sono depositati i tesori della Chiesa sono le ricchezze dei cristiani”. Il prefetto, vedendosi deluso dal santo, subito gli domandò che  rinunciasse a Gesù Cristo e, vedendolo forte nella sua fede, comandò che fosse flagellato con le sferze come schiavo e poi gli minacciò pene più grandi se non si fosse ridotto ad onorare gli dei. Rispose il santo che egli era pronto a patire ogni supplizio, piuttosto che a onorare gli dei che non erano degni di alcun onore. Il prefetto lo fece condurre in prigione e ne diede la cura ad Ippolito, uno degli ufficiali della sua guardia. Ippolito, considerando l’intrepidezza, le gesta e le parole modeste di San Lorenzo aveva già cominciato a venerarlo. I miracoli che poi il santo operò nel carcere perfezionarono la sua conversione. Entrando il santo nel carcere venne un cieco  e avendogli  posto sugli occhi la mano ricuperò la vista; allora Ippolito si fece battezzare. Il giorno seguente il prefetto fece chiamare il santo diacono e cercò con molte promesse e minacce di indurlo a rinnegare Gesù Cristo. Nulla ottenne,  pertanto gli fece slogare tutte le ossa sul cavalletto e lacerare le carni con sferze armate di punte di ferro. Il Santo credette di spirare in quel tormento, per cui pregò il Signore di ricevere l’anima sua, ma udì una voce, la quale gli disse che la sua vittoria non era ancora compiuta e che gli erano riservati maggiori tormenti. Si scrive che questa voce fu sentita da tutti ed anche dal prefetto che allora disse: “Non sentite i demoni che soccorrono questo mago?”. Ma allora un soldato, chiamato Romano, vide un angelo, che in figura di un giovane di grande bellezza asciugava il sangue, che scorreva dalle piaghe del santo martire. Per questa visione Romano si convertì ed accostandosi a San Lorenzo gli chiese il battesimo. Il Santo trovandosi legato mani e piedi sul cavalletto non poté allora consolarlo. Intendendo poi l’imperatore che il santo martire persisteva costante in quel tormento, ordinò che fosse sciolto e ricondotto in prigione, riservandolo a maggiori strazi. Rientrato San Lorenzo in carcere, subito Romano prese un vaso d’acqua e si chiuse col Santo, il quale, trovandolo abbastanza istruito, lo battezzò e lo esortò a prepararsi al martirio che ricevette con gioia il 9 agosto, il giorno precedente a quello in cui fu martirizzato San Lorenzo. Di nuovo il prefetto si fece presentare San Lorenzo e gli disse: “Perché tu con tanta insolenza disprezzi gli dei?”. Rispose il santo: “Perché questi  dei sono tutti falsi, mentre la stessa ragione dimostra che non vi può essere che un solo Dio”. Il tiranno, dopo queste parole, gli fece rompere le mascelle con le pietre e alla fine ordinò che il santo fosse steso sopra una graticola infuocata di ferro, sotto la quale vi erano carboni mezzo accesi, perché il tormento fosse più lungo e più penoso. Ma il santo fatto già intrepido da quel supplizio e vedendo che una parte del suo corpo era abbastanza cotta disse al prefetto: “Se vuoi cibarti della mia carne, questa parte è già cotta: volta e mangia”. Ma poi, alzando gli occhi al cielo e manifestando la gioia con cui moriva, rese serenamente lo spirito a Dio il 10 agosto dell’anno 258. Ippolito con un altro sacerdote chiamato Giustino prese il suo corpo e lo sotterrò in una grotta del campo Verano, dove poi fu fabbricata una chiesa famosa. Il numero delle chiese edificate in onore di San Lorenzo è  grande in tutto il mondo cristiano. Quasi tutti i santi padri hanno celebrato le glorie di San Lorenzo e Prudenzio attribuisce la conversione di Roma soprattutto al martirio di questo grande santo.


San Lucio e compagni
La storia di questi santi è composta in parte da una lettera scritta dagli stessi martiri e in parte da ciò che ne scrisse un cristiano testimone oculare del loro martirio. Essi patirono nell’Africa, nell’anno 158, sotto la persecuzione dell’imperatore Valeriano. Dopo la morte di Galerio, Massimo governatore dell’Africa, presidente della provincia che comandava sino all’arrivo del nuovo governatore, fece arrestare Lucio, Montano, Flaviano, Giuliano, Vittorico, Primolo , Remo e Donaziano, tutti cristiani e discepoli di San Cipriano. Primolo e Donaziano erano ancora catecumeni. La lettera scritta dai medesimi santi martiri in succinto dice così: “Dopo che  fummo arrestati, fummo custoditi presso gli ufficiali del quartiere e di là condotti in prigione, dove l’orrore ed il puzzo non ci spaventò ma ci rallegrò come fossimo entrati in cielo. Qui  vennero a trovarci i cristiani, nostri fratelli, che con le loro parole e sollievi ci facevano dimenticare le pene che pativamo. Poi ci condussero al presidente, ma quegli senza esaminarci  ci rimandò in carcere, nel quale molto soffrimmo per la fame e per la sete, poiché anche agli infermi era negato un bicchiere d’acqua fresca; ma il Signore in quelle angustie non lasciava di consolarci con i suoi celesti ristori”.
Furono i santi martiri trattenuti molti altri mesi in carcere, nel quale tempo morirono due di loro, uno dopo aver ricevuto il battesimo e l’altro prima di riceverlo, ma dopo aver confessato Gesù Cristo. Furono poi presentati al governatore, davanti al quale i parenti e gli amici di Flaviano, per salvargli la vita, dissero che egli non era diacono come aveva confessato, poiché per i secolari non vi era la pena di morte. Egli pertanto fu rimandato in prigione e gli altri furono condannati; questi andavano tutti allegri al supplizio. Lucio, poiché era malato e poiché temeva di essere oppresso dalla folla e così non ottenere l’onore di spargere il sangue insieme con gli altri per Gesù Cristo, si fece condurre avanti degli altri. Quelli che l’accompagnavano gli dicevano: “Lucio ricordati di noi!”. Ed esso rispondeva per umiltà: “Anzi, voi ricordatevi di me”. Montano, essendo vicino al martirio, ripeteva ad alta voce: “Chi sacrifica ad altri dei, all’infuori del vero Dio, dal Signore sarà sterminato”. Esortava ancora gli eretici a ritornare alla Chiesa, dicendo loro che dovevano riconoscerla per vera, almeno per i tanti martiri che per quella avevano dato la vita. Pregava i peccatori a fare penitenza e gli altri a stare costanti e raccomandava finalmente a tutti l’osservanza dei divini precetti. Prima di ricevere il colpo della morte, alzò le mani al cielo e pregò Dio che Flaviano lo seguisse nel terzo giorno (come infatti seguì). Come  certo della grazia divise il fazzoletto che teneva per bendarsi gli occhi e disse che l’altra fosse conservata per Flaviano e così compì il suo martirio. Flaviano intanto, mentre era condotto in prigione, stava molto afflitto nel vedersi separato dai suoi fratelli che già morivano per Cristo e si consolava solo con la volontà di Dio che così disponesse. Sua madre, la quale pure stava afflitta per vedere che il figlio non riceveva il martirio come gli altri, cercò di consolarla come meglio potè. Ma giunto al carcere confidava nella preghiera fatta per lui da Montano, di morire nel terzo giorno dopo la sua morte. E fu consolato, poiché, venuto il terzo giorno, il governatore se lo fece presentare di nuovo. Mentre era condotto, alcuni pagani, che erano stati  suoi amici, lo pregarono di sacrificare agli dei, dicendo che era una pazzia preferire la morte alla vita presente. Flaviano rispose che, anche se non fossimo noi obbligati a venerare il Signore che ci ha creato e  non vi fosse premio per coloro che gli sono fedeli, pure sarebbe cosa indegna  adorare per dei legni e pietre. Il governatore gli domandò perché dicesse di essere diacono, mentre non lo era. Ed egli rispose che esso diceva la verità. Il popolo, che in questo modo voleva salvargli la vita, chiese che egli fosse posto alla tortura perché dicesse la verità. Il governatore pronunciò contro di lui la sentenza di morte. Mentre andava al supplizio sopravvenne una grande pioggia. Il martire, portato in un albergo, ebbe la possibilità di parlare e di accomiatarsi dai suoi fratelli cristiani che lo accompagnavano. Giunto  poi al luogo della sua morte, raccomandò ai medesimi di conservare fra di loro la pace. Finito che ebbe di parlare si bendò gli occhi con la metà del fazzoletto lasciatogli da Montano e postosi in ginocchio pregando ricevette il colpo e consumò il suo martirio.

 

 

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